lunedì 31 agosto 2015

Il basso livello dei prezzi del petrolio di questo periodo: cause e conseguenze


Si fa molto parlare delle attuali basse quotazioni del petrolio. Trovo quindi interessante puntualizzare come mai siamo arrivati a questo punto e cosa ci sia sotto. Non so se e quando i prezzi torneranno a salire (cosa che appare logica a persone molto più competenti in materia del sottoscritto), ma i loro attuali livelli possono essere considerati un problema per le loro possibili conseguenze internazionali, perchè se da un lato diminuiscono la bolletta energetica dei Paesi importatori, dall'altro rendono più deboli le economie dei Paesi esportatori, posti in zone geopoliticamente non proprio stabili o alle prese con grossi problemi interni (e che in generale subiscono un forte ridimensionamento delle entrate). Inoltre rendono meno decisivi, almeno nel breve, gli sforzi per affiancare agli idrocarburi altre fonti di energia. 

Fino agli anni '70, cioè alla prima crisi petrolifera, il prezzo del petrolio era determinato principalmente dalle “sette sorelle”, le major USA del settore. Poi arrivò l'OPEC e da qui in poi le redini del comando sono state tenute dal più grande Paese produttore, l'Arabia Saudita. 
Secondo alcuni osservatori lo scenario sta cambiando: il prezzo del petrolio anzichè dall'OPEC sarà determinato più che altro dai produttori di petrolio “non convenzionale” dell'America Settentrionale, cioè Oil e Gas Shales diffusi in tutto il continente e le sabbie bituminose (Tar Sands) del Canada.

Ai fini del prezzo conta anche la qualità del greggio: i petroli sono tutti diversi fra loro e quindi non è, per esempio, che in una raffineria puoi sostituire il petrolio nigeriano con quello saudita senza modificare ciclo e tipo di produzione e da questo nascono quotazioni diverse a seconda della qualità.
Ma conta anche, naturalmente, il costo di estrazione. E qui le differenze sono abissali: a 80 dollari al barile i sauditi ci straguadagnano in maniera oscena, come altri produttori del Medio Oriente: il loro petrolio, facimente estraibile e a poca profondità, potrebbero venderlo anche a meno di 10 dollari al barile; ma chi produce da piattaforme offshore in mare profondo o sfrutta oil shales e sabbie bituminose a quel prezzo FORSE va in pari.
Vediamo in questa immagine le quotazioni degli ultimi 12 mesi del petrolio Brent del Mare del Nord e del petrolio WTI (West Texas Intermediate).


Il prezzo del petrolio Brent a sinistra e il prezzo del petrolio WTI negli ultii 12 mesi (dati da Il Sole - 24 ore)

ESTATE 2014: L'ARABIA SAUDITA INNESCA LