martedì 29 settembre 2015

Acqua liquida su Marte: non è che sia stata vista ma ne sono state osservate delle sue possiibli tracce


Togliamo innanzitutto una certezza di cui sono convinti in tanti dopo la conferenza stampa della NASA di ieri sera: nessuno ha ancora visto l'acqua scorrere su Marte, nè ci sono dei canali, anche se più piccoli, sul tipo di quelli che credeva di aver visto Schiaparelli: il succo della cosa è che con ogni probabilità sono stati visti i probabili effetti di questo passaggio, dei depositi salini lungo dei canali il cui aspetto cambia al cambiare delle stagioni. Infatti l'articolo che è stato annunciato non si intitola “trovate su Marte delle zone su cui scorre l'acqua, almeno in certe condizioni”, bensì “Spectral evidence for hydrated salts in recurring slope lineae on Mars” e cioè, in pratica, che l'analisi spettrografica di alcune immagini evidenzia la presenza di sali idrati in alcune linee che si ripetono ad ogni stagione su dei pendii. Ritengo pertanto necessario fare alcune puntualizzazioni sulle RSL, cioè su queste strisce particolari che compaiono ad ogni estate e su cosa abbiano davvero scoperto gli scienziati .

È noto anche ai sassi che il principale scopo delle tante ricerche su Marte è capire se ospiti (o abbia ospitato nel passato) delle forme di vita. Il tutto passa ovviamente dal capire quanta acqua c'è e c'era in passato sul pianeta rosso.

L'atmosfera di Marte è composta al 96% di CO2, a cui si sommano circa il 3% fra azoto e argon molecolari; la pressione atmosferica è decisamente bassa (0.6 millibar o, meglio, 60 pascal, contro i 1013 millibar di quella terrestre), per cui il ghiaccio in genere sublima direttamente a vapore senza passare per la fase liquida. Il vapore acqueo è praticamente inesistente (molto meno dell'1%) ma – curiosamente – proprio a causa della bassa pressione atmosferica generale ne basta davvero poco per ottenere una umidità relativa pari al 100%: detto in soldoni, anche se la quantità è risibile, si possono formare grazie alle basse temperature delle “nebbie” in zone a bassa quota.
Comunque la questione “acqua su Marte” è ancora poco compresa e per capire meglio se vi esista in superficie acqua liquida (e – di riflesso – vi possano essere le condizioni per la vita) il problema centrale è capire il ciclo idrologico del pianeta.

Grazie alle varie sonde in orbita intorno al pianeta rosso la presenza del prezioso liquido è già stata accertata da tempo in profondità e nel 2008 il lander Phoenix ne ha definitivamente accertato anche la presenza nel suolo marziano, grazie alle brine che ha trovato nel corso della sua breve missione (1 e bibliografia ivi contenuta); qualche mese fa, in aprile, è uscito un lavoro in cui analizzando i dati forniti dal rover Curiosity nel Cratere Gale, in particolare umidità relativa, temperatura dell'aria e temperatura del suolo, era stato osservato che in quella zona di notte si possono formare delle brine liquide nei primi 5 cm del suolo (2). Queste brine poi sono però destinate ad evaporare appena fa giorno. 

La novità di questi giorni, riportata in un articolo della rivista Nature Geoscience (3), è che acqua liquida possa scorrere sulla superficie del pianeta in determinate condizioni.
Marte ha un'inclinazione dell'asse simile a quella terrestre, ne consegue che ci sono cicli stagionali annuali in qualche modo proporzionali ai nostri, ed in effetti qualcosa cambia nelle caratteristiche della superficie; la maggiore differenza sta nella durata: un anno marziano è 687 giorni, quasi il doppio di quello terrestre (l'88% in più se si vuole essere più esatti).
Le osservazioni dirette sul suolo da parte di lander e rover e quelle satellitari hanno trovato sulla superficie vari sali come solfati, clorati e perclorati, che non solo hanno caratteristiche igroscopiche ma diminuiscono il tasso di evaporazione dell'acqua e la sua temperatura di fusione, trattenendola ed evitando che si disperda in atmosfera.

Le osservazioni di cui si parla oggi sono state compiute con uno dei (relativamente tanti) satelliti che girano intorno a Marte e cioè il Mars Reconnaissance Orbiter: lanciata nel 2005, questa sonda è concepita per monitorare con i suoi strumenti, fotocamere comprese, la superficie del pianeta rosso; fra i suoi compiti non c'è invece quello di comunicare con Opportunity e Curiosity, i rover che stanno esplorando i terreni marziani con eccellenti risultati (Spirit ormai è defunto), che rientra fra quelli assegnati alle sonde 2001 Mars Odyssey e  Mars Global Surveyor
In particolare si tratta di studi su una serie di linee a bassa riflettività, denominate in sigla RLS, “recurring slope lineae” (linee ricorrenti dei pendii) che sono state osservate nelle medie latitudini dell'emisfero sud del pianeta.

Le RSL condividono delle caratteristiche comuni, stabilite già da tempo, per esempio in un lavoro del 2011 che sono insite nella loro definizione (4):
  • Linee, perché hanno una forma molto stretta e allungata (praticamente assomigliano a dei nastri): la massima larghezza osservata è 5 metri 
  • Ricorrenti, perché sono tipiche delle stagioni calde: infatti svaniscono all'inizio dell'autunno e riappaiono all'inizio di ogni estate, quando la temperatura è piuttosto alta per Marte
  • nei Pendii, perché sono tipiche di alcune scarpate

Per completare la descrizione aggiungo che compaiono nell'emisfero meridionale in una fascia comprese tra 48 e 32 gradi di latitudine sud e quando la temperatura è superiore ai -20°C e che si formano preferibilmente quando la scarpata è più in pendenza, più orientata verso l'equatore (in Toscana si direbbe “a solatìo”) e aumentano avvicinandosi alla base della scarpata stessa. Di solito coincidono con piccoli canali e possono essere presenti a centinaia 

Il sospetto, fin da quando sono state scoperte, era che le RLS derivassero dallo scorrimento superficiale di acqua o di brine saline. Quindi, siccome i rover sono piuttosto lontani da quelle zone l'unica possibilità per comprendere cosa fossero era che gli strumenti a bordo dei satelliti riconoscessero in queste strisce la presenza di acqua o di sali idrati.
Per l'osservazione sono stati scelti alcuni siti, morfologicamente diversi. Crateri da impatto come il Palikir, l'Hale e l'Horowitz e la Coprates Chasma, una struttura che si estende per quasi 1000 e che fa parte del sistema delle Valles Marineris.  

