martedì 27 marzo 2018

le attività estrattive di idrocarburi e i terremoti nell'Adriatico: una connessione totalmente sballata


Ancora una volta, dopo un evento sismico nell'Adriatico, sono circolate voci sulla presunta origine antropica dell'evento (ovviamente per colpa "delle trivelle"). Qualcuno ha persino affermato che nel mare a largo delle coste adriatiche pugliesi non ci siano faglie... Pertanto voglio tornare nuovamente sulla questione per precisare ancora una volta cosa sia la sismicità indotta e come il termine "trivelle" non sia particolarmente azzeccato per descrivere la situazione. La cosa più "divertente" poi è che se per trivelle intendiamo "perforazioni"... beh.. fra le attività connesse allo sfruttamento degli idrocarburi è proprio quella che NON è in grado di produrre sismicità...

La mappa del Ministero dello Sviluppo Economico con le concessioni a largo della Puglia
In rosso l'area di produzione attuale, mentre la stella indica l'epicentro dell'evento del 24 marzo
Il terremoto M 3.7 di sabato 24-03-2018 ore 00:31:56 (ora italiana) a largo della costa adriatica brindisina ha scatenato il solito putiferio per le (im)possibili connessioni con l’attività estrattiva, come era successo nel dicembre 2015 in occasione di una sequenza sismica avvenuta nell’Adriatico centrale.
Anche stavolta l'ipocentro dell’evento è intorno ai 28 km di profondità, troppo elevata per parlare di sismicità indotta, e Aquila, il campo petrolifero più vicino, si trova a più di 50 km di distanza (la zona interessata alla coltivazione è quella in rosso nella carta). Già questi due dati dimostrano che non è possibile la minima connessione fra le due cose. Ma siccome la prassi scientifica vuole che si motivi una affermazione del genere, vado avanti a parlarne.

Esempi di sismicità indotta da attività antropiche
LA SISMICITÀ INDOTTA DALLE ATTIVITÀ ANTROPICHE. Giova ribadire che nessuno nega la presenza della sismicità indotta dalle attività connesse all’estrazione degli idrocarburi. Solo che questo avviene solo in determinati e particolari frangenti.
Mi sono occupato spesso del problema. In cosa consiste la sismicità indotta di origine antropica? Ne ho parlato per esempio qui. Riassumendo, una superficie di faglia è normalmente bloccata a causa dell’attrito; per permettere il movimento lo sforzo deve superare l’attrito e affinché succeda o diminuisce l’attrito o aumenta lo sforzo. In Natura in genere è “la seconda che ho detto”: gli sforzi tettonici immagazzinati nella crosta terrestre aumentano fino a quando il piano si muove. Solo in pochissimi casi si ha una diminuzione dell’attrito. 
La sismicità indotta avviene quando le attività antropiche rimettono in movimento vecchie faglie che ormai non sarebbero più in grado si muoversi da sole e si differenzia da quella naturale anche per le sue modalità di svolgimento. Alcune attività antropiche possono quindi provocare dei cambiamenti nello stato di sforzo del sottosuolo e mettere in movimento delle faglie. Se si tratta di faglie ormai non più attive perchè formatesi in una fase tettonica ormai esaurita da tempo (ad esempio quelle delle pianure degli USA centrali, che devono la loro formazione all'orogenesi Varisica oltre 200 milioni di anni fa, si parla di sismicità indotta, che ha un comportamento molto diverso da quella naturale. Se invece le attività antropiche influenzano un a faglia attiva, che si sarebbe comunque mossa in futuro si parla di sismicità attivata; questa, al contrario di quella indotta, si comporta in modo più simile a quella naturale. Ho anche parlato specificamente della sismicità indotta sul territorio italiano.

Mi soffermo in questo post esclusivamente sulla sismicità indotta connessa all’attività petrolifera, perché è quella ipoteticamente (e completamente erroneamente) chiamata come causa dell’evento sismico di qualche notte fa. 

ESTRAZIONE DI IDROCARBURI E SISMICITÀ INDOTTA. In genere l’attività di estrazione di idrocarburi è connessa invece al primo caso e cioè la diminuzione dello sforzo lungo un piano di faglia bloccato.  E questo succede a causa di una attività secondaria, la reiniezione nel sottosuolo delle cosiddette acque di strato, acque estratte insieme al petrolio ma che devono esservi separate prima della spedizione del greggio per alcuni ovvi motivi: 
  • il trasporto di greggio misto ad acqua costerebbe di più perché ci sarebbe più roba da trasportare (e per giunta più pesante del greggio stesso!)
  • se non venisse fatta nella località di estrazione, questa separazione andrebbe fatta nella raffineria

Queste acque sono particolarmente inquinanti e non a causa della attività mineraria, semplicemente per i composti che vi sono stati sciolti nei milioni di anni che sono passati dalla formazione del giacimento ad oggi; in particolare hanno una salinità altissima (oltre 10 volte quella media del mare!). Pertanto non possono essere disperse nell'ambiente; le soluzioni sarebbero due: depurarle o reimmetterle nel sottosuolo, più o meno esattamente dove erano. La seconda soluzione è preferibile, per costi, per questioni ambientali (l’acqua torna più o meno dov’era) e anche perché la reiniezione consente di migliorare la produttività del giacimento.
Il problema è che in ALCUNI CASI SPECIFICI, la reiniezione delle acque di strato può provocare sismicità indotta perché aumenta la pressione dei liquidi lungo delle faglie, diminuendone l’attrito. Il primo caso accertato non riguarda l’attività petrolifera: fu individuato nel 1966: si trattava di una forte produzione di acque inquinate derivate dalla produzione di armi, che venivano iniettate nel sottosuolo a scopo di smaltimento nei dintorni di Denver, a partire dal 1961[1].

CASI ACCERTATI DI SISMICITÀ INDOTTA CONNESSI ALLO SFRUTTAMENTO DI GIACIMENTI DI IDROCARBURI. In generale dove la reiniezione avviene nei sedimenti ma in zone prossime al basamento roccioso, oppure se le acque di strato vengono pompate in acquiferi confinati all’interno di una zona precisa a causa della presenza intorno di rocce impermeabili. La cosa è avvenuta nel 2006 anche in Basilicata, per la reiniezione a Costa Molina. 
In entrambi i casi con l’effetto dell’aumento della pressione lungo le faglie preesistenti, diminuendione l’attrito che le tiene ferme. In aggiunta a queste caratteristiche geologiche, la discriminante antropica non è il volume di liquidi reinniettati, ma l’elevato tasso di reiniezione. Questo è chiaro, ad esempio, per la sismicità indotta negli USA centrali [2]. In particolare in Oklahoma ci sono chiare evidenze di un rapporto fra reiniezione e sismicità fino dagli albori dell’attività estrattiva nella prima metà del XX secolo [3]. Dal 2017 in questo ultimo Stato la limitazione del tasso di reiniezione ha per fortuna diminuito drasticamente la sismicità, che tra 2014 e 2016 ha prodotto eventi a M superiore a 5, i quali, vista anche la bassa profondità, hanno provocato danni ad edifici costruiti in un’area in cui la sismicità naturale non era certo un problema.

La zona di origine dei terremoti sotto un campo di estrazione di metano
nel Western Sedimentary Basin in Canada
PROFONDITÀ DELLA SISMICITÀ INDOTTA. Da questo segue che l'attività antropica è in grado di generare solo terremoti a profondità molto ridotta (diciamo non oltre gli 8 km) e che, vista la profondità ipocentrale e la distanza dai campi petroliferi, da un lato gli strepiti sulle trivelle come causa dei terremoti dell'Adriatico del dicembre 2015 e di quello della notte fra venerdì e sabato scorsi sono, mi si permetta il termine, delle emerite cazzate. C'è poi chi afferma, sbagliando, che qualsiasi terremoto avvenuto a profondità inferiore a 10 km sia di origine antropica. È un errore che denota impreparazione scientifica e volontà di piegare i dati alle proprie convinzioni o convenienze. non lo sono di sicuro quelli emiliani del 2012, ad esempio (come ho scritto qui), tantomeno quelli della crisi sismica iniziata il 24 agosto 2016 nell’Italia Centrale. In buona sostanza: i terremoti dovuti ad attività antropica hanno tutti lun ipocentro abbastanza superficiale (inferiore ai 10 km), ma non tutti i terremoti superficiali hanno origine artificiale.

In alcuni casi invece sono proprio le attività estrattive che provocano sismicità. È successo in Olanda e nel Canada occidentale. Come dimostra il caso del Western Sedimentary Basin in Canada, dove si estrae alternativamente petrolio e gas, questo problema è limitato alla sola estrazione di gas [4]. Il fenomeno avviene perché la pressIone del gas è maggiore di quella di petrolio e quindi la sua estrazione – sempre in alcuni casi particolari -  può risultare in una modifica del campo di sforzo regionale dovuta alla compattazione del sottosuolo nelle zone dove il gas è stato estratto [5]. In Olanda sono state prese delle precauzioni affinché ciò non succeda più: in particolare a Groeningen è stato diminuito il tasso di estrazione del gas. In questi casi, dunque, l’innesco della sismicità è invece dovuto a modificazioni del campo di sforzo tettonico.

NO. L'AIRGUN NON C'ENTRA NIENTE. Qualcuno ha poi adombrato l’ipotesi che tecniche come l’airgun possano provocare terremoti. Che cos’è l’airgun? È una tecnica usata per l’ispezione geofisica dei fondali marini. Come dice il nome si tratta di una “pistola ad aria”, quindi un dispositivo che spara aria compressa in acqua: le onde acustiche prodotte dal dispositivo si propagano sotto il fondale, dove subiscono cambiamenti di velocità, riflessioni e rifrazioni lungo le discontinuità litologiche; le onde vengono registrare da una rete di ricevitori, gli idrofoni. Confrontando le onde ricevute dai vari idrofoni e i diversi tempi di arrivo è possibile ricostruire la stratigrafia del sottosuolo. In questo modo vengono individuate la struttura e la litologia del terreno e la eventuale presenza di gas o di liquidi. Queste indagini sono quindi fondamentali per la ricerca off-shore di idrocarburi, ma lo sono anche per la ricerca geologica di base e, rimanendo sul pratico, per l’individuazione di faglie attive sotto il fondo marino.

Ma l’airgun può innescare terremoti? Assolutamente no! Senza dare delle misure che coinvolgono complessi calcoli e valori delle unità di misura all’ennesima potenza di 10, difficilmente apprezzabili dai non addetti ai lavori, sarebbe più o meno come pensare che una formica possa spostare un masso che neanche un uomo riesce a muovere… Quindi chi afferma ciò o parla di cose di cui non sa niente o è in malafede. Nel primo caso farebbe bene a stare zitto per decenza. Nel secondo starebbe zitto se solo avesse un po' di onestà intellettuale.
Non entro nel merito della questione del disturbo ai mammiferi marini, semplicemente perchè non è il mio campo e non sono in grado di dare un giudizio scientificamente appropriato. 

Questa è una trivella: un attrezzo per perforare il terreno,
ma solo nei primi metri e non per andar ein profondità!
"TRIVELLE": UN TERMINE FUORVIANTE. Ed ora veniamo ad una questione terminologica. Odio il termine “trivelle”, perché è applicato in maniera assolutamente impropria. È vero: una trivella è uno strumento per perforare il terreno; ma è un qualcosa che serve solo per cose molto superficiali, non certo per scavare pozzi esplorativi o estrattivi profondi vari kilometri…
Siamo quindi davanti al solito pessimo esempio di un ambientalismo di bassa lega, dalle scarse conoscenze scientifiche, che fa più danni all’ambiente di quelli che ci sarebbero senza (d’accordo… io sono considerato un ambientalista eretico...)
Inoltre il termine denota una certa confusione fra perforazioni a scopo esplorativo, perforazioni a scopo di produzione di idrocarburi, estrazione stessa e reiniezione delle acque di stato.
Insomma, ci sono ben quattro attività diverse che vengono, al solito deliberatamente o inconsapevolmente, confuse nel termine “trivelle”:
Un pozzo petrolifero:
enormemente più complesso di una trivella

  1. perforazioni a scopo esplorativo: dopo che prospezioni geofisiche (per esempio nei giacimenti offshore l’airgun) hanno indicato la probabile presenza di idrocarburi, una perforazione esplorativa arriva in profondità, più o meno al centro del presunto giacimento, per verificare praticamente quanto ipotizzato
  2. perforazioni a scopo estrattivo: una volta che il pozzo esplorativo ha chiarito che qualità e quantità di idrocarburi sono interessanti, vengono perforati i pozzi produttivi
  3. pompaggio dal sottosuolo: viene effettuato dai pozzi produttivi
  4. pompaggio nel sottosuolo: se il petrolio estratto contiene salamoie saline, queste vengono reiniettate nel giacimento. Per farlo in genere si usano pozzi produttivi già scavati, ma alle volte i pozzi di reiniezione vengono appositamente perforati

Noto inoltre, dal punto di vista sismico, che l’attività di perforazione (che sarebbe quella più vicina al termine “trivelle”...),  è proprio quella NON in grado di indurre sismicità, che semmai, come abbiamo visto, è indotta dai pompaggi (dal sottosuolo o nel sottosuolo)
Quindi non sono “le trivelle” che generano sismicità.

Da ultimo mi si permetta una considerazione: che gli idrocarburi facciano danni ingenti è ineccepibile, ma lo fanno essenzialmente quando vengono bruciati, sia in termini di gas-serra che in termini di inquinamento atmosferico. Gli incidenti durante la produzione e/o il trasporto sono stati alle volte molto gravi ma hanno una incidenza men che trascurabile sul problema generale dell’inquinamento atmosferico e delle acque e di quello delle emissioni di gas-serra. 
Essere contro eventuali attività petrolifere nei mari italiani, ma continuare ad usare l’automobile è una contraddizione in termini. Anche se da un lato mi pare che sarebbe il caso di estrarre i nostri idrocarburi solo quando i prezzi diventeranno particolarmente alti e non a quelli attuali. Dall’altro lato invece il petrolio e il gas italiano sarebbero “prodotti a km zero” e quindi il loro impiego diminuirebbe le emissioni per il trasporto del greggio dai luoghi di produzione a quelli di raffinazione in Italia. 

