mercoledì 22 marzo 2017

Il rilascio di metano alla base della esplosione e della colonna d’acqua dello scoglio d’Affrica


C’è molto rumore a proposito del fenomeno che è avvenuto nella zona dello “scoglio d’Affrica” o Formica di Montecristo, un piccolo isolotto dell’Arcipelago toscano: dei pescatori hanno sentito una esplosione e visto un getto di acqua a colonna; questo fenomeno è stato associato a una serie di boati che da tempo vengono avvertiti lungo le coste elbane. A leggere la stampa toscana, si tratta di un fenomeno misterioso. Invece c’è una soluzione semplice ed elegante al problema. La cosa divertente è che di questo fenomeno la Scienza se ne era già occupata proprio da quelle parti.

Ovviamente su questa notizia si sono scatenati i siti peggiori, invocando improbabili cataclismi impossibili anche collegandovi in modo pretestuoso l’attività sismica di questi giorni (che, continuo a ripetere, è assolutamente a livelli normali tranne che nel martoriato Appennino Centrale). In rete si leggono cose demenziali tipo che è in arrivo un’eruzione di un nuovo vulcano, per non parlare delle onnipresenti “trivelle”, oppure esercitazioni “segrete” della NATO. Mancano per adesso extraterrestri scie chimiche e HAARP e poi abbiamo tutto il complottismo scatenato sul fatto.  
Sicuramente è qualcosa di insolito (o, quantomeno, di poco osservato); eppure la spiegazione è abbastanza semplice e, sostanzialmente, già abbondantemente conosciuta. 

Ricapitolando, negli ultimi anni all’Elba vengono avvertiti dei boati che provengono dal mare a sud, tra Elba, Montecristo e Giglio. C’è chi dice dal 2013, ma in realtà la cosa è ancora più vecchia. In questi giorni probabilmente siamo arrivati a capo della faccenda, perché dei pescatori di Campo nell’Elba trovandosi a poche decine di metri di distanza dallo “scoglio d’Africa” hanno assistito a qualcosa di strano: riferiscono di “avere sentito una fragorosa esplosione” e di avere visto alzarsi “per alcuni metri un getto d’acqua nera, fango, gas e detriti”.
La Capitaneria di Porto di Portoferraio a questo punto ha emesso, a ragione, un divieto di navigazione nella zona interessata per “attività geologica sottomarina in corso”.

Iniziamo subito a dire che non si può trattare di fenomeni connessi a vulcanismo per una serie di motivi.
Ci sono delle rocce vulcaniche in zona, ma si tratta di graniti formati da magmi che si sono solidificati a qualche km di profondità tra gli 8 e i 4 milioni di anni fa. A Monte Capanne, Giglio e Montecristo l’erosione ha già abbondantemente esumato questi corpi magmatici, mentre a Punta Calamita il corpo si trova poco sotto la superficie.
Questi graniti si sono formati durante la prima fase di messa in posto dei prodotti della Provincia Magmatica Toscana, che in seguito si è trasferita lungo l’attuale costa toscana (San Vincenzo, Campiglia tra gli altri) per poi progredire ulteriormente verso l’interno (ad esempio Larderello, Radicofani e il più recente Amiata, attivo fino a circa 100.000 anni fa).
Quindi è chiaro che non può trattarsi di una riedizione di quella vecchia situazione e, in ogni caso, una eventuale attività vulcanica può essere esclusa a priori per un motivo banalissimo: non ci sono precursori di una eruzione (né della formazione di un nuovo apparato vulcanico) come sismicità, aumento del flusso di calore, attività fumarolica o idrotermale etc etc).
Anche l’ipotesi di un semplice vulcano di fango non pare verosimile, in quanto esplosioni e fiammate suggeriscono una forte reazione esotermica. 
Allora, di cosa si può trattare?

Senza saperne di più, avevo pensato a qualcosa legato alla presenza di sacche di gas intrappolate nei sedimenti. Questo sia per l’esplosone (cosa ci può essere che può esplodere in acqua se non del metano?) e per il colore scuro delle acque, che denota la presenza di materia organica non decomposta, che si accoppia benissimo alla presenza di metano.

FORMAZIONE DEL METANO. Queste sacche si formano nei sedimenti grazie ad una complessa varietà di attività metaboliche, il cui risultato finale è la formazione di metano e biossido di zolfo. Una puntualizzazione necessaria è che tutti questi metabolismi funzionano soltanto in un ambiente particolare e cioè in condizioni anaerobiche e riducenti. I sedimenti di questo tipo sono scuri per la presenza di materia organica che non si può degradare proprio perché la degradazione è un processo di ossidazione aerobico, impossibile in un ambiente riducente e anaerobico. È il modo con cui si formano i depositi di carbone e idrocarburi. 
Per ottenere simile condizioni nei sedimenti occorre che si formino in acque poco ossigenate, dove l’ossigeno non basta per degradare tutta la materia organica che si è accumulata.

RISALITA DI METANO E SO2 ED EFFETTI BIOTICI. Fino a quando l’ambiente resta riducente il gas rimane integro, ma metano e solfuri hanno il vizio di risalire perché sono leggeri. Nelle zone della superficie marina dove si verificano queste risalite si instaurano delle comunità di batteri e archeobatteri i quali a loro volta hanno un metabolismo che assorbe il metano e i solfuri emessi precedentemente dai batteri anaerobici
Queste comunità sono la base di una catena alimentare piuttosto  variegata, che comprende anche piante ed animali evolutisi per vivere in ambienti simili. Si tratta di una emissione di metano non indifferente, della quale le comunità batteriche assorbono fra il 20 e l’80% [1]. Il resto va in atmosfera.

RILASCIO VIOLENTO DI QUESTI GAS. Tali aree di rilascio, conosciute internazionalmente come methane seep, sono state scoperte una trentina di anni fa nella scarpata continentale a largo della Florida. Da quel momento sono state catalogate in una vasta parte dei fondi oceanici e anche in serie sedimentarie che dopo vicissitudini geologiche sfanno parte delle catene montuose.
Il problema è che quando il gas viene rilasciato si trova improvvisamente in contatto con l’ambiente ossidante esterno è costretto ad ossidarsi (e talvolta a deflagrare violentemente). Da qui il brillamento.

BOATI E BRILLAMENTI NEL ARE DELL'ELBA. Il buon Alberto Riva, uno dei più autorevoli esponenti della comunità di geologi.it, ha indicato un link che conferma quanto da me ipotizzato, citando un lavoro molto interessante svolto proprio nel mare toscano e uscito giusto un anno fa [2]. 
Il lavoro non riguarda direttamente le esplosioni, ma si è occupato del biota delle zone di rilascio di metano su fondali poco profondi nel mare compreso fra Elba occidentale (Pomonte), Pianosa e appunto, lo Scoglio D’Africa. Però gli Autori riportano chiaramente che durante le campagne di studio tra il 1995 e il 2005 hanno osservato spesso questi brillamenti (pur senza associarli ai boati, di cui non fanno cenno, e senza occuparsi della loro genesi che con il loro lavoro non c'entra niente).
Queste esplosioni nel mare prospiciente all’Elba avvengono su fondali a bassa profondità e quindi la colonna esplosiva esce fragorosamente in superficie, formando una colonna. La zona dello Scoglio d’Affrica è giusto una di quelle che che sono state prese in esame, appunto per la presenza di rilasci di metano a bassa profondità e delle comunità che vi vivono intorno.

È comunque un fenomeno piuttosto difficile ad osservarsi e per questo poco noto; è chiaro che i boati sono udibili a maggiore distanza rispetto a quella entro la quale possono essere visti i brillamenti (per vedere i quali si deve essere sufficientemente vicini e con gli occhi rivolti più o meno in quella direzione). 
Ma tutto fa supporre che l’esplosione vista dai pescatori l’altro giorno e i boati che ogni tanto vengono percepiti lungo le coste elbane siano dovuti ad emissioni di metano.

POSTILLE FINALI: 
1. di metano ce n'è, ma in quantità nettamente insufficiente per poterlo sfruttare economicamente
2. attenzione, qui si parla di metano inteso come CH4 e non di gas idrati: per quelli l'acqua del Mediterraneo è troppo calda


[1] Boetius, A., and Wenzhöfer, F. (2013). Seafloor oxygen consumption fuelled by methane from cold seeps. Nat. Geosci. 6, 725–734. doi: 10.1038/ngeo1926 
[2] Ruff et al 2016 Methane Seep in Shallow-Water Permeable Sediment Harbors High Diversity of Anaerobic Methanotrophic Communities, Elba, Italy Front. Microbiol. 7:374. doi: 10.3389/fmicb.2016.00374 


martedì 14 marzo 2017

Firenze e l'Arno: senza il fiume non ci sarebbe stata la città, nè sarebbe diventata quella che diventò


Nello scorso autunno la mia attenzione è stata rivolta al 50esimo anniversario dell’alluvione del 1966, di cui Firenze è il simbolo, la più illustre fra le vittime, ma non certo l’unica: oltre a quasi tutta la Toscana, dobbiamo ricordare soprattutto l’eccezionale acqua alta della laguna veneta e le alluvioni nel nordest (con particolare riferimento a Trento e alle vallate alpine tra Veneto e Friuli). In questa occasione l’Arno ha recitato la parte del cattivo e nel “film” della storia di Firenze a prima vista fa sempre così. In realtà non è del tutto vero. Anzi, senza l’Arno Firenze non sarebbe mai nata, né, in seguito, sarebbe diventata quello che tutto il mondo conosce. In questo post vorrei parlare di cosa l’Arno ha fatto PER Firenze e non di quando le sue intemperanze hanno arrecato danni ingenti, come nel 1966 (anche se, forzatamente, un po' se ne deve parlare…).

L'area di Florentia nel I secolo a.C.: il punto più stretto corrisponde all'attuale Ponte Vecchio, da [1]
La situazione è rimasta sostanzialmente inalterata fino all'espansione della città nel XII secolo
FIRENZE E IL SUO BACINO INTERMONTANO. Iniziamo da un inquadramento geografico: Firenze si trova al vertice meridionale di una delle vallate parallele all’asse della catena tipiche del versante occidentale dell’Appennino settentrionale. Dico versante occidentale perché, anche se “popolarmente” il mare della Toscana è chiamato “Tirreno”, in realtà a nord dell’Isola d’Elba sarebbe tutto “Mar Ligure”.
Un’altra cosa particolare è che queste valli di solito (e logicamente) hanno un nome (Casentino, Mugello, Valdarno superiore, Val di Chiana, Valtiberina etc etc ). Quella in cui oltre a Firenze, ci sono anche altre città importanti come Prato e Pistoia invece non ha un nome, e quindi nei lavori di geologia viene chiamata “bacino di Firenze, Prato e Pistoia”, per evitare di scontentare qualcuno (si sa che i toscani sono particolarmente campanilisti e polemici, in specie con quelli del paese accanto).

In genere questi bacini sono interamente percorsi da un fiume principale e anche in questo il bacino di Firenze, Prato e Pistoia costituisce una rilevante eccezione: infatti l’Arno vi entra al suo vertice SE e lo percorre solo nella parte meridionale, perché si infila nella stretta della Golfolina (dove Leonardo fece una delle prime considerazioni geologiche) fra Signa e Montelupo, sbocca nel Valdarno inferiore, dirigendosi verso Pisa, passando per Empoli e Pontedera. L’unico fiume che percorre per una buona parte il bacino è l’Ombrone pistoiese. 
Storicamente la piana era inabitabile o quasi per le paludi e l'ambiente malsano: lo dimostra il fatto che i centri principali erano tutti posti ai suoi bordi o arroccati sui colli prospicienti, specialmente su quello settentrionale (Firenze, Fiesole, Quinto, Calenzano, Prato, Montemurlo, Pistoia) ma anche su quello meridionale (Signa, Carmignano, Artimino e Quarrata). Firenze stessa è stata circondata da paludi fino al XV secolo. 
Per un autorevole referenza in merito ci si può rivolgere ad Annibale: arrivato dopo aver valicato gli Appennini nella zona di Pistoia, si trovò nel mezzo di una alluvione devastante e faticò non poco ad avanzare, subendo la perdita dell’ultimo elefante e, per una malattia, anche di un occhio. Quindi si può dire che attraversare il bacino di Firenze – Prato e Pistoia sia letteralmente costato al celebre condottiero cartaginese un occhio della testa...
Le bonifiche hanno consentito l’occupazione antropica della piana anche se molte aree sono ancora cronicamente soggette a periodiche alluvioni, specialmente nella sua parte occidentale.

Le dimensioni dell'Arno fino al XII secolo riportate nella cartografia attuale, da [1]
L'AREA DI FIRENZE NEL I SECOLO a.C. I ritrovamenti archeologici più antichi a Firenze sono rappresentati dalle tracce di un insediamento villanoviano del X secolo a.C. Dal V secolo a.C. la potenza dominante era Fiesole, una delle principali città etrusche. 
Ma arriviamo alla situazione del I secolo a.C: l’Arno, all’entrata del bacino nella zona di Rovezzano, si divideva in più rami, ma doveva tenersi verso la sinistra idrografica della piana perché alla sua destra scendevano dei torrenti (Affrico, Mensola e, soprattutto Mugnone) che portavano parecchi sedimenti. Il ramo meridionale passava all’incirca al bordo delle colline, nella zona di Badia a Ripoli e rientrava nel corso principale nella zona dell’attuale rione di Gavinana, più o meno lungo l’asse ora percorso dalla viabilità (Viale Europa e Viale Giannotti), perché sulla sinistra idrografica la collina del monte alle Croci (quella del Piazzale Michelangelo) si incunea all’interno del bacino, separando la piana di Ripoli a monte della città da quella di Scandicci, a valle. Il ramo centrale seguiva grossolanamente l’attuale percorso del fiume, però non era sicuramente così dritto. C’è poi la possibilità che le paludi nella zona dell’attuale Campo di Marte fossero alimentate, oltreché da Mensola e Affrico, anche da un terzo ramo dell’Arno (non ho ben capito come stavano le cose).
Come si vede dalle immagini rielaborate da [1] il fiume o, meglio, l’area occupata dall’alveo fluviale compresi gli spazi golenali, era piuttosto larga, molto più di adesso, a monte dell'attuale centro storico, mentre a valle dell’odierno Ponte alle Grazie l’alveo si restringeva drasticamente (e in misura minore lo fa anche adesso). 
Perché succedeva questo? Perché l’Arno nel suo percorso incontrava la conoide del Mugnone, cioè tutti i sedimenti erosi nel bacino di questo affluente che il torrente trascinava a valle. 
Il Mugnone scendeva dalla zona della attuale Piazza Libertà passando all’incirca dove ora ci sono Via Cavour e via San Gallo. Il tratto finale corrispondeva alla parte più settentrionale di via Tornabuoni.
Le paludi della zona del Campo di Marte erano dovute anche alla presenza di questa conoide che bloccava le acque. 
Alla confluenza fra Arno e Mugnone c’era (e c'è ancora) un rialzo compreso fra i due corsi d’acqua, posto ad un livello leggermente superiore a quello della piana, come dimostra questa immagine, sempre da [1].

Il modello digitale del terreno evidenzia la conoide del Mugnone e
l'elevazione della zona del castrum romano (nel quadrato)  rispetto alle aree adiacenti. Da [1]

FIRENZE NON SAREBBE NATA SENZA L’ARNO. Florentia è una tipica città di fondazione, cioè non è nata lì spontaneamente (come poteva esserlo invece l’insediamento villanoviano) ma per un preciso disegno urbanistico e strategico. A dimostrazione di questo segue rigidamente gli schemi costruttivi del classico castrum romano, una cinta muraria con all’interno strade in due direzioni perpendicolari, una N-S e una E-W con le due strade principali a croce, il cardo maximus e il decumanus [2]. 
Telemaco Signorini (1835 - 1901): l'alzaia (1864)
Ovviamente Florentia fu dotata immediatamente di un porto fluviale che la metteva in comunicazione con il porto di Pisa.
E qui si evidenzia un aspetto poco noto del passato: le condizioni delle pianure, che fino alle bonifiche sono state una successione di acquitrini e paludi, erano di ostacolo ai trasporti via terra, per cui le persone e le merci si muovevano preferenzialmente lungo i fiumi, con delle imbarcazioni a fondo piatto. Di fatto le strade sugli argini, le alzaie, erano percorse da uomini e animali che da terra muovevano queste imbarcazioni e ciò è continuato anche dopo le bonifiche: solo l’avvento delle ferrovie nel XIX secolo ha consentito un cambiamento nel sistema dei trasporti. L’alzaia, il celebre dipinto di Telemaco Signorini del 1864, è una eccellente testimonianza di tutto ciò: il celebre pittore fiorentino dipinge lo sforzo di alcuni braccianti che tirano una chiatta lungo l'alzaia dell'Arno.
Inoltre i fiumi consentivano l’uso dei mulini, fornivano acqua per vari usi, e rappresentavano con il pesce e la cacciagione palustre una fonte di cibo sufficiente per l'epoca.
Ricordo che Leonardo progettò un canale che da Firenze doveva raggiungere l’Arno passando per Pistoia proprio per le stesse motivazioni per cui sono state costruite in seguito ferrovie e strade, cioè per trasportare le merci (c’era poi pure la necessità di bonificare definitivamente il bacino).

Anche il toponimo evidenzia la fondazione ex-novo. Ed è possibile che anziché Florentia fosse in origine Fluentia, con riferimento alla confluenza dei due fiumi. Un toponimo analogo è rappresentato da Coblenza, città fondata dai romani alla confluenza fra Reno e Mosella, originariamente chiamata Confluentes.
Quindi Florentia essendo una città di fondazione è nata lì proprio perché era il luogo giusto per costruirla: un rialzo nel punto in cui un fiume all’epoca navigabile si stringeva consentendo un passaggio agile e la possibilità di costruite un porto. Inoltre la confluenza con il Mugnone consentiva una migliore difesa. 
Florentia ebbe una discreta fortuna, anche se la scarsa disponibilità di acqua potabile e a scopi termali non ne faceva una meta particolarmente appetibile (ho parlato dell’acquedotto romano in questo post).
Poi anche per Florentia vennero i secoli bui, dopo i quali l’età carolingia sancì una rinascita della città, che fu guardata con un certo interesse dalla dinastia imperiale, come dimostra il capitolare di Corteolona dell’825, con il quale l’imperatore Lotario scelse Firenze come sede di una delle otto scuole nell’Italia centro – settentrionale per la preparazione dei giovani ecclesiastici, segnatamente quelli della Tuscia.

FIRENZE È DIVENTATA GRANDE GRAZIE ALL’ARNO. Nell’XI secolo la netta ripresa dei commerci ha avuto come conseguenza la ripresa delle attività del porto e anche in questo caso si vede come l’Arno sia stato necessario per l’incremento dell’economia. La città si ingrandì velocemente (al pari di altri centri italiani) espandendosi oltre la cerchia muraria carolingia e costringendo il Libero Comune a decidere nel 1170 la costruzione di una nuova cerchia di mura, la prima cinta comunale, conclusasi entro il 1175. 
La crescita della città si svolse dalla vecchia area romana e carolingia verso l’Arno, grazie al fatto che la depressione che caratterizzava in antico questa zona della città, compresa tra Palazzo Vecchio e l’Arno, iniziò ad essere colmata dalla tarda età imperiale e fino all’XI secolo con una serie di scarichi composti per lo più dai rifiuti della popolazione che abitava dentro il nucleo urbano [3]. Una forte espansione ulteriore avvenne nella riva opposta. 