Studiando in varie frequenze gli spettri prodotti dalle RLS di questi siti i ricercatori hanno trovato troppo poco assorbimento perché possa trattarsi di acqua ma la “firma spettroscopica” di sali idrati (in particolare il perclorato di magnesio e quello di sodio monoidrato, già predetti a proposito di Phoenix) e hanno supposto una loro relazione genetica con le RSL. Il modello prevede che l'acqua sciolga i sali idrati contenuti nel suolo e li depositi in concentrazione maggiore dove scorre. Questo ovviamente implica che oggi su Marte si possa trovare acqua liquida, almeno in quelle condizioni particolari: estate e pendii esposti verso l'equatore (ma – ripeto – a tutt'oggi nessuno l'ha ancora vista). 

Cosa si può dire a proposito di quest'acqua, in particolare qual'è la sua origine?
Non è chiaro da dove provenga e al proposito ci sono 3 ipotesi aperte, ma tutte con delle “controindicazioni”:
  • fusione di ghiaccio contenuto in superficie o nel sottosuolo: sarebbe l'ipotesi più semplice ma non sembra possibile a latitudini così basse (5)
  • l'acqua proviene da una falda acquifera locale. In questo caso il problema è geometrico: possible che una falda alimenti delle sorgenti così in alto come quelle che dovrebbero alimentare le RLS più alte? 
  • i sali assorbono umidità atmosferica a tal punto che vi passano in soluzione (la cosiddetta deliquescenza, tipiche delle sostanze igroscopiche. Ma non è sicuro che lo scarso vapor d'acqua della atmosfera marziana sia sufficiente per questo processo (6) 

Sono aperte tutte queste ipotesi e forse i meccanismi di formazione delle RSL sono differenti a seconda dei casi. 
Si deve comunque notare che la deliquescenza di sali igroscopici è un processo che “funziona” in uno dei luoghi più aridi della Terra, il deserto di Atacama, dove queste brine ospitano delle comunità microbiche. E questo ci porterebbe “parecchio in là”.... 

Questo è un video molto interessante al proposito:



(1) Elsenousy et al. 2015. Effect of evaporation and freezing on the salt paragenesis and habitability of brines at the Phoenix landing site. Earth and Planetary Science Letters 421, 39–46
(2) Martin - Torres et al. 2015. Transient liquid water and water activity at Gale crater on Mars. Nature Geoscience aprile 2015, DOI: 10.1038/NGEO2412
(3) Ojha et al. 2015. Spectral evidence for hydrated salts in recurring slope lineae on Mars. Nature Geoscience, settembre 2015, DOI: 10.1038/NGEO2546
(4) McEwen et al, 2011. Seasonal Flows on Warm Martian Slopes. Science 333, 740-743 
(5) Chevrier e Rivera-Valentin 2012. Formation of recurring slope lineae by liquid brines on present-day Mars. Geophysical Research Letters 39, L21202, doi: 10.1029/2012GL054119, 2012
(6) McEwen et al. 2014. Recurring slope lineae in equatorial regions of Mars. Nature Geosciences 7, 53–58

lunedì 28 settembre 2015

L'attività di Large Igneous Province in Europa nel Paleozoico e i suoi rapporti con TUZO, il “superswell” africano


Nel 1991 Coffin e Eldhom hanno introdotto il concetto di “Large Igneous Provinces”, inserendo nello stesso contesto i Flood Basalts continentali e i grandi Plateau oceanici (1). In seguito si è visto che la distribuzione di queste mega eruzioni non è casuale ma essenzialmente si raccoglie con poche eccezioni sopra due zone in cui abbiamo una risalita di materiale caldo del mantello (superswell) che influenzano molto pesantemente la tettonica globale (2), ad esempio provocando la frammentazioni “improvvisa” di masse continentali di lunga persistenza come alcune aree del vecchio supercontinente Rodinia e del Gondwana. Ci sono resti di strutture e rocce magmatiche che testimoniano il passaggio di alcune zolle continentali sopra questi Superswell. In questo post mi occupo di quanto affiora tra l'Europa Settentrionale e l'Africa e che dimostra il passaggio di una serie di masse continentali sopra la zona di risalita oggi posta sotto l'Africa e le sue conseguenze sulla tettonica globale.  

Fig. 1: Le LIP paleozoiche di Baltica (4) 
LE LARGE IGNEOUS PROVINCES DI BALTICA DALL'EDIACARIANO AL TARDO PALEOZOICO. La separazione fra Baltica, Laurentia e Amazonia è avvenuta nell'Ediacariano medio: filoni di affinità tholeiitica e alcaline affiorano nel basamento della Scandinavia, in terreni alloctoni dell'orogene Caledoniano e in Nord America nei dintorni del fiume San Lorenzo: sono datati a 620 – 600 Ma e possono essere interpretati come un sistema di rift che ha preceduto la divisione della massa continentale.
In questo post ho parlato della storia paleozoica della zolla baltica, sulla quale dopo la sua separazione e durante la deriva verso nord, si sono messe in posto diverse Large Igneous Provinces (d'ora in poi indicate con la sigla LIP). È probabile che la più antica di queste sia rappresentata dalle rocce alcaline di Seiland dell'Ediacariano medio (570 my ago), un evento molto breve che probabilmente si è accompagnato ad una tettonica estensionale (3). Ma non è chiaro a che distanza da Baltica è avvenuto tutto questo perché le rocce di Seiland si trovano nelle falde alloctone delle caledonidi e non è (ancora?) dato sapere a che distanza dalla costa di Baltica è avvenuto tutto questo. 
Altre principali LIP della Baltica sono i basalti di Volyn  tra Moldavia, Ucraina e Bielorussia (tardo? Ediacariano), la provincia alcalino – carbonatitica di Kola tra il NW russo e la Finlandia orientale (Devonian), il mega – rift di Prypiat – Dniepr – Donets tra Ucraina e russia meridionale  (Late Devonian), le rocce alcaline del bacino di Lublino tra Ucraina e Polonia (Carbonifero inferiore) e i basalti dello Skagerrak intorno al Mare del Nord tra Scozia, Norvegia e Germania (passaggio Carbonifero – Permiano). Alcune si vedono in questa carta tratta da (4).

PERMO – TRIAS: L'ATTIVITA SI SPOSTA “VERSO SUD” A LATITUDINI MEDITERRANEE. Nel Permo – Trias troviamo un vulcanismo sporadico ma di forte intensità nella piattaforma scitica e a nord del Caucaso, quindi a SE di Baltica (ormai aggregata nella Laurasia). Un'altra area importante di vulcanismo permo – triassico la troviamo nelle Alpi Occidentali, con i prodotti alcalini della zona Ivrea – Verbano tra Piemonte e Canton Ticino, dove ci sono tracce di attività vulcanica piuttosto intensa (ad esempio in Valsesia).
Sporadiche tracce di attività vulcanica si evidenziano anche in quello che era allora il bordo settentrionale dell'Africa.

Alla fine del Triassico si colloca l'attività della Provincia Magmatica dell'Atlantico Centrale, grazie alla quale termina la breve unione nel supercontinente di Pangea di Laurasia e Gondwana. Di fatto l'attività estensionale continua nella zona del Mediterraneo e nei Caraibi con l'apertura del sistema di piccoli bacini che formeranno tra Triassico e Giurassico la Tetide. La formazione di questi bacini si è conclusa entro il Cretaceo medio. Per tutto il Mesozoico sparse tracce di attività magmatica alcalina o tholeiitica si trovano nel settore italiano delle Alpi e negli Appennini, fino alla Sicilia. 

LA FORTE ATTIVITÀ DI LIP TRA GIURASSICO E CRETACEO E LA FRAMMENTAZIONE DEL GONDWANA. Nel Giurassico è avvenuto uno dei principali eventi nella storia della Terra, la frammentazione del Gondwana: per tutto il Paleozoico il grande continente ha continuato – diciamo così – a perdere dei pezzi (per esempio, ma non solo, Cimmeria e Avalonia) con l'apertura di piccoli bacini i cui resti si trovano nelle catene montuose tra la Turchia e l'Hymalaia, ma questo è nulla rispetto all'improvvisa frammentazione avvenuta nel Giurassico, grazie alla quale è iniziata l'apertura dell'Atlantico meridionale e dell'Oceano Indiano. Questo evento è stato accompagnato da una forte attività di LIP (ad esempio Paranà – Etendeka, Karoo – Ferrar, Madagascar, Deccan, plateau Caraibico e Kerguelen), l'ultima delle quali è rappresentata dai basalti dell'Afar

Fig. 2: I due superswell sotto l'Africa e sotto il Pacifico da (2)
IL LEGAME FRA GEOTETTONICA E PASSAGGIO DELLE ZOLLE SOPRA IL SUPERSWELL AFRICANO. Vediamo ora di tracciare un legame fra questi eventi vulcanici e la tettonica globale.
Per prima cosa notiamo che mentre su Baltica c'è stata nel Paleozoico una intensa attività di LIP e rifting, in Laurentia ci sono pochissime tracce di ciò: il rift del Lago Superiore che però è molto antico, più di quanto ci interessi (oltre un miliardo di anni fa); perciò l'unica che conosco è la Wrangellia, che appartiene ad un terrane agglomerato nella parte occidentale dell'America nel Mesozoico. 

La circostanza interessante è che la geografia attuale ci suggerisce un trend in direzione NS: gli eventi più antichi di Baltica (nel Paleozoico inferiore) si trovano molto a nord, poi l'attività scende verso la parte meridionale del continente nel Paleozoico medio per poi arrivare nella sua parte meridionale nel Paleozoico superiore. Tra Permiano e Trias sono coinvolte la parte meridionale di Baltica e quella settentrionale dell'Africa, tra Giurassico e Cretaceo inferiore l'area caraibico - mediterranea dei bacini della Tetide e, successivamente, si frattura il Gondwana. 
Ma è altrettanto interessante la circostanza che tutte queste LIP si sono messe in posto quando le relative zolle erano posizionate a latitudini subtropicali o tropicali: per esempio il centro della provincia dello Skagerrak si trovava all'epoca delle eruzioni più o meno dove ora si trova il Lago Ciad (5). Quindi l'apparente movimento verso sud dell'attività riflette il movimento verso nord delle zolle.  

La presenza di due aree del mantello, sotto l'Africa e sotto l'Oceano Pacifico, caratterizzate da bassa velocità delle onde sismiche e da correnti di risalita di materiale da profondità superiori era stata dimostrata fin dagli anni '80. Nel 2006 Torsvik e altri Autori (6) dimostrarono come la maggior parte degli eventi di LIP degli ultimi 200 milioni di anni si siano messi in posto al di sopra di queste due ristrette aree, identificate come LLSV (Large Low Shear Velocity Provinces – grandi province a bassa velocità delle onde di taglio). Recentemente sono state ridenominate African Swell e Pacific Swell: questo nuovo termine focalizza maggiormente l'attenzione sulla risalita di materiali dal profondo che sulle loro caratteristiche geofisiche. e poi anche battezzate con il nome di TUZO (The Unmvoved Zone Of Earth's deep Mantle) il primo, in onore del grande e - non solo da me - amatissimo John Tuzo Wilson e JASON (Just As Stable ON) il secondo, in onore di un altro famosissimo geofisico, Jason Morgan (7).  
Questi superswell sono una caratteristica piuttosto antica, come dimostrano le LIP disperse in tutti gli angoli della Terra che dimostrano il passaggio delle varie zolle al di sopra di loro, almeno nell'ultimo miliardo di anni della storia della Terra. 
L'attività magmatica può essere saltuaria e sparsa come succede negli ultimi milioni di anni nella regione del Sahara, che ho descritto qui o come le lave cretacee di Castiglioncello del Trinoro in Toscana meridionale; ma talvolta la sequenza degli eventi è più complessa: 
  • formazione di una struttura di rift intracontinentale
  • messa in posto di flood basalts continentali
  • rottura e separazione di due continenti 
  • e, finalmente, la formazione di un nuovo oceano lungo l'asse determinato dalla posizione di vari centri di LIP più o meno contemporanei

Naturalmente tutte le catene di eventi sono complete: abbiamo oggi situazioni che vanno da resti di piccoli centri isolati fino a LIP distribuite nei margini opposti degli oceani che circondano l'Africa come la Provincia dell'Atlantico Centrale, i basalti del Paranà – Etendeka e di Karoo – Ferrar. 

Possiamo così spiegare la distribuzione attuale delle LIP tra l'Eurasia occidentale, le Americhe e l'Africa e la storia tettonica di entrambe le sponde dell'Atlantico come effetti superficiali del passaggio delle zolle sopra il superswell africano. 
Fig. 3: la posizione di Baltica e Laurentia nel Neoproterozoico da (7) 
La rottura fra Baltica e Laurentia è avvenuta ad alte latitudini meridionali, come si vede dalla figura 3 , tratta da (7). Non è irrealistico pensare che questa posizione fosse vicina a quella della zona tra le isole Bouvet e Marion, tra Africa e Antartide e il plateau delle isole Kerguelen: in questo quadro la separazione sarebbe avvenuta al primo incontro fra il continente che si è poi rotto e la parte più meridionale del superswell africano. 

LE VARIE FASI DEL RAPPORTO FRA ZOLLE E SUPERSWELL AFRICANO NEGLI ULTIMI 650 MILIONI DI ANNI, DALL'EDIACARIANO AD OGGI. Possiamo quindi riconoscere preliminarmente 5 fasi nell'evoluzione del rapporto fra eventi tettonici e Superswell africano negli ultimi 650 milioni di anni:

Fig. 4: i rift di Baltica variamente orientati:
un modello per la formazione dei bacini tetidei? 

  1. tardo Neoproterozoico: l'arrivo nella zona del superswell africano del blocco formato da Baltica, Laurentia  e Amazonia ne provoca la separazione
  2. Ediacariano e Paleozoico: passaggio di Baltica sul superswell, formazione dei rift interni al continente e messa in posto delle varie LIP  
  3. Permo – Triassico: magmatismo nell'area mediterranea e nella piattaforma scitica, accompagnato da fenomeni di rifting in tutto il dominio australpino 
  4. Giurassico – Cretaceo inferiore: formazione dei bacini oceanici del complesso della Tetide fra Caraibi e Caucaso in un sistema complesso che secondo me potrebbe essere modellizzato come i rift di Baltica visibili nella carta di fig.4: parecchi bacini a varia orientazione hanno provocato la frammentazione dei margini della Tetide e la formazione di piccole masse continentali isolate e non un sistema legato principalmente a due grandi margini continentali. Episodi di vulcanismo intraplacca in tutto il sistema appenninico – maghrebide 
  5. dal Cretaceo superiore a oggi: l'evoluzione dei rift intorno all'Africa porta all'aperture di nuovi bacini oceanici dopo la frammentazone del Gondwana e. a causa delle spinte conseguenti, alla chiusura di quelli tetidei

Ognuna di queste fasi è caratterizzata dall'arrivo a un certo livello della catena degli eventi vulcano - tettonici: nel tardo Proterozoico la rottura del blocco Laurentia – Baltica – Amazonia ha generato l'Oceano Giapeto e quello di  Tornquist, come nel Mesozoico i vari bacini della Tetide e, in seguito, l'Oceano Atlantico e quello Indiano (ed è possibile che l'oceano da cui derivano i terranes oceanici dell'orogenesi timanide dell'Ediacariano dell'attuale margine settentrionale di Baltica derivino da una situaizone simile). Nel Paleozoico invece su Baltica non si è mai andati oltre il rifting e la produzione di imponenti colate basaltiche, senza quindi l'ulteriore frammentazione del continente.

Ci sono stati quindi, al passaggio sopra il superswell, dei comportamenti magmatici e tettonici molto diversi. Per spiegare queste differenze ci possono essere diverse ipotesi. Ne presento 3:


  1. impulsi più o meno violenti nell'attività del superswell 
  2. i movimenti nella part superiore del mantello sono diversi quando ci pass sopra un continente ristretto come Baltica o una grande massa continentale come il Gondwana o l'insieme pre – divisione di Baltica, Laurentia e Amazonia 
  3. Baltica non si è spezzata perché intorno zone a deformazione compressiva hanno prevenuto l'espansione dei rift

Ma, naturalmente, ci possono essere altre soluzioni... 

Bibliografia:

(1) Coffin M.F., Eldholm, O. (eds.), 1991, Large Igneous Provinces: JOI7USSAC workshop Report. The University of Texas at Austin Institute for Geophysics Technical Report No.114

(2) Faccenna C. et al., 2013, Mountain building and mantle dynamics. Tectonics 32, 1–15

(3) Roberts (2007) Palaeocurrent data from the Kalak Nappe Complex, northern Norway: a key element in models of terrane affiliation. Norwegian Journal of Geology, vol. 87, pp. 319-328

(4) Kravchinsky 2012 Paleozoic large igneous provinces of Northern Eurasia: Correlation with mass extinction events Global and Planetary Change 86-87 (2012) 31–36

(5) Torsvik et al. 2007 Long term stability in deep mantle structure: Evidence from the ~300 Ma Skagerrak-Centered Large Igneous Province Earth and Planetary Science Letters 267 (2008) 444 – 452

(6) Torsvik et al. 2006 Large igneous provinces generated from the margins of the large low-velocity provinces in the deep mantle Geophys. J. Int. (2006) 167, 1447–1460

(7) Burke K (2011) Plate Tectonics, the Wilson Cycle, and Mantle Plumes: Geodynamics from the Top. Ann Rev Earth Planet Sci 39:1–29.

(8)  Elming et al (2007) Palaeomagnetism and 40 Ar/ 39 Ar age determinations of the Ediacaran traps from the southwestern margin of the East European Craton, Ukraine: relevance to the Rodinia break-up Journal of the Geological Society, London, Vol. 164, 2007, pp. 969–982.

sabato 26 settembre 2015

Scienza, partecipazione e cittadini: è possibile un coinvolgimento diretto dei cittadini nei programmi scientifici? Una proposta di Caffà - Scienza di Firenze per la "Citizen Science"



Come Associazione Caffè - Scienza di Firenze, inquadrata nella rete dei Caffè Scientifici italiani ed europei, io ed altri amici siamo impegnati in una divulgazione scientifica diversa in cui il dibattito è guidato dal pubblico e non dagli esperti, come avevo già illustrato in questo post. Crediamo molto in questo metodo che può servire anche per orientare l’Opinione Pubblica verso quello che è un corretto approccio scientifico alla realtà e alle decisioni che devono essere prese. In questi giorni stiamo discutendo di qualcosa che va ancora oltre, ossia la Citizen Science, termine che in italiano potrebbe essere tradotta come “i cittadini che fanno Scienza” (ma apriamo un contest per trovare la traduzione italiana migliore!). Che cos’è la Citizen Science? È la partecipazione del pubblico nella ricerca scientifica, in progetti che, coordinati da ricercatori professionisti, consistono nella raccolta e nella analisi di dati ed osservazioni da parte di cittadini che pur non essendo sono professionisti si offrono volontari per collaborare a questi progetti. Per mettere a fuoco questa serie di proposte, vorremmo usare lo strumento collettivo del Caffè - Scienza stesso, ed organizzare perciò un incontro aperto, in occasione del Festival della Scienza, a cui invitare tutti i soggetti che potrebbero essere coinvolti: enti di ricerca, ricercatori, blogger, associazioni di divulgazione scientifica e cittadini.
Per garantire la massima partecipazione, l’evento verrà mandato in streaming e si utilizzeranno vari metodi per permettere la partecipazione anche a distanza degli interessati.

di Franco Bagnoli e Aldo Piombino (Associazione Caffè - Scienza di Firenze)

La democrazia si basa sulla possibilità di fare scelte che abbiano un ampio consenso. Ma il mondo di oggi è molto complesso e spesso non è facile decidere su temi tecnici. Scelte energetiche (nucleare sì o no?), alimentari (OGM sì o no), mediche (procreazione assistita, screening genetico), sociali (migrazioni) sono solo esempi di temi che infiammano il dibattito, ma che spesso sono affrontati più a livello emotivo che razionale e critico (e il livello scientifico della discussione in molti casi è paurosamente basso). E quando è il livello emotivo a guidare il dibattito, concorrono (o addirittura dominano) interessi particolari (quelli che in caso di dibattiti su questioni che coinvolgono l’ambiente sono raccolti alla voce “sindrome NIMBY”) e interessi ideologici.

La prima dispensa della raccolta di scritti di Luigi Einaudi “Prediche inutili” si intitola “conoscere per deliberare” e focalizza la questione della conoscenza e delle scelte con queste parole:  
La conoscenza non si ottiene se invece del teorico o uomo di buon senso la ricerca del vero è affidata al dottrinario. Costui è un personaggio che possiede una dottrina, ed ha fede in quella. Egli non ragiona sul fondamento dei dati da lui conosciuti e della tanta o poca capacità di raziocinio ricevuta alla nascita da madre natura e perfezionata collo studio e colla esperienza. No; il dottrinario ragiona "al punto di vista". Prima di studiare, egli sa già quel che deve dire. Anche se non è iscritto ad alcun partito

Si sa che la Scienza almeno in linea teorica dovrebbe essere esente da pregiudizi di tipo ideologico e/o religioso (come da pregiudizi di tipo localistico) e fondarsi sui dati esistenti e sulla loro interpretazione. Anche se spesso è proprio il mondo scientifico ad essere diviso sul significato dei dati (se non addirittura sulla loro validità) e lo è di conseguenza sulle soluzioni da adottare, il rischio che tutti corriamo in questi casi è che la decisione venga presa con criteri che sono lontani dalla Scienza, oppure che sia delegata a “tecnici”, i famosi “esperti”, dalle cui decisioni nascono spesso quelli che vengono chiamati “conflitti ambientali” se riguardano, ad esempio, l’insediamento di una particolare infrastruttura in un territorio.

È quindi chiaro che i decisori debbano essere in grado di capire le cose sulle quali stanno per deliberare e che i cittadini debbano comprendere il perché e l’opportunità di queste decisioni. I decisori devono evitare di esprimersi esclusivamente per cercare “il consenso” specialmente quando il corpo elettorale che li dovrà giudicare userà più “la pancia” che “il cervello”.

IL TRASFERIMENTO DELL'INFORMAZIONE
DAL MONDO SCIENTIFICO E TECNOLOGICO ALLA CITTADINANZA

Certamente, per formare una opinione corretta, abbiamo bisogno di un supporto conoscitivo. Ma spesso questo trasferimento di conoscenza, quando c’è, avviene con la filosofia del “vaso vuoto”, secondo la quale i cittadini sono visti come persone che hanno un handicap che deve essere superato: la mancanza di conoscenza. Lo strumento per farlo è spesso quello del trasferimento: televisione, radio, giornali, conferenze, tutti canali essenzialmente unidirezionali, che - generalmente - tentano di semplificare le cose (talvolta forse troppo) e che in molti casi propongono direttamente una soluzione anziché illustrare le varie opzioni in merito oppure le espongono in maniera “non imparziale”.

Allo stesso modo tanti dei progetti che ricevono supporto economico pubblico (sia nazionali che europei) impiegano parte dei fondi per la “diffusione” dei risultati, ma questo avviene di nuovo in maniera monodirezionale: articoli divulgativi, siti WEB, gadget, materiale pubblicitario e magari qualche conferenza pubblica.

Un terzo aspetto si occupa invece dell’”umore” dei cittadini. Molte attività, soprattutto ma non solo, Il marketing commerciale, utilizzano indagini demoscopiche e sempre più spesso si parla di smart-cities e di collective awareness. Si tratta in genere di strumenti di indagine o di azione i cui risultati hanno spesso un risvolto sociale perché in qualche modo le reazioni degli intervistati possono influenzare le strategie di chi ha richiesto l'indagine. Ma anche in questo caso i cittadini sono spesso visti nel ruolo passivo di “target” o come “substrato”, e raramente come soggetti propositori.

Nel nostro Paese ci sono stati anche degli episodi di trasferimento monodirezionale spacciato per un interscambio di opinioni su una decisione da prendere, come il famoso “forum nucleare” prima del referendum del 2011, promosso dalle aziende coinvolte nel programma nucleare e in cui le opinioni contrarie a questo progetto subivano una moderazione molto pesante degli interventi.

UN APPROCCIO BOTTOM - UP NELLA PUBBLICA OPINIONE È POSSIBILE?

I Caffè - Scienza sono nati in parte per ovviare a questo problema, come si vede in questo filmato: 



Un Caffè - Scienza è una specie di anti-conferenza, in cui si tenta di far sì che il dibattito sia guidato dal pubblico, invece che dagli “esperti”. Ne avevo parlato dettagliatamente in questo post.   


Per questo scopo, si cerca di organizzare l’evento in un luogo dove i cittadini, più che gli esperti, si sentano “in casa” e quindi, se possibile: niente sale da conferenza ma piuttosto un pub, un caffè o anche un mercato. 
Anche la disposizione fisica del pubblico deve favorirne l’intervento: quindi bisogna mettere esperti e pubblico sullo stesso piano, incoraggiare le discussioni facendo sedere le persone attorno a dei tavolini, e magari offrire qualche bibita. La formula del Caffè - Scienza non è ovviamente unica: ci sono tanti esperimenti simili come “la Scienza al mercato” o “una pinta di Scienza”.

Il format di Caffè - Scienza è probabilmente più difficile da affrontare per “gli esperti”, sia perché devono parlare in “lingua corrente” e non nel gergo tecnico che usano con i colleghi, sia perché possono trovarsi davanti alle domande più varie. Però in questo modo si capiscono meglio i pensieri, le opinioni e gli aspetti della questione più vicini al pubblico e che talvolta possono essere diversi da quelli che gli esperti giudicano più interessanti.

Ma si può andare oltre: i cittadini possono essere chiamati a partecipare direttamente alla attività scientifica e anche, in qualche maniera, a guidarla. 
La maniera più semplice, è quella di agire come valutatori.  
Sarebbe molto più produttivo se coloro che ottengono fondi pubblici per le loro ricerche dedicassero parte del tempo e delle energie a incontrare il pubblico, e, nello spiegare cosa stanno facendo, ricevessero opinioni, suggerimenti e partecipazione. 
Per fare questo però c’è bisogno di una rete di collegamento tra ricerca e pubblico, compito che potrebbe essere svolto anche dal sistema dei Caffè - Scienza, che così potrebbero ricoprire un ruolo utile ed originale di mediatore tra il mondo della ricerca scientifica e tecnologica e la cittadinanza.

DALLE “SMART CITIES” AGLI “SMART CITIZENS”:
IL POSSIBILE COINVOLGIMENTO ATTIVO DELLA CITTADINANZA NELLA RICERCA

Oltre al ruolo di valutatori, i cittadini in prima persona potrebbero essere coinvolti nell’acquisizione dati e nell’elaborazione dell’intelligenza collettiva ed essere anche pronti a modificare l’azione a seconda degli stimoli ricevuti. 
Questo modo di agire rappresenterebbe un cambiamento epocale e anche in questo caso i Caffe - Scienza potrebbero svolgere un ruolo di raccordo tra progetti e popolazione.
Infine, gli enti di ricerca pubblici potrebbero, nello spirito degli “Science Shop”, mettersi al servizio dei cittadini, approfondendo in maniera scientifica le richieste “dal basso”, per esempio in tema di inquinamento, benessere, sicurezza, sia dal lato teorico (aumento della conoscenza scientifica della cittadinanza) che da quello pratico (risultati di indagini su particolari situazioni).
Di nuovo, c’è bisogno di strumenti collettivi per stimolare, affinare e gestire queste proposte. Il Caffè - Scienza potrebbe avere un ruolo centrale nella mediazione tra il mondo della ricerca e la cittadinanza.

Di questa proposta ci piacerebbe discutere a Genova in occasione del prossimo Festival della Scienza


lunedì 21 settembre 2015

L'Italia frana ma gli italiani che studiano le frane sono ai vertici mondiali



L'ultima classifica delle università rilasciata da QS TOP UNIVERSITIES – Worldwide university rankings, guides & events non ci lascia scampo. Su 3539 università considerate, delle quali ne sono state classificate solo 891, nessuna italiana è tra le prime 100 al mondo, e una sola nelle prime 200, il Politecnico di Milano, che occupa il posto n. 187 (sia pure “in risalita”). Davvero molto poco e si potrebbe quindi parlare di una crisi dei nostri atenei, tra tagli alle (già scarse) risorse, eccessiva burocratizzazione, personalismi e favoritismi, poche prospettive occupazionali a reddito decente etc etc. 

Ho già segnalato come anche la lingua italiana dimostri la presenza attiva delle frane nel territorio: con il gruppo di Geologia Applicata dell'Università di Firenze abbiamo censito i termini che in italiano vogliono dire frana: ce ne sono almeno 26!! 
E se in italiano il concetto di frana possa essere esteso in modo figurato ad altri campi (per esempio dire che una persona “è una frana” in qualche cosa), in inglese il termine landslide ci fa capire che qualsiasi cosa possa slittare e che quindi vada specificato che è la terra che slitta.... 
Purtroppo è sotto gli occhi di tutti che l'Italia stia franando, non solo dal punto di vista geologico, anche da quello figurato, fra inefficienze burocratiche, malcostume dilagante, una classe dirigente costosa e dedita a tutt'altro che al “bene comune” (della quale la classe politica, che ne costituisce solo una parte, fa da specchio fedele). 
I dati di QS TOP University dimostrano che l'università italiana non fa eccezione al quadro generale. 

L'ECCELLENTE POSTO NEL MONDO DEI RICERCATORI ITALIANI SULLE FRANE

Eppure c'è un campo in cui eccelliamo: la ricerca sulle frane (quelle vere) gode di ottima... stabilità: se sul “generico” le università e i centri di ricerca del Bel Paese (definizione ideata da un geologo, per l'appunto!) non godono di ottima salute, in questo settore, che sarebbe fondamentale dalle nostre parti, stiamo primeggiando come si vede anche da questa immagine, tratta dall'ultimo numero della rivsta Landslides (un nome, un programma..) sulla quale compare un articolo in cui gli Autori hanno eseguito una analisi bibliometrica degli articoli sulle frane pubblicati nel mondo fra il 1991 e il 2014, considerando ben 5702 istituzioni (1) 


La tabella 5 classifica gli istituti di ricerca più produttivi ed è molto lusinghiera per l'Italia, dato che occupiamo ben 5 posti nei primi 20, vincendo 3, diciamo così, medaglie di bronzo: infatti nella classifica generale assoluta e in quella delle grandi istituzioni, il CNR si colloca al terzo posto, dietro due giganti come l'Accademia delle Scienze cinese e il Servizio Geologico degli Stati Uniti (che invidia quando navigo nel sito dell'USGS....). 
Ma la cosa sensazionale è che vinciamo anche la terza medaglia di bronzo disponibile su 3: quella delle università, proprio con l'Università di Firenze, che fra gli istituti accademici si colloca dietro soltanto all'Università di Kyoto e quella Nazionale di Taiwan, cosa che oltretutto la pone al sesto posto assoluto della graduatoria. 
Dobbiamo registrare con soddisfazione anche, nella classifica assoluta, l'undicesimo posto della romana Università “La Sapienza”, il quindicesimo dell'INGV e il sedicesimo dell'Università di Bologna. 

Sono ovviamente particolarmente orgoglioso (me lo permetterete un po' di campanilismo, vero?) di questo piazzamento di Firenze. Conosco uno per uno i ragazzi del gruppo di Geologia Applicata del Dipartimento di Scienze della Terra, una buona parte precari (li vedo molto spesso visto che sono un po' un “membro onorario” del gruppo); sono ricercatori molto ben preparati, fanno miracoli con i finanziamenti a disposizione, e i fatti stanno dando ragione al “capo”, il professor Casagli, esperto di caratura internazionale e sempre in prima linea (specialmente in Italia la geologia è chiamata durante le emergenze, poi passato il disastro, gabbato lo geologo (e – purtroppo – anche resettata la memoria e  quindi si persevera negli errori nella gestione del territorio). 
Questo fatto è la dimostrazione che anche nella bistrattata università italiana quando si ha volontà di fare, i risultati possono arrivare. E non a caso il gruppo di Geologia Applicata dell'Università di Firenze è da diversi anni premiato dall'UNESCO come gruppo di riferimento mondiale per lo studio delle frane. 

Anche fra i “top authors” siamo messi bene: nella classifica che conta i soli “corresponding authors” ne nei primi 20 posti ci sono 4 italiani: Fabio Guzzetti, Giovanni Crosta, Flavio Vttorio de Blasio, Salvatore Martino. 
Nel complesso degli articoli invece siamo addirittura alla medaglia d'argento: secondo posto davanti alla Cina e dietro gli USA. Inoltre si può notare come i nostri ricercatori lavorino in un regime di scambi notevoli con il resto del mondo, come dimostra questa immagine.

RIFLESSIONI SU GEOLOGIA E ITALIA


Ora permettetemi due riflessioni: 

1. ai tempi dei terremoti dell'Aquila e dell'Emilia il mondo delle Scienze della Terra aveva già dichiarato pubblicamente i pericoli di quelle zone dal punto di vista sismico e la cartografia geologica era decisamente più "pessimista" di quella legislativa, almeno in Abruzzo. È quello stesso mondo che ha già dato più volte l'allarme per il dissennato uso del territorio nella nostra nazione e per una serie di circostanze le cose stanno peggiorando ulteriormente: a questo punto tutte le volte che una perturbazione investe il Paese sono danni e anche – purtroppo – vittime. Da metà agosto abbiamo avuto almeno 4 eventi con danni ingenti (Toscana, Calabria, Sicilia e Liguria / Emilia). 

2. Eppure la Geologia e le Scienze della Terra stanno sparendo dalle Università italiane: i Dipartimenti di tali discipline stanno chiudendo progressivamente tutti a causa della legge di riforma dell’Università (n. 240/2010 cosiddetta Legge Gelmini (ne parlai quando era ancora il Disegno di Legge n.3687) che ha colpito le comunità scientifiche di piccole dimensioni. I piccoli Dipartimenti costano troppo e allora via, cancelliamo un’intera disciplina. In parlamento c'è una proposta di legge per sbloccare questa situazione e far tornare i dipartimenti di Scienze della Terra ma ancora il suo iter è lontano dalla conclusione.

Quindi non ci sono scuse: sulle frane gli italiani sono fra i primi ricercatori al mondo sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo. E sapremmo pure fare prevenzione in proposito: evitare di costruire in zone a rischio come è stato fatto anche di recente, ad esempio, o evitare operazioni potenzialmente pericolose per il territorio. 
Sarebbe bello che i geologi venissero ascoltati prima che accadano gli eventi. Il problema è che i loro studi e le loro conoscenze hanno il difetto (per la classe dirigente) di limitare in qualche modo l'edificabilità dei terreni e/o il loro sfruttamento.

L'ESEMPIO CLASSICO DEL PESSIMO RAPPORTO FRA CLASSE POLITICA E ASSETTO DEL TERRITORIO: 
LA TRISTE STORIA DEI PIANI DI BACINO 

Per lemotivazioni ci cui sopra i geologi sono poco considerati e l'indecente storia dei Piani di bacino di cui ho ampiamente parlato qualche anno fa qui e che riassumo brevemente lo dimostra chiaramente:

1966: le gravissime alluvioni a Firenze e in altre parti d'Italia
1967: la legge 632/67 istituisce la “commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e per la difesa del suolo”, passata alla storia come la “commissione De Marchi” dal nome del suo presidente. Questa commissione riporterà le sue conclusioni in un immensa relazione già nel 1970. La stragrande maggioranza delle opere proposte è rimasta lettera morta

1989 (20 anni dopo): la legge 183 istituisce le Autorità di Bacino e sancisce la redazione dei “piani di bacino: tutte le attività umane, a partire dagli strumenti urbanistici, avrebbero dovuto ruotare intorno alle disposizioni di questi piani, redatti sul principio della difesa del suolo dai georischi (frane, alluvioni etc etc) con particolare riferimento alla gestione attenta delle risorse idriche e minerarie, alle opere di bonifica, regimazione delle acque e riforestazione, alla delimitazione delle aree a rischio, fino alla protezione del paesaggio e all'istituzione di riserve e parchi naturali.