1  Evans (1966) The Denver area earthquakes and the Rocky Mountain arsenal disposal The Mountain Geologist, 3-1, 23-16
2 Weingarten et al. (2015): High-rate injection is associated with the increase in U.S. mid-continent seismicity. Science 348; 1336 – 1340
3 Hough e Page 2015 A Century of Induced Earthquakes in Oklahoma? Bulletin of the Seismological Society of America, Vol. 105, No. 6, pp. –, December 2015, doi: 10.1785/0120150109
4. Baranova et al 1999 A model for induced seismicity caused by hydrocarbon production in the Western Canada Sedimentary Basin Can. J. Earth Sci. 36: 47–64
5 van Thienen-Visser e Breunese (2015) Induced seismicity of the Groningen gas field: History and recent developments The Leading Edge June 2015 pp.664 – 671
6.  Wetmiller, R.J. 1986. Earthquakes near Rocky Mountain House,
Alberta, and their relationship to gas production facilities. Cana-
dian Journal of Earth Sciences, 23: 172–181

mercoledì 21 marzo 2018

Il rilevamento con il drone Saturn della frana di Marano (Appennino bolognese)


Nel monitoraggio delle frane i droni rappresentano una risorsa importante perché riescono a fornire modelli digitali del terreno in modo rapido ed economico. La messa a punto di un sistema del genere non è però semplice e soprattutto occorre un'aeromobile che riesca ad avere una navigazione molto precisa, senza la quale la produzione del modello del terreno non sarebbe così accurata da osservare variazioni centimetriate fra un rilevamento e l'altro. Il gruppo di Geologia Applicata del Dipartimento di Scienze della Terra ha sviluppato e brevettato proprio per queste esigenze una specifica famiglia di droni, i Saturn. In questo post presento ad esempio quello che è stato fatto per il monitoraggio della frana di Marano, nell'Appennino bolognese.


Il fronte della frana sul fiume Reno a Marano:
si nota la parziale occlusione dell'alveo
Nella valle del Reno, come in tante altre località collinari e montane italiane, l'aumento della presenza umana ha ulteriormente alterato il precario equilibrio che in secoli di storia si era instaurato fra le attività umane e i processi naturali; per cui i fenomeni naturali che fanno parte della natura stessa del territorio, come le frane, possono arrecare oggi molti più danni di prima a causa della distruzione di edifici e siti produttivi o l’interruzione delle vie di comunicazione.


Un evento del genere è avvenuto il 3 marzo 2018, quando si è innescato un movimento franoso a Marano, località del comune di Gaggio Montano, in riva sinistra del Reno. Nelle prime fasi la frana ha deformato il vecchio percorso della strada statale 64 Porrettana, che ora, dopo la costruzione di una variante, serve solo al traffico locale, rendendolo inutilizzabile; nelle ore e nei giorni successivi i movimenti sono continuati, coprendo definitivamente quello che restava della strada ed arrivando al fiume, il cui alveo è stato parzialmente ostruito. 
erosione di sponda in riva destra sotto la ferrovia
in corrispondenza della frana in riva sinistra
A questo punto sono iniziati altri guai, perché, anche se per fortuna lo sbarramento non è stato totale, si è registrato un deficit di deflusso e quindi il restringimento ha provocato a monte l’innalzamento del livello delle acque; inoltre coincidenza ha voluto che in quel punto l’alveo presenti una leggera ansa verso sinistra, per cui due giorni dopo una piena, dovuta alle forti precipitazioni e al parziale scioglimento delle nevi cadute in precedenza, ha provocato l’erosione di un tratto della sponda destra del Reno, mettendo in pericolo la massicciata della ferrovia porrettana, che si trova subito sopra; di conseguenza anche la ferrovia è stata interrotta tra Riola e Porretta Terme, e lo rimarrà fino a quando la sponda non verrà rinforzata. La variante della statale Porrettana, invece, che corre poco sopra la ferrovia, non ha subìto problemi (se non le classiche “code per curiosi”...).


Non è la “prima edizione” di questa frana: si era mossa già 22 anni fa, distruggendo due case proprio lungo la statale porrettana, che non sono state poi ricostruite (e che, fra l’altro, sarebbero state distrutte di nuovo).

Gli abitanti del posto ricordano come nel 1996 le prime avvisaglie dell’evento furono delle fuoriuscite di acqua nel pendio e una curiosa coincidenza sta nel fatto che anche in quella occasione il fenomeno avvenne in corrispondenza di importanti nevicate. La zona di coronamento presenta inoltre tracce di altri movimenti avvenuti negli anni successivi al 1996.
Il risultato di tutto questo è stato la trasformazione in una valle di un dolce pendio coltivato a graminacee.


I DRONI DELLA FAMIGLIA SATURN. Per studiare l’evolversi della situazione sono stati installati diversi strumenti di monitoraggio, fra i quali un interferometer radar da terra messo a disposizione dal Dipartimento di Scienze della Terra (DST) dell’Università di Firenze (che già 22 anni fa fu fra gli enti che studiarono la situazione), del tipo di quello impiegato due anni fa per la frana del Lungarno Torrigiani.
Un aspetto molto importante dello studio di una frana è il poter ricostruire i movimenti del terreno precedenti al momento in cui il fenomeno si è evidenziato e a questo possono provvedere i dati satellitari pregressi prodotti dai radar interferometrici (InSAR, ne ho parlato qui a proposito del disastro della diga del Fundao, in Brasile); ma è necessario per capire la situazione attuale anche anche un modello digitale aggiornato del terreno (DTM – Digital Terrain Model). Per ottenerlo con una buona precisione la cosa più semplice è l’utilizzo di un drone.
Per farlo il DST ha utilizzato una macchina della famiglia Saturn, descritto in questo filmato: si tratta di una serie di droni sviluppati specificamente per il monitoraggio del terreno di cui il DST produce direttamente il telaio grazie ad una stampante 3D. I droni Saturn sono un brevetto dell’Università di Firenze; consistono in un telaio ad anello in cui sono posti i motori (in genere 6); la strumentazione viene alloggiata in una parte centrale collegata non rigidamente con l’anello da alcune braccia (da questo si capisce il perché del nome… in volo sembra proprio Saturno)
Il risultato è un telaio rigido ma nel contempo leggero, dove sensore di volo e strumentazione sono posti al centro del drone disaccoppiati dalle vibrazioni dei propulsori, mantenendo eccellenti doti di manovrabilità e basso consumo delle batterie, per cui la dinamica di volo è ottimale.


PRODUZIONE DI UN MODELLO DIGITALE DEL TERRENO CON UN DRONE. L’esecuzione di una missione del genere necessita di diverse fasi. Alla base c’è un software utilizzato sfrutta gli stessi trucchi che usa il cervello umano per elaborare le immagini ed ottenere la profondità di campo, e quindi, anche se la cosa potrà stupire in un’epoca in cui si parla di satelliti, interferometria, infrarossi ed ultravioletti, si utilizza una normalissima fotocamera nel visibile.

Un bersaglio utilizzato
per geo referenziare le immagini
La prima fase è una ricognizione topografica, che può essere effettuata in situ ma anche in modo virtuale, tramite la quale vengono determinati l’area da rilevare, uno o più siti da dove partire e i relativi piani di volo, consistenti in una serie di “strisciate” ottimizzate per fotografare in continuo la superficie che si vuole esaminare. Il numero di voli necessario è determinata sia dall’estensione dell’area in oggetto (i droni per forza di cose hanno una autonomia limitata dalla corrente elettrica delle batterie, che ovviamente non devono essere pesanti più di tanto) che dalle condizioni atmosferiche: una giornata senza vento consente di lavorare più speditamente con meno consumo di batterie rispetto ad una giornata ventosa (e in ogni caso un vento superiore ai 7 metri al secondo mette in grossa difficoltà l’aeromobile).
Il drone Saturn inoltre scatta l’immagine esattamente nel punto GPS stabilito dal piano di volo, minimizzando gli errori di puntamento. Il vero nemico, oltre ad un vento troppo forte, è la pioggia, specialmente con apparecchi di piccole dimensioni.


Saturn in volo sulla frana,
prova anemometrica prima del volo
e gli operatori che sorvegliano il volo
Arrivati sul posto, un controllo delle condizioni meteorologiche è necessario per stabilire se il piano di volo precedentemente studiato a tavolino sia fattibile o no. Inoltre si rende necessario il collocamento ai margini della zona di volo di alcuni bersagli visibili dal drone. L’operatore che posiziona i bersagli ne misura anche le coordinate con un sensore GPS RTK (palmare). Questi bersagli sono necessari per il processamento finale delle immagini, in quanto consentono la georeferenziazione sicura di quei punti, fondamentale sia per il DTM che per l’ortofotocarta. In genere vengono posti su due linee che delimitano la zona delle operazioni.


Durante il volo un operatore con il radiocomando che funge da interfaccia pilota il drone, rimanendo sempre in contatto con esso nel rispetto della normativa vigente e anche per riportarlo a terra in caso di necessità. Con il radiocomando vengono continuamente monitorati diversi parametri, da quelli di volo (posizione, inclinazione) a quelli tecnici come la carica delle batterie; un secondo operatore guarda da uno schermo quello che inquadra la telecamera del drone.

Dopo il volo le immagini vengono scaricate su un computer e viene ricavato un primo modello del terreno, a bassa risoluzione; questa fase serve per controllare che le immagini acquisite coprano tutta l’area necessaria per la successiva elaborazione, che verrà effettuata con lo stesso software, ma a risoluzione molto più dettagliata.
La frana di Marano è larga circa 100 metri al coronamento e 160 al fronte, ed è lunga circa 700 metri. Queste dimensioni potevano consentire teoricamente un unico volo. Purtroppo il vento ha costretto gli operatori a suddividere il rilevamento in tre voli distinti durati 12 minuti circa ciascuno. Così, mentre due operatori sono andati a mettere i bersagli, il pilota del drone ne ha riprogrammato il software.
In particolare sono stati effettuati un primo volo partendo dal coronamento, un secondo partendo dalla zona in cui la vecchia statale in riva sinistra del Reno è stata invasa dal corpo di frana e una terza partendo dalla riva destra del fiume sopra la ferrovia. Tutti e tre hanno avuto esito positivo in quanto, nonostante il vento, i piani di volo sono stati rispettati e le immagini regolarmente acquisite.
Il primo risultato, con il software “veloce” e ottenuto elaborando sul posto le immagini è questo:


Il modello digitale del terreno a bassa risoluzione ricavato nello stesso giorno.
Si evidenziano i solchi che sono stati tracciati nel corpo di frana per agevolare il ruscellamento


Nei giorni successivi le immagini verranno processate in sede fino ad ottenere una risoluzione centimetrica.

Sorvoli in giorni successivi potranno inoltre evidenziare tramite il confronto dei diversi DTM se e dove il corpo di frana si sia ulteriormente mosso con precisione centimetrica.


DTM di una cava ottenuti con
la stampante 3D
STAMPAGGIO IN 3D DEI DTM. I DTM possono anche essere usati per creare una stampa a 3D del terreno. Ne vediamo qui a destra un esempio che si riferisce ad un rilievo effettuato presso una cava di materiali lapidei.
In buona sostanza, il rilevamento con un drone di un corpo franoso fornisce un modello digitale del terreno preciso e acquisito con rapidità in modo sostanzialmente economico e che può essere agilmente ripetuto più volte.

lunedì 12 marzo 2018

Un possibile aiuto insperato nella lotta contro l'aumento del CO2 atmosferico


Per diminuire il tenore di CO2 atmosferico la soluzione più efficace (oltre a smettere di produrne, ma è irrealizzabile, ora come ora) sarebbe quello di sottrarre il gas all’atmosfera, soluzione nota come CCS (cattura e stoccaggio del Carbonio). Per adesso il CCS è un costo per gli emettitori, anche se servirebbe ad evitare i costi futuri dovuti ai cambiamenti climatici e dunque è un problema: bisognerebbe quindi trovare il verso di trasformare le emissioni da problema ad opportunità. In che modo? Trovando un uso per questo CO2. La cosa apparentemente surreale è che in prospettiva il miglior cliente per il CO2 prodotto con l’uso dei combustibili fossili sarebbe... l’oil & gas, che sfrutta già adesso il gas per aumentare la resa dei giacimenti, specialmente di quelli di petrolio.


Nel 2017 le emissioni di CO2 sono nuovamente aumentate
dopo una stasi negli anni precedenti
LA NECESSITA' DI STOCCARE IL CO2 IN ECCESSO. Siccome un massiccio taglio delle emissioni di CO2 è molto difficile (o, meglio, una "mission impossible"), c'è solo un'altra soluzione per prevenire ulteriori problemi ambientali: prelevare in qualche modo il CO2 prodotto per isolarlo dall'atmosfera. Sia l’IPCC che l'Agenzia internazionale dell'energia (AIE) hanno evidenziato il ruolo fondamentale della cattura e dello stoccaggio permanente del CO2 (CCS – Carbon Capture and Storage) per soddisfare gli obiettivi della riduzione delle emissioni globali di CO2. Si tratta di una serie di operazioni volte, come dice il nome, a catturare permanentemente almeno una parte dell’eccesso di CO2 prodotto dall’attività antropica. In questo momento nel mondo ci sono 17 impianti di CCS, altri 4 sono in arrivo nel 2018 e anche la Cina si sta attivando in proposito. È stato calcolato che per raggiungere l'obiettivo di Parigi dell’innalzamento di solo 2°C delle temperature globali, il 14% della riduzione delle emissioni deve essere derivato dal CCS; per farlo, ci sarebbe bisogno di 2500 impianti del genere nel 2040. 


I COSTI ELEVATI DELLA CATTURA E DELLO STOCCAGGIO DEL CARBONIO. L’aspetto più importante del problema è economico: giova ricordare che il nostro modo di vivere è dovuto essenzialmente alla presenza di energia in grande quantità e a basso prezzo e il CCS viene visto come un ostacolo per l'industria dei combustibili fossili (sia per l’Oil & Gas che, a maggior ragione, per il carbone): nelle centrali elettriche catturare il CO2 prodotto comporta un maggior consumo di energia ed altri costi; però in questo momento si tratta dell'unica tecnologia in grado di affrontare il problema delle emissioni, attuali e future, anche considerando che ci sono oltre 500 nuovi impianti a carbone attualmente in costruzione in tutto il mondo e ne sono stati pianificati altri 1.000 (per India, Cina e altre nazioni il carbone rimane sempre la più rilevante forma di produzione di energia elettrica e ancora oggi non solo negli USA, ma anche in Europa, il suo apporto è significativo) e che non esiste un impianto a carbone non importa se si tratti di un impianto tradizionale, o di uno dei nuovi impianti a minori emissioni noti come “HELE” (alta efficienza a basse emissioni) che possa avere un bilancio emissivo meno che decente senza un sistema di CCS.
Il CO2 ha diversi usi industriali però, siccome il tenore atmosferico è pur sempre troppo basso per poterlo ricavare dall’aria con una certa sostenibilità economica, in genere viene estratto appositamente da sacche nel sottosuolo (esattamente come gli idrocarburi…); di fatto distillarlo direttamente dai fumi degli emettitori sarebbe l’unico sistema alternativo economicamente sostenibile perché in questi fumi il tenore di CO2 è ben più elevato di quello atmosferico. In ogni caso i quantitativi attualmente richiesti dall’industria non rappresentano che una percentuale ridottissima rispetto alle emissioni.  

Stoccaggio geologico del CO2 
COME STOCCARE IL CO2 IN ECCESSO. Il sistema principale per stoccare il CO2 è geologico: il gas viene iniettato nel sottosuolo a profondità maggiore di 800 m, dove a causa della pressione ivi esistente si trova in una fase densa in cui si comporta come un liquido e tuttavia è ancora un gas. Nel tempo viene immobilizzato nell'ambiente da diversi processi come l’intrappolamento nei pori della roccia, la dissoluzione in acqua, le reazioni minerali con i minerali della roccia serbatoio. Anche in questo stato denso il CO2 è, comunque, più leggero del resto del liquido presente nella falda e quindi ne va evitata la fuga verso l’alto: quindi al di sopra della roccia – serbatoio devono esistere delle efficaci barriere geologiche, in genere strati impermeabili argillosi o scistosi che sigillano il giacimento di CO2 che è stato creato, nello stesso modo in cui petrolio e gas sono rimasti intrappolati nei sistemi naturali per milioni di anni.
L'Unione Europea ha emanato una direttiva per gli Stati membri (e gli Stati associati, come la Norvegia) che desiderano effettuare uno stoccaggio geologico di CO2, fissando criteri rigorosi per la selezione dei siti, le operazioni di iniezione, il monitoraggio e la verifica e le procedure di chiusura definitiva, al fine di garantirne l’efficacia.



Lo stoccaggio geologico di CO2 viene essenzialmente effettuato pompando il gas in falde acquifere contenute in rocce evaporitiche (sali): attualmente sulla Terra la formazione di rocce evaporitiche è ai minimi nel tempo geologico, ma in molte aree nel passato si sono formati spessi depositi di sale. Anche i giacimenti di petrolio e gas esauriti sono una buona soluzione per effettuare un CCS e, in più, hanno un plus rappresentato dalla presenza costante al di sopra una roccia che blocca la risalita del gas (altrimenti non ci sarebbe stato il giacimento...)


STOCCAGGIO DI CO2 IN REGNO UNITO E NORVEGIA. La compagnia petrolifera di stato norvegese, la Statoil, ha avviato il primo progetto al mondo per lo stoccaggio geologico sotto il Mare del Nord in una falda acquifera in rocce evaporitiche nel 1996, catturando e iniettando nel sottosuolo circa 800.000 tonnellate / anno di CO2 dalla piattaforma offshore di produzione di gas Sleipner, poco ad est delle Isole Shetland. Questo progetto ha senso dal punto di vista commerciale perché il governo norvegese impone una tassa sulle emissioni di CO2 per la produzione di petrolio e gas (il come dimostra come se il CCS non viene imposto si vada poco lontano).

Nel 2005 il governo britannico e quello norvegese istituirono una task force per esaminare le possibilità di collaborare per la costruzione di un'infrastruttura di CCS per ricevere CO2 dai paesi che circondano il Mare del Nord. Lo studio che ne è derivato nel 2010, One North Sea [1], ha riassunto le geocapacità sotto il Mare del Nord e le potenziali rotte di approvvigionamento, via nave e/o gasdotto. Nel frattempo, il governo del Regno Unito ha stanziato un miliardo di sterline per la ricerca scientifica e la costruzione di infrastrutture di CCS, con l’obbiettivo di avere entro il 2015 la prima centrale a gas dotata di cattura di CO2, trasporto e stoccaggio geologico del gas sotto il Mare del Nord al mondo. In seguito però la sovvenzione è stata ritirata e i progetti in corso cancellati, anche se erano già stati spesi 168 milioni di sterline di fondi governativi, ufficialmente perché la CCS era troppo costosa. Il tutto comporterà un ritardo di 10 anni nell'implementazione della CCS nel Regno Unito.
Questo è il classico esempio di come incida il costo immediato di un programma, anche se lo sforzo economico servirebbe ad evitare costi futuri molto maggiori. Nell'ottobre 2017 il governo del Regno Unito ha pubblicato la sua strategia di crescita pulita, che stabilisce una road map della ricerca, dell'innovazione e dello sviluppo di tecnologie a basse emissioni di carbonio necessarie per raggiungere l’obiettivo di riduzione dei gas-serra nel periodo 2028-2032: in questa strategia il ruolo maggiore viene attribuito alla implementazione di sistemi di produzione di elettricità e di trasporto a basse emissioni, mentre il CCS viene relegato ad un ruolo molto marginale. È evidente l’intento di monetizzare, esportando all’estero nuovi prodotti e nuove tecnologie a basso Carbonio, mentre il CCS continua ad essere visto semplicemente come un costo.
Insomma, il concetto è “chi paga?” e siccome la richiesta ad uso industriale di CO2 è molto inferiore alle emissioni, quello usato non è quello atmosferico e i sistemi di CCS sono semplicemente dei “costi aggiuntivi” (almeno per l’immediato) per adesso non è possibile trasformare in ricchezza il CO2: Insomma, ci sarebbe bisogno di un qualcuno che avrebbe  bisogno di questa “materia prima seconda” in grandi quantità. 
E qui arriva un attore insospettabile…

L'acqua pompata in profondità fa risalire il petrolio
UNA SOLUZIONE INASPETTATA. L'Oil & Gas fornisce un bene vitale per l’economia attuale, ma con le relative emissioni di CO2 è la principale fonte di inquinamento, e il colpevole principale di global waming, innalzamento del livello del mare globale e acidificazione degli oceani.
I problemi principali per l’industria estrattiva sono:

  • avere un greggio abbastanza fluido da scorrere nei pori del terreno per essere pompato  (e non sempre si verificano queste condizioni)
  • c'è la ovvia necessità di recuperare la maggior quantità possibile di idrocarburi da un giacimento, problema che si ingigantisce quando il giacimento invecchia e la sua resa diventa minore, fino a quando non è più economico sfruttarlo

Per ovviare a tutto questo sono stati adottati vari sistemi che vanno sotto il nome di Enhanced Oil Recovery (EOR – miglioramento nella resa del giacimento). Il sistema più comune di EOR è l’iniezione di liquidi nel sottosuolo, facendo così risalire il livello della falda acquifera e quindi il petrolio che, essendo più leggero, vi galleggia; per farlo in genere si sfruttano le salamoie saline estratte insieme al greggio, la cui percentuale aumenta con l’età del pozzo e che vanno ovviamente separate in quanto:

  • è assurdo trasportarle insieme al greggio, per evitare il costo del suo trasporto
  • le raffinerie vogliono un petrolio privo di acqua, perchè poi avrebbero da smaltirla loro

Queste salamoie non possono essere smaltite in superficie a causa della loro composizione, e reimmetterle dove erano in precedenza è tutto sommato il sistema migliore anche dal punto di vista ambientale (in pratica tornano lì dove erano prima che venissero estratte). Purtroppo in alcuni casi questo processo può provocare sismicità indotta, come ad esempio succede nell’Oklahoma ed è successo, anche se con intensità sismica molto minore, in Basilicata.
Altri sistemi di EOR lo rendono più fluido, riscaldandolo immettendo acqua calda oppure usando dei solventi.
Naturalmente, oltre ai problemi di inquinamento, questi solventi hanno un costo non indifferente (e spesso sono a loro volta derivati del petrolio, distillati nelle raffinerie). Il CO2 ha due caratteristiche che lo rendono interessante per questo scopo

  • è miscibile con il petrolio greggio 
  • è meno costoso di altri fluidi similmente miscibili


Perché il CO2? Perché è un solvente che reagendo con il greggio, ne riduce la viscosità dissolvendo selettivamente oli e gas leggeri, consentendo così agli idrocarburi di fluire verso i pozzi di produzione. Inoltre aumenta la pressione del liquido, che durante lo sfruttamento del giacimento diminuisce vistosamente, riportandola ai valori preesistenti. 

I primi esperimenti si sono svolti con un progetto pilota sul campo condotto in un bacino idrico depurato primario in Texas, vicino ad Abilene, offrendo ottimi risultati [2]. Gli studi in materia continuano incessantemente, in tutto il mondo (per esempio in Cina [3]).
Da allora questo processo, noto come CO2 EOR, è stato utilizzato in tutto il mondo e potrebbe essere considerato un sistema efficace per sequestrare CO2, se non fosse che, come per il resto dei suoi utilizzi, la maggior parte dei progetti di CO2-EOR utilizza gas estratto specificamente per questo scopo, aggiungendo le ulteriori emissioni necessarie per farlo. Una ulteriore debacle ambientale, insomma…
Il gasdotto che porta a Weyburn 
il CO2 prodotto in North Dakota

L’intenzione sarebbe quella di riuscire ad utilizzare il CO2 di scarto da fonti come le centrali elettriche, che poi rimarrebbe immagazzinata nel sottosuolo: succede già in Canada, nel Saskatchewan, dove il giacimento petrolifero di Weyburn riceve dal 2000 attraverso un gasdotto il CO2 prodotto da una centrale elettrica a carbone a Boundary Dam (50 km fuori) e da un impianto che produce fertilizzanti, gas naturale sintetico e idrogeno a partire dal carbone oltre il confine con gli Stati Uniti nel Nord Dakota. In questo modo sono stati immagazzinate oltre 31 milioni di tonnellate di CO2 e viene estratto circa il 25% in più del greggio che sarebbe estratto senza attività di EOR [4].
Questa carta tratta da [5] dimostra che l’ Oil & Gas è il maggiore richiedente di CO2 per CCS.
Pertanto, l'uso di CO2 di scarto per aumentare la resa dei giacimenti di oil & gas può essere un modo per abbattere il contenuto atmosferico di CO2, catturando l'anidride carbonica (CO2) prodotta da grandi emettitori di sorgenti puntiformi, come le centrali elettriche
Immagine presa das 
Questo uso diretto del CO2 nell'estrazione di idrocarburi ha alcuni vantaggi:

  • trasforma le emissioni di CO2 in una risorsa 
  • il CO2 utilizzato è maggiore di quello successivamente emesso dalla combustione degli idrocarburi estratti

Questo secondo aspetto è dimostrato da uno studio effettuato su 47 grandi giacimenti petroliferi in sei bacini sparsi nel mondo: l'applicazione di CO2 EOR potrebbe comportare la produzione economicamente sostenibile di poco più di un miliardo di barili in più, con un potenziale di stoccaggio di CO2 associato di 320 milioni di tonnellate [6]. Si tratta di volumi significativi e, se i conti presentati sono giusti, si tratterebbe di un bilancio estremamente positivo: è difficile fare una stima precisa di emissioni per barile, dati i molteplici usi in cui il greggio viene impiegato, anche in base alle caratteristiche variabili dei giacimenti, ma stimando una media di 467 kg al barile (dati del Ministero dell’industria), quel miliardo di barili (che rappresenta all’incirca 10 giorni di produzione mondiale di petrolio) emetterebbe sfruttandolo 467 milioni di tonnellate di CO2, avendone impiegati ben 320 miliardi per essere prodotto. 
Mi parrebbe un bel guadagno (ovviamente se e solo se si userà CO2 di origine antropica)


[1] One North Sea: http://www.ccsassociation.org/docs/2010/OneNorthSea.pdf
[2] Holm e Brien (1971). Carbon Dioxide Test at the Mead-Strawn Field. Journal of Petroleum Technology Volume 23/04 doi:10.2118/3103-PA 
[3] Huang et al (2017) CO2 flooding strategy to enhance heavy oil recovery Petroleum 3, 68-78
[4]Verdon (2012) The Weyburn CO2 Injection Project in: Microseismic Monitoring and Geomechanical Modelling of CO2 Storage in Subsurface Reservoirs pp 11-26, Springer
[5] AAVV (2017) The Global Status of CCS: 2017 The Global CCS Institute
[6] Godec et al (2012) CO2 Storage in Depleted Oil Fields: The Worldwide Potential for Carbon
Dioxide Enhanced Oil Recovery Energy Procedia 4 (2011) 2162–2169


giovedì 1 marzo 2018

Anche i neandertaliani erano dotati di pensiero simbolico !



Ormai è sicuro: anche i Neandertaliani erano dotati di pensiero simbolico. Il che non stupisce più di tanto, date le dimensioni del loro cervello, paragonabili se non superiori al nostro, anche se per qualcuno la forma meno rotonda della testa e le dimensioni corporee mediamente superiori lo fanno leggermente retrocedere nel rapporto massa cerebrale / massa corporea. Insomma, le ultime ricerche confermano definitivamente i sospetti che erano già stati avanzati in base a prove più che concrete: si tratta di datazione effettuate in Spagna di sedimenti sovrastanti a conchiglie trattate con pigmenti e di pitture murali; in tutti questo casi i reperti risalgono a tempi molto antecedenti la conquista da parte dei Sapiens della penisola iberica, l'ultima fortezza dei nostri cugini insieme ai monti Altai. A qusto punto chi pensava che i neandertaliani fossero ben inferiori a noi "umani" come intelletto (per qualsiasi motivo, da quelli scientifici a convinzioni più, diciamo, razziste o antievoluzioniste, dovranno ricredersi): i nostri cugini avevano dei bei pensieri. Anzi, le tracce di pensiero simbolico neandertaliane sono più vecchie di quelle fino ad oggi rilevate per i sapiens, il che vuole probabilmente dire che per definire la storia cultirale dei nostri antenati mancano ancora parecchi dati)


Il grande genetista Svante Paabo con un cranio neandertaliano
l’Uomo di Neandertal è al centro di un dibattito in cui ai dati scientifici, in particolare la parentela con Homo sapiens, gli eventuali incroci fra le due “specie” e le sue “capacità culturali” si somma per taluni una sovrastruttura culturale e/o religiosa che su queste cose non dovrebbe esserci. Inoltre ci sono stati (ma ci non ancora...) persone che considerano i neandertaliani poco più che degli scimmioni e negano drasticamente ogni possibile ibridazione tra noi e loro in maniera aprioristica e senza considerare i dati scientifici. Ho messo fra virgolette “specie” perché, come ho già scritto anni fa, fra le due correnti antropologiche, io sono un estremista di quella che tende a ridurre il più possibile il numero di “specie” tra le australopitecine a noi, considerando Homo una cronospecie protagonista di una grande trasformazione che partendo da creature prevalentemente arboricole dotate di una capacità cerebrale ridotta (anche se già ai massimi dell’epoca) ha portato ad esseri perfettamente a loro agio nel camminare eretti sulla superficie terrestre e capaci di trasformare massicciamente il pianeta, anche se i vari nomi con cui sono noti i fossili sono assolutamente utili per capire il posto dei vari reperti in questo grande processo.


Con l'evoluzione multiregionale i Neandertal
erano considerati gli antenati degli europei
NEANDERTAL E CULTURA. Un primo aspetto è nomenclaturale: si parla di Homo neanderthalensis con la “h”, ma di “Neandertaliani” senza la “h”: questo a causa di un cambiamento deciso dai linguisti nella ortografia generale tedesca qualche decennio dopo la classificazione, che ha tolto dalla parola “thal” (valle) la “h”; ma siccome la specie non può cambiare nome, allora nella nomenclatura ufficiale questa “h” rimane.
L’aspetto culturale è parimenti interessante perché il ritrovamento del suo primo fossile, insieme a quello di Archaeopteryx si colloca subito dopo la pubblicazione della prima edizione dell’Origine delle specie: entrambi i reperti quindi piovvero come macigni sul dibattito scientifico (e religioso) e senz’altro agevolarono i sostenitori dell’evoluzionismo. Una curiosità è che all’inizio le orbite particolarmente evidenti del fossile (un tratto tipicamente neandertaliano che rende ne riconoscibilissimi i crani) suggerirono ad antievoluzionisti e a coloro che negavano l’esistenza di altri Homo in generale che si trattasse di un soldato Ussaro morto aggrottando le ciglia…
Comunque per la maggior parte degli studiosi si trattava di un “parente stupido” di Homo sapiens fino a quando non venne alla luce l’ipotesi della “evoluzione multiregionale” di Homo sapiens. In questo quadro i neandertaliani rappresentavano gli antenati degli europei, e allora divennero “intelligentissimi”… per poi ritornare degli esseri dallo scarso intelletto quando le indagini genetiche stabilirono il quadro dell’espansione di una popolazione proveniente dall’Africa (l’ipotesi “out of Africa”), quadro che è ancora valido pur considerando che il quadro è sensibilmente cambiato dai tempi in cui l'ipotesi "out of Africa" scofisse l'evoluzione multiregionale. In ogni caso la capacità cranica dei neandertaliani era uguale – anzi, leggermente superiore – alla nostra.


A sinistra: cranio di Homo neanderthalensis
A destra: cranio di Homo sapiens
Si notano le orbite sporgenti del primo, da cui la deduzione
degli antievoiluzionisti che i resti erano di un soldato morto 
aggrottando le ciglia
I RAPPORTI GENETICI FRA I DUE HOMO. Secondo lo stato dell’arte attuale della ricerca sui rapporti fra Homo sapiens e H. neanderthalensis la divergenza fra questi due gruppi data tra 400 e 700 mila anni fa da un antenato comune che i più considerano quantomeno vicino a H. Heidelbergensis. I neandertaliani si diffusero in tutta l’Europa occidentale e lungo le sponde del Mediterraneo circa 400.000 anni fa (una data che corrisponde all'inizio del Riss), e verso est durante un periodo interglaciale più caldo circa 125.000 anni fa, quando arrivarono fino alla Siberia centrale.
Si possono notare nella genetica umana diverse differenze fondamentali fra gli africani (intendendo in questa denominazione esclusivamente le popolazioni a sud del Sahara) e il resto dell’umanità:
  • una maggiore varietà genetica degli africani, il che dimostra la derivazione di tutti i non africani da una sottopopolazione particolare dell’Africa
  • gli alleli comuni fra sapiens e neanderthalensis sono molto più comuni nelle popolazioni umane extra africane e dell’Africa settentrionale rispetto all’Africa sub-sahariana (anzi, si può dire che le popolazioni sub-sahariana sono le uniche non affette dall'evento di mescolanza) 
  • tracce di sapiens si trovano nel genoma dei neandertaliani dei monti Altai, una popolazione che mostra dei segni di isolamento genetico

Tutto questo potrebbe significare due cose diverse: 
  • una maggiore vicinanza genetica ai Neandertaliani delle popolazioni discendenti dai primi Sapiens migrati dall’Africa orientale (e quindi essere antica),
  • oppure la presenza incroci più recenti

Oggi sembra certa la seconda ipotesi: ad esempio nell’Africa settentrionale il segnale genetico dei Neandertal è più elevato nelle popolazioni con un'ascendenza locale, pre-neolitica e pertanto, la mescolanza rilevata non è dovuta a migrazioni recenti [1], anche se le linee dirette paterne e materne provenienti da questi incroci si sono perse.
Nel Vicino Oriente la presenza di esseri umani moderni (a Skhul e Qafzeh) e di Neanderthal (a Tabun) nel Levante fin da 120.000 anni fa fornisce un luogo in cui il flusso genico dai primi esseri umani moderni ai Neanderthal (e viceversa) potrebbe essersi verificato; di fatto, ci sono dei siti che dimostrano di essere stati alternativamente occupati dalle due popolazioni.
La scarsità, la frammentarietà e la cronologia spesso poco chiara della maggior parte dei fossili europei del Medio Pleistocene, oltre ad implicare controversie nella loro classificazione, sono un ostacolo ancora importante per capire di più sulle dinamiche che hanno portato i Neandertaliani ad occupare l’Eurasia centrale e occidentale e le sponde del Mediterraneo. Una questione molto complessa di cui eventualmente parlerò in altra occasione.

Le leggendarie pitture della grotta di Altamira, 
opera "recente" dei cacciatori - raccoglitori solutreani 

CAPACITÀ COGNITIVE E COMPORTAMENTO SIMBOLICO. Quello di cui voglio parlare in questo post è la questione delle capacità cognitive dei Neandertaliani; l’occasione è data da due articoli usciti in questi giorni che hanno fatto molto “rumore”, associando inequivocabilmente a questi uomini delle manifestazioni del pensiero simbolico. Quando 5 anni fa sono stato alla Scuola di Paleoantropologia organizzata dal buon Marco Cherin all’università di Perugia, una delle principali questioni di discussione al di fuori dell’aula verteva proprio sulle eventuali capacità di pensiero simbolico da parte dei Neandertaliani.

Per più di un secolo, le prove archeologiche sembravano suggerire una comparsa dei manufatti simbolici piuttosto tarda, databile al contesto della cosiddetta rivoluzione del Paleolitico superiore, quando circa 40.000 anni fa in Europa appaiono – apparentemente all’improvviso – arte rupestre, figure scolpite, strumenti ossei decorati, e gioielli in osso, dente, avorio, guscio, o pietra.
Il tutto ha portato alla conclusione che la comparsa del pensiero astratto e quindi del "comportamento moderno" tipico degli esseri umani anatomicamente moderni, sia stata la molla che ha consentito la sostituzione delle popolazioni euroasiatiche contemporanee, come i Neandertal o gli eredi asiatici di erectus e i Denisovani, da parte di questa popolazione “più capace”. Un ovvio corollario è che le popolazioni “arcaiche” di cui sopra erano ancora prive di pensiero simbolico e possibilmente anche della lingua.
In questo quadro i sapiens appena usciti dall’Africa del vicino oriente di oltre 100.000 anni fa si sono diretti verso il sudest asiatico perché i neandertaliani erano ancora un osso duro, e solo una rivoluzione culturale nella quale ha avuto molto peso la comparsa del pensiero simbolico avrebbe consentito loro, decine di migliaia di anni dopo, di strappare ai loro cugini il controllo dei loro territori.
La presenza di un comportamento simbolico è dedotta dall'uso, presumibilmente per l'ornamento del corpo, di pigmenti minerali, conchiglie (spesso colorate), artigli e piume di Aquila, per arrivare all'arte rupestre, che ne costituisce una prova particolarmente impressionante e suggestiva. Però, come nel caso dei reperti paleontologici e degli utensili, la scarsità dei reperti fornisce poche basi sulla cronologia della sua comparsa (e, aggiungo, la presenza di un oggetto o un uso fornisce una sua età minima, dimostrando la sua presenza almeno da quel momento, ma non consente di sapere da quanto tempo prima era adottata, a meno di evidenze della sua mancanza).
Ciottolo inciso databile a 77.000 anni fa, da [2]
Insomma, è pertanto possibile che la cultura simbolica sia ben più antica di quanto si pensava fino a poco tempo fa e che si collochi almeno immediatamente prima dell’inizio dell’espansione di sapiens fuori dall’Africa
Diciamo che a me questa apparizione così tarda mi è sempre suonata strana poiché artefatti simbolici caratterizzano anche culture come quella Australia, che si divise dal resto della famiglia umana prima di 40.000 anni fa (anche se qualche idea sulla “convergenza culturale” poteva spiegarla). E gli ultimi due decenni di ricerca hanno contestato l’idea di una origine così recente del pensiero simbolico: utilizzazioni di pigmenti ocracei sono evidenti da 100.000 anni e già nel 2002 furono trovati in Sudafrica ciottoli incisi risalenti a poco meno di 80.000 anni fa [2]. Ancora più antiche sono le conchiglie marine forate e dipinte con pigmenti ocra ritrovate in vari siti della costa mediterranea africana [3]. 
Nel contempo  è stato dimostrato che le strutture vocali e uditive dei fossili di Atapuerca / Sima de Los Tonios, vecchi di circa 500.000 anni e appartenenti a Homo heidelbergensis,  mostrano la capacità di produrre e percepire i suoni emessi durante la moderna lingua parlata umana [4]. H.heidelbergensis è considerato l’antenato comune di sapiens e neandertal e i fossili di Sima de los Tonios in particolare possono rappresentare gli antenati dei neandertaliani, che compaiono poco tempo dopo. Insomma, le radici del linguaggio possono essere molto più antiche di quanto si ritiene oggi e presenti nell'antenato comune di sapiens e neanderthalensis.