Un ponte nella posizione dell’attuale Ponte Vecchio o (più probabilmente poche decine di metri più a monte), al servizio della Via Cassia Nuova almeno nel II secolo d.C. Qui si capisce il ruolo strategico della città, che presidiava l’attraversamento del ponte sul fiume più importante lungo questa strada. Il ponte è crollato nei “secoli bui” probabilmente durante una alluvione (nel clima freddo e umido dell’epoca le piene a Firenze erano più frequenti che nel periodo caldo attuale e durante il periodo caldo medievale, proprio come è successo durante la piccola era glaciale). Quindi fino alla ricostruzione di una struttura del genere, che è ritornata ad esistere almeno dall’epoca carolingia, l’unico modo per attraversare l’Arno era ridiventato il guado. Quasi sicuramente il ponte carolingio fu distrutto nel 1177 dalla prima delle alluvioni inserite nell’elenco del Morozzi. Ricordo che, contrariamente a quello che si ritiene comunemente, il Morozzi non dice che le alluvioni iniziarono in quella occasione: accenna ad eventi precedenti e inizia il suo elenco con il 1177 solo perché è il primo evento che ha coinvolto la nuova situazione urbanistica della città. La crescita dell’Oltrarno costrinse anche a costruire nel XIII secolo e in pochi anni gli altri 3 ponti “storici”  il Ponte alla Carraia (che fu brevemente noto come  Ponte Nuovo nel 1220), il ponte a Rubaconte (oggi Ponte alle Grazie) nel 1237 e il Ponte a Santa Trìnita, nel 1252.

I ponti fiorentini hanno una storia travagliata: la piena del 1333 li aveva tutti distrutti. Due secoli dopo, nel 1557 resistette solo il Ponte Vecchio, dopo la quale gli altri furono ricostruiti con l’aspetto attuale. Ho detto “con l’aspetto attuale” perché la Wehrmacht nel 1944 li fece saltare tutti ad eccezione del Ponte Vecchio e nel dopoguerra ponte alla Carraia e ponte a Santa Trìnita, considerati dei veri capolavori del genere, sono stati nuovamente realizzati esattamente come erano.
Comunque, ecco che l’Arno dal XII secolo in poi si è dimostrato ancora una volta fondamentale per la crescita della città: Firenze è diventata quella che è grazie all’arte della Lana e le rive del fiume erano un continuo di mulini e gualchiere (macchinari di epoca preindustriale fondamentali appunto per la manifattura delle lane) e non sarebbe potuto succedere tutto questo senza il fiume che forniva acqua per tingere le lane, l’energia per fare la farina e altro e pure la via per l’esportazione.

A cascata vennero i “banchi”, la seconda fortuna della città: all’epoca era vietato prestare il denaro a strozzo (il concilio di Lione del 1274 e il concilio di Vienna del 1311 ribadirono la condanna dell'usura, minacciando di scomunica i Comuni o gli Stati che la permettevano) ma con le tante valute dell'epoca i cambiavalute erano necessari. Di fatto le grandi banche fiorentine sono proprio nate a seguito della necessità di cambiare le valute nelle esportazioni della lana e per poter gestire nuovi strumenti del credito come le lettere di cambio, sorta di fidejussioni grazie alle quali chi si recava all’estero poteva condurre transazioni con la fondamentale sicurezza di non dovere portare con sé il denaro contante.

LA FRANA DI CASTAGNO, L'INTORBIDIMENTO DELL'ARNO E LA CRISI CONSEGUENTE NELLA LAVORAZIONE DELLA LANA. A dimostrazione del ruolo determinane del fiume, ricordo un episodio storico nel quale si evidenzia come l’importanza di qualcosa la si sente proprio quando manca.
Siamo nel versante occidentale del monte Falterona, quello mugellano (l’Arno nasce nel versante casentinese dello stesso monte). Nel 1335 si mise in moto una frana, nota come la frana di Castagno d’Andrea (all’epoca si chiamava solo “Castagno”, oggi Castagno d’Andrea in quanto luogo natale di Andrea del Castagno). Si tratta di un evento enorme: il Villani, testimone diretto della situazione scrisse che "uno sprone della montagna di Falterona della parte che discende verso il Dicomano in Mugello, per tremoto e rovina scoscese più di 4 miglia infino alla villa che si chiama il Castagno, e quella con tutte le case e persone e bestie selvatiche e dimestiche e alberi subissò" [4]
La conseguenza più grave fu che l’Arno divenne estremamente torbido per almeno 3 mesi, impedendo la lavorazione della lana. Sempre il Villani scrisse: la quale torbida acqua discese nel Decomano, e tinse il fiume della Sieve; e la Sieve tinse il fiume dell'Arno infino a Pisa; e durò così torbido per più di due mesi, per modo che dell'acqua d'Arno a neuno buono servigio si poteva operare, né cavalli ne voleano bere; e fue ora che i Fiorentini dubitaro forte di non poterlo mai gioire, né poterne lavare o purgare panni lini o lani, e che peròl'arte della lana non se ne perdesse in Firenze; poi a poco a poco venne rischiarando, e tornando in suo stato".
Dopo le distruzioni dell’alluvione del 1333, quest’altra sciagura mise in ginocchio l’economia della città, che però riuscì a riprendersi quando le acque ritornarono alla precedente chiarezza.

Quindi l’Arno, che è noto soprattutto per le sue intemperanze, in realtà gioca anche questo aspetto più sconosciuto ma fondamentale: senza di esso Firenze non sarebbe mai nata, né sarebbe diventata la città che conosciamo.