1993: stante il fatto che nessun piano di bacino è stato ancora consegnato la legge 493 impone alle varie Autorità di Bacino i cosiddetti “piani di assetto idrogeologico”, una sorta di piani di bacino in piccolo

1998: un decreto del Presidente del Consiglio impone che i PAI vengano redatti entro il 30 giugno 1999, adottati entro il 30 giugno 2000 e approvati entro il 30 giugno 2001.

Al settembre 2010 (quindi dopo altri 10 anni!) su 37 previsti ce ne sono appena 20 tra adottati e approvati
Ora dovremmo essere al completo

Il tutto è decisamente stridente con l'attenzione che il nostro territorio, molto più debole della media europea per fattori geologici, climatici e antropici imporrebbe. 

Un'ultima postilla: le frane interessano ovviamente terreni che stanno "in alto" e non è ipotizzabile che nel futuro diminuiscano. Per rimanere ai primi posti ed evitare di franare anche nella classifica degli studi sulle frane occorre che Stato ed Enti Locali continuino a finanziarli....


(1) Xueling Wu I Xueye Chen I F. Benjamin Zhan I Song Hong (2015): Global research trends in landslides during 1991–2014: a bibliometric analysis. Landslides , DOI 10.1007/s10346-015-0624-z

giovedì 17 settembre 2015

Il terremoto cileno di ieri sera - sintesi preliminare e le lacune sismiche del margine andino


Il Cile è stato nuovamente colpito da un terremoto di magnitudo superiore a 8. Si tratta di un evento a M 8.3 (dati preliminari) con un meccanismo di thrust e cioè un movimento lungo un piano di faglia suborizzontale. 
In questa immagine vediamo l'area colpita. A occhio e croce il movimento ha interessato circa 200 km del limite di zolla.
Gli eventi di thrust (come quelli di Sumatra 2004, Giappone 2011 e quello del Cile del 2010) scatenano i terremoti più forti perché vincere l'attrito su un piano suborizzontale richiede un'accumulo di sforzi molto maggiore rispetto ad un piano subverticale.

La scossa di ieri sera si è scatenata lungo il piano di contatto fra la zolla sudamericana e quella di Nazca che le scende sotto muovendosi alla non indifferente velocità di 7.4 cme/anno.  Di conseguenza lungo il margine del Cile si sta formando un prisma di accrezione: a poco a poco la compressione lungo il margine di zolla schiaccia la crosta e i sedimenti della zolla di Nazca e li impila progressivamente lungo piani suborizzontali leggermente inclinati verso il continente, come si vede dal disegno qui sotto in cui le linee rosse sono le faglie che separano i vari cunei che via via si impilano l'uno sotto l'altro.



Ovviamente è in corso una intensa sequenza sismica. Noto che nella prima mezz'ora sono state registrate fra le repliche una scossa di 6.9 e una di 6.5. Siamo già a quasi 20 repliche con M ugualke o superiore a 5, di cui 4 superiori a 6
Questa è la conta aggiornata a un paio d'ore fa dal sito del Geofon program de GFZ di Poznan

5.3
71.97°W
51
A
Near Coast of Central Chile
5.0
72.03°W
10
A
Off Coast of Central Chile
4.6
71.94°W
38
A
Near Coast of Central Chile
5.0
72.48°W
10
C
Off Coast of Central Chile
5.1
71.80°W
24
M
Near Coast of Central Chile
5.3
71.84°W
43
A
Near Coast of Central Chile
6.6
71.56°W
44
M
Near Coast of Central Chile
6.3
71.39°W
10
A
Near Coast of Central Chile
5.2
71.55°W
50
M
Near Coast of Central Chile
4.9
71.28°W
46
C
Near Coast of Central Chile
4.8
71.32°W
43
C
Near Coast of Central Chile
5.2
71.66°W
70
A
Near Coast of Central Chile
4.9
71.97°W
28
C
Near Coast of Central Chile
5.7
71.54°W
28
C
Near Coast of Central Chile
5.6
72.15°W
10
A
Off Coast of Central Chile




5.3
71.79°W
43
M
Near Coast of Central Chile
5.7
71.84°W
10
A
Near Coast of Central Chile
5.8
71.88°W
25
M
Near Coast of Central Chile
6.9
71.44°W
25
M
Near Coast of Central Chile
5.8
71.69°W
48
A
Near Coast of Central Chile
6.5
71.74°W
10
M
Near Coast of Central Chile
8.2
71.55°W
29
M
Near Coast of Central Chile


Questa scossa è localizzata poco meno di 500 km a nord di quella interessata dal terribile terremoto del Maue del 27 febbraio 2010 (M 8.8) e di quello, ancora peggiore, di Valdivia del 1960 (M9.3) e piuttosto vicino a dove si è prodotto nel 1975 un evento a M 7.5.

I terremoti di Iquique del marzo 2014 avevano colmato una lacuna sismica (una zona senza terremoti recenti) che prendeva proprio il nome da quella località e di cui ai tempi ho parlato qui.
L'ultimo terremoto a M maggiore di 7.75 a Iquique era stato un M 8.6 nel 1877. 
Ora guardiamo la carta ricavata dall'Iris Earthquake Browser che mostra gli eventi a M uguale o superiore a M 7.5 in Cile negli ultimi 30 anni. 
Si tratta di 16 eventi. Quelli contrassegnati con il viola hanno una profondità inferiore ai 30 km. Quelli contrassegnati con il blu sono quasi tutti tra 30 e 50 km di profondità. Andando verso il continente la profondità degli ipocentri aumenta perchè aumenta quella del piano di subduzione e infatti i due verdi hanno un ipocentro a oltre 100 km di profondità e quello in rosso è stato un M 8.2 a 640 km di profondità registrato nel 1994.

Il terremoto di questa notte è il cerchio viola a nord di Santiago, che è quello più a nord dei 3 meridionali.
Negli ultimi 30 anni vediamo una lacuna immediatamente a nord dell'area colpita questa notte, che corrisponde alla regione di Atacama, in cui l'ultimo evento forte data al 1922 (terremoto di Vallenar del 1922 - M 8.5).