Accune conchiglie pigmentate rinvenute a 
Cueva de los Aviones, da [7]
LE NUOVE DATAZIONI CHE ATTRIBUISCONO AI NEANDERTALIANI SPAGNOLI IL PENSIERO SIMBOLICO. Venendo ai Neandertaliani, la loro cultura era descritta come piuttosto stabile per centinaia di migliaia di anni, e la cosiddetta cultura Chatelperroniana è stata interpretata come imitazione da parte dei Neandertaliani della cultura dei sapiens.
Però c’è la possibilità che delle conchiglie vecchie di 100.00 anni trovate a Qafzeh Cave  in Israele siano state usate in una collana, perché, nonostante i fori siano naturali e non intenzionalmente prodotti da esseri umani, mostrano evidenti tracce di coloritura con un pigmento ocraceo. Questo ultimo sito è inequivocabilmente Musteriano e quindi neandertaliano [5]. Ci sono poi altre segnalazioni di siti neandertaliani con tracce di sensibilità artistica o pensiero simbolico: un osso di corvo decorato in Crimea e, in molti siti, falangi terminali di  uccelli con tracce evidenzianti una deliberata rimozione degli artigli [6].
I due articoli a cui ho accennato all’inizio, avendo datato i reperti neandertaliani di due località iberiche dimostrano definitivamente che i Neandertal erano dotati di pensiero simbolico.


Cueva de Los Aviones [7] è una grotta lungo la costa meridionale della Spagna, vicino a Cartagena. Questo sito del Paleolitico medio europeo è stato chiaramente occupato da Neandertaliani. Vi sono stati trovate conchiglie forate con residui di vari pigmenti, mentre altre conchiglie che servivano come contenitore di pigmenti mostrano residui di miscele coloranti complesse.  

La datazione di queste conchiglie con il radiocarbonio è piuttosto difficile per due aspetti:
  • le stime di età sono ai limiti della rilevazione per questo metodo (anzi, direi ben oltre)
  • non è detto che si possa considerare queste conchiglie come un sistema “chiuso” nei confronti del carbonio dall’epoca della loro deposizione ad oggi e se un sistema non è chiuso nei confronti dell’elemento che si considera la datazione non è possibile

Quindi è stato deciso di applicare il metodo Uranio – Torio, ampiamente utilizzato per esempio nella datazione di stalattiti e stalagmiti, specialmente in campo paleoclimatico. Non sono state datate le conchiglie, bensì un sedimento immediatamente al di sopra, con cui è stato ottenuta una età minima dei reperti che va tra i 115 e i 120.000 anni fa. La datazione è perfettamente compatibile con la storia della grotta stessa, che prima della deposizione di questo sedimento subaereo era sotto il livello del mare ed è emersa solo dopo il suo calo registrato 118.000 anni fa. Insomma, gli abitanti di Cueva de Los aviones avrebbero scoperta ed abitato (o, almeno, utilizzato) la grotta quasi immediatamente dopo che si è resa disponibile.
Naturalmente queste conchiglie rappresentano gli artefatti più vecchi dipinti mai scoperti (anche, eventualmente, di quelli di Qafzeh), e quindi viene confermato che questo primato spetti – per adesso – ai neandertaliani. 

L'impronta di una mano impressa nella roccia
67.000 anni fa in falsi colori a Maltravieso, da [8]
Nel secondo lavoro [8] è stata accertata la paternità neandertaliana di altri classici esempi  di pensiero simbolico, le pitture rupestri. Siamo sempre nella Spagna meridionale (Estremadura e Andalusia), ma anche a nord, in Cantabria. In questi siti sono state confermate precedenti ipotesi che però non erano ben circostanziate. Le pitture nelle grotte quando sono eseguite su una concrezione calcarea possono essere datate analizzando la concrezione stessa con il metodo U / Th, che ovviamente sarà più vecchia della pittura, oppure considerando una concrezione che l’ha eventualmente ricoperta, e in questo caso la pittura è più antica della concrezione in oggetto.
È evidente che, dovendo estrarre un campione, in entrambi i metodi si perde una parte della pittura, ma si tratta di una porzione quasi infinitesimo (meno di 10 milligrammi) e quindi non si produce un danno eccessivo.
Nella grotta di La Pasiega (Cantabria) è stata ricavata una età minima di 65.000 anni; al sud a Maltravieso (Estremadura) l’età minima è 67.000 anni; a Doña Trinidad (Andalusía) la situazione è estremamente complessa, essendo questa attività ripetuta nel tempo in diverse fasi, tra i 67 e i 38 mila anni fa.
Le date più recenti di Doña Trinidad sono possibilmente compatibili sia con la presenza di neandertaliani che di sapiens, collocandosi più o meno nella fase di sostituzione della vecchia popolazione con la nuova, ma per quelle più vecchie di questo sito e per le altre pitture le datazioni non lasciano alcun dubbio: dato che a quei tempi H. sapiens non era ancora arrivato in Spagna, queste opere sono dovute ai Neandertaliani, i quali – di conseguenza – erano quindi dotati di pensiero simbolico come gli esseri umani moderni. Ed è un dato di fatto, qualsiasi cosa si pensi su come H. neanderthalensis si ponga rispetto a noi. Soprattutto, il corollario di questi risultati è che la capacità di simbolismo sia molto più antica di quello che le testimonianze archeologiche abbiano finora evidenziato perché doveva per forza essere appannaggio dell’antenato comune fra noi e i neandertaliani circa mezzo milione di anni fa, come i fossili di Atapuerca dimostrano per il linguaggio. 

[1] Sanchez-Quinto et al. (2012) North African Populations Carry the Signature of Admixture with Neandertals. PLoS ONE 7(10): e47765. doi:10.1371/journal.pone.0047765
[2] Henshilwood et al 2002 Emergence of Modern Human Behavior: Middle Stone Age Engravings from South Africa Science 295, 1278-1280
[3] Bouzouggar et al (2007) 82,000-year-old shell beads from North Africa and implications for the origins of modern human behavior. PNAS 104, 9964–9969
[4] Martínez et al 2013 Communicative capacities in Middle Pleistocene humans from the Sierra de Atapuerca in Spain. Quat. Int. 295, 94–101
[5] Bar-Yosef Mayer et al (2009) Shells and ochre in Middle Paleolithic Qafzeh Cave, Israel: Indications for modern behavior. J. Hum. Evol. 56, 307–314
[6] Majkić et al (2017) A decorated raven bone from the Zaskalnaya VI (Kolosovskaya) Neanderthal site, Crimea. PLoS ONE 12(3): e0173435. doi:10.1371/journal.pone.0173435 
[7] Hoffmann et al. (2018) Symbolic use of marine shells and mineral pigments by Iberian Neandertals 115,000 years agoSci. Adv. 2018;4:eaar5255
[8] Hoffmann et al. (2018) U-Th dating of carbonate crusts reveals Neandertal origin of Iberian cave art, Science 359, 912–915