[1] Morelli et al 2014 Rapid assessment of flood susceptibility in urbanized rivers using digital terrain data: Application to the Arno river case study Applied Geography 54,35-53
[2] Sabelli 2016 Il progetto strategico di ricerca “FIMU | Le mura urbane e il sistema difensivo di Firenze”Restauro Archeologico 2, 94-113 ISSN 1724-9686  
[3] Francovich et al 2007 La storia di Firenze tra Tarda antichità e Medioevo. Nuovi dati
dallo scavo di via de’ Castellani, Firenze, Annali di Storia di Firenze, II 9-48, FUP: Firenze.
[4] Giovanni Villani “Nova Cronica”, libro XI cap.26

lunedì 6 marzo 2017

il rapporto 2017 sulla sismicità indotta da attività antropiche negli Stati Uniti


Il Servizio Geologico degli Stati Uniti produce una carta della sismicità naturale, che viene utilizzata per diversi scopi, principalmente per regolamentare la costruzione di edifici, ma anche per le assicurazioni contro i terremoti, quantificazione del rischio e quant’altro. In questi ultimi anni in alcune aree precedentemente non interessate da terremoti la situazione si è improvvisamente modificata, a causa di attività antropiche, in particolare la reiniezione di fluidi inquinanti residui dell’industria petrolifera a scopo di smaltimento in pozzi profondi. La conseguenza è stata la trasformazione in zone ad elevato rischio sismico di aree che fino a poco tempo fa erano invece immuni dal problema. Il rischio sismico per sismicità  antropica cambia di contiinuo a seconda della quantità di acque reiniettate nel sottosuolo e pertanto ogni anno viene pubblicato un rapporto in materia. Il fenomeno per il 2017 è previsto in diminuzione rispetto al 2016.


Il rischio sismico indotto dalle attività antropiche dipende da cause puramente locali e cambia molto rapidamente (nell’ordine dell’anno o poco più), un ritmo troppo veloce per modificare la zonazione sismica degli edifici e il tempo di vita di parecchie strutture. Quindi ogni anno escono le previsioni per il rischio sismico negli Usa centrali che tengono conto delle modificazioni della sismicità di origine antropica.
Si tratta di una carta ben diversa da quella  della sismicità naturale e si limita alla parte centrale degli USA continentali: non vi sono compresi stati come la California, dove le attività antropiche non alterano un valore già piuttosto alto di suo del rischio sismico. Ovviamente si tratta di previsioni dal punto di vista statistico e non danno quindi certezza alcuna. 

La notizia della redazione della carta del rischio sismico da attività antropica per il 2017 ha suscitato il classico vespaio all’italiana con i soliti atteggiamenti manichei in cui in genere si divide l’opinione pubblica della nazione nazionalpopolare. A proposito della sismicità indotta i due schieramenti manichei sono:
  • quelli che tutti i terremoti (in particolare quelli dell’Emilia) sono indotti
  • quelli che parteggiano sfacciatamente per le case petrolifere e cercano di dire che questo problema avviene in pochi, pochissimi casi isolati

In mezzo ci sarebbe il rigore scientifico. Per una introduzione generale del problema ho scritto questo post.
Ora, chi mi conosce sa che non sono mai stato tenero con l’industria petrolifera. Addirittura sostengo che la questione del meteorite killer dei dinosauri sia stata tirata fuori non casualmente l’anno dopo l’articolo su Science in cui Dewey McLean espresse chiaramente l’idea che i rettiloni si sarebbero estinti a causa di un intenso riscaldamento globale dovuto ad emissioni di CO2. Nel mio libro ho appunto fatto notare come prima della trovata degli Alvarez, per i quali il K/T si è svolto in un un momento freddo e buio, tutti i dati erano (e sono tuttora…) in favore appunto di un forte riscaldamento dovuto a emissioni di CO2 naturali, con buona pace degli impattisti che continuano a far finta di nulla su questo (a proposito, anche Alvarez figlio ora sostiene che il cosmico scontro sia avvenuto ben prima del KT e che abbia solo avuto l’effetto di rendere particolarmente virulente le eruzioni del Deccan e le loro emissioni di CO2). Insomma, con le nostre emissioni stiamo facendo un esperimento globale per capire come si sono estinti i dinosauri e come sono avvenute le altre estinzioni di massa che hanno punteggiato la storia della vita sulla Terra. 
Come anche mi sono espresso chiaramente contro il fracking, una pratica devastante per il sottosuolo e per me ambientalmente insostenibile. Ma non si può accusare il fracking di quello che non fa direttamente.

La curva cumulativa degli eventi sismici negli USA centrali
evidenzia l'incremento dell'attività sismica negli ultimi anni
da [1] 
ESTRAZIONE DI IDROCARBURI CONVENZIONALE E CON L’IDRAULIC FRACTURING (FRACKING) E LA NECESSITÀ DI REINIETTARE ACQUE NEL SOTTOSUOLO. Il rischio sismico negli USA centrali è dovuto essenzialmente alle attività antropiche. Tanto per riepilogare come stanno le cose, ricordo brevemente la situazione: in molte zone di quell’area non interessate generalmente da terremoti, si è assistito negli ultimi anni ad un forte aumento della sismicità, come evidenzia la curva qui accanto, tratta da [1].  Lì per lì la causa era stata addebitata alle operazioni di fracking, cioè l’estrazione di idrocarburi non convenzionali dai gas e oil shales che sono nate e si sono sviluppate giusto negli ultimi tempi.
Nelle coltivazioni tradizionali gas e petrolio sono estratti dai pozzi esattamente come l’acqua, perché esistono delle falde sotterranee che li contengono in rocce permeabili. Gli scisti sono rocce sedimentarie molto dure e a grana molto fine: dunque a meno che contengano fratture sono impermeabili perché più la grana della roccia è fine, più piccoli sono gli interstizi fra i grani e quando questi interstizi sono troppo piccoli i liquidi non riescono a passare e rimangono quindi intrappolati.
Questo succede nei gas e oli shales: gli idrocarburi non possono essere estratti semplicemente pompandoli in quanto non sono liberi di muoversi negli interstizi fra i grani della roccia e allora per farlo occorre frantumare lo scisto. Allora si usa acqua ad alta pressione in cui vengono aggiunte sostanze (sostanzialmente acidi e battericidi) che – eufemisticamente parlando – non sono esattamente quanto ti aspetti di trovare nelle acque di una fonte alpina. La maggior parte di quest’acqua resta in profondità, ma una parte (tipicamente il 20%) torna indietro e va smaltita perché è un fluido altamente inquinante. E quindi in genere viene reiniettata nel sottosuolo.
Preciso inoltre che non esiste proprio di fare fracking con giacimenti tradizionali (a parte qualche scavo di pozzo, ma non per estrarre idrocarburi).

L’aumento della sismicità è correlato dal punto di vista temporale allo sviluppo del fracking. In realtà questa tecnica c’entra poco direttamente con questa storia: rapporti diretti sono stati evidenziati solo a Fox Creek (Alberta), Poland Township (Ohio) e Preese Hall (Inghilterra) ed è bene che anche gli ambientalisti lo sappiano, perché accusare il fracking falsamente oltretutto indebolisce l’azione di (per me giusta) protesta.
Segnalo poi che ci sono aree in cui la sismicità indotta avviene in corrispondenza di attività estrattiva convenzionale (per esempio Oklahoma, California e anche Basilicata). Si tratta di acque altamente salate che vengono pompate insieme al petrolio: anch’esse non possono essere rilasciate nell’ambiente. Spesso la reiniezione di queste acque serve anche per aumentare la produttività dei pozzi. Ne ho parlato qui.

Questo perché la sismicità è indotta non dai prelievi di idrocarburi, ma semplicemente dalla reiniezione di liquidi, quale ne sia l’origine (con buona pace di quelli che i terremoti in Adriatico sono dovuti “alle trivelle”...). Ne avevo parlato qui.
È bene chiarire che il fenomeno non riguarda tutti i pozzi di reiniezione, tantomeno lo fa in maniera casuale. 

LA SISMICITÀ NEGLI USA CENTRALI. Negli USA centrali solo l’area di Nueva Madrid, a cavallo fra Arkansas, Kentucky, Missouri e Tennessee presenta una sismicità di origine naturale, che ha provocato tra dicembre 1811 e febbraio 1812 4 eventi a M superiore a 7. Si tratta di alcuni dei più forti terremoti mai registrati lontano dai margini di zolla e su cui mi sono sempre ripromesso di parlare prima o poi. 
Nell’area di Nueva Madrid l’Iris Earthquake Browser segnala per l’attività sismica negli ultimi 30 anni 67 scosse con M uguale o superiore a 2 (con 5 eventi a M > 4.0) tra febbraio 1987 e febbraio 1997, 68  tra febbraio 1997 e febbraio 2007 (1 evento a M 4.1). Tra febbraio 2007 e febbraio 2017  sono stati invece 286 (2 eventi a M 4 e 4.1 nel 2012 e nel 2015), ma l’aumento esponenziale lo vediamo dal 2014 a oggi: da un valore compreso tra 5 e 13 eventi l’anno registrati tra il 1987 e il 2013, siamo passati a 56, 75 e 72 eventi all’anno tra il 2014 e il 2016.
Insomma, si tratta di una zona sicuramente teatro di sismicità naturale, come naturale è considerato l’aumento degli ultimi anni: a prima vista l’aumento sembra eccessivo ma il grafico presentato nel lavoro ridimensiona l’impressione che si ha leggendo le cifre brutali. Oltretutto non ci sono attività di estrazione di idrocarburi nell’area interessata dalla sismicità, anche se esistono in zone vicine.

Carta modificata da [2]: in giallo i pozzi di reiniezione che
hanno indotto sismicità, in cui ho evidenziato le zone
a rischio nel rapporto per l'anno 2017
Ci sono poi 4 aree in cui la sismicità è di origine puramente antropica: Oklahoma-Kansas, Raton Basin (tra Colorado e New Mexico), Texas settentrionale e Arkansas settentrionale.
Come mai queste aree sono particolarmente prone al fenomeno? Perché la sismicità indotta si sviluppa su faglie preesistenti che si trovano nel basamento metamorfico sotto i sedimenti fra i quali ci sono quelli contenenti gli idrocarburi. Queste faglie non sono più attive dalla fine dell’orogenesi ercinica (250 milioni di anni fa): per rimetterle in movimento occorre che la pressione dei liquidi immessi superi l’attrito del piano di faglia e quindi per provocare il fenomeno i pozzi devono accoppiare a un elevato tasso di reiniezione lo scarso spessore di sedimenti sopra il basamento. Queste condizioni, negli USA centrali, si hanno soprattutto nell’interno, come si evidenzia da questa carta presa da [2]; ad esempio, le reiniezioni influenzano la pressione dei pori delle vecchie faglie del basamento nel Texas settentrionale e in Oklahoma, dove lo spessore della copertura sedimentaria è esiguo, mentre nella zona del Golfo del Messico la serie sedimentaria è enorme e quindi è difficile che la sovrapressione arrivi al basamento. Non sto a dilungarmi sulla questione, visto che per chi vuole approfondirla avevo scritto questo post.

L’OKLAHOMA. Ho parlato anche in specifico della sismicità indotta nell’Oklahoma dall’inizio del XX secolo in quanto è avvenuta anche ben prima degli ultimi anni e, soprattutto, perché è legata a coltivazioni convenzionali. Il post è della fine del 2015 e quindi approfitto dell’occasione per aggiornarlo. In questo stato dal 2009 è stato registrato un aumento della sismicità in numero ed intensità degli eventi e il 2016 è stato piuttosto pesante: 21 eventi con M ≥ 4, di cui 3 con M ≥ 5, tutti avvenuti nella zona che era stata indicata come quella più a rischio nel rapporto 2016. Ci sono stati anche danneggiamenti, liquefazioni del terreno e fuoriuscite di sabbie.
Come è noto la sismicità indotta si distingue da quella naturale perché con il tempo aumenta in intensità e numero di scosse. In Oklahoma è evidente l’aumento sia degli eventi sia della loro intensità: tra il 1980 e il 2000 ci sono stati soltanto 2 terremoti a M superiore a 2, mentre dal 2009 in poi si vede un crescendo rossiniano fino ai 2500 e 4000 terremoti con M > 2.0 rispettivamente nel 2014 e nel 2015. Il numero è calato a 2500 nel 2016. Il primo evento importante a causare danni è stato il terremoto M 5.7 del 6 novembre 2011 di Prague. Notare che nel 2016 la diminuzione della frequenza degli eventi ha comunque coinciso con l’anno in cui si è verificato un numero maggiore di quelli con M uguale o superiore a 5.0.

La sismicità negli USA centrali tra 2015 e 2016, da [3]
IL RAPPORTO 2017. Rispetto a quello per il 2016, il rapporto del 2017, appena uscite in un articolo pubblicato su Seismological Research Letters [3], presenta un rischio minore in alcune aree dove il 2016 è stato “meno sismico” del 2015. La cosa potrebbe essere connessa con gli effetti di nuove regole imposte dalle autorità, ma anche con la diminuzione dei volumi di idrocarburi estratti a causa della fase a basso prezzo del petrolio che ha reso antieconomico lo sfruttamento di riserve coltivate con il fracking o convenzionali in cui il costo di estrazione è particolarmente alto. Meno estrazione significa anche meno reiniezione; oggi il numero di pozzi attivi è in netta ricrescita e questo significa un maggiore volume di fluidi da reiniettare. Non solo, ma trattandosi di pozzi “maturi” la quantità di acqua pompate insieme al petrolio è maggiore che in pozzi giovani e questo è un altro aspetto preoccupante per il 2018 (a dimostrazione del fatto che il rischio sismico da attività indotta cambia rapidamente con il tempo). 
Resta il fatto che in tutte le aree interessate il rischio sismico resta molto più alto di quello che era prima del 2009, e questo proprio a causa delle attività antropiche.

La conclusione del lavoro è che nonostante il rischio sismico da attività antropica sia diminuito, tra Oklahoma e Kansas meridionale ci sono ancora 3 milioni di persone che vivono dove il potenziale di danno strutturale alle case è elevato, in quanto queste costruzioni sono state concepite per una zona a rischio sismico naturale nullo mentre oggi abbiamo un rischio simile a quello che esiste naturalmente in California.

NB: per chi volesse approfondire la situazione di casa nostra sulla sismicità antropica in Italia ne ho parlato a questo link.

[1] Ellsworth (2013) Injection-Induced Earthquakes Science 341, 1421225942. DOI: 10.1126/science.1225942 
[2] Weingarten et al. (2015): High-rate injection is associated with the increase in U.S. mid-continent seismicity. Science 348; 1336 – 1340
[3] Petersen et al. (2017) 2017 One-Year Seismic-Hazard Forecast for the Central and Eastern United States from Induced and Natural Earthquakes Seismological Research Letters 88-3 doi: 10.1785/0220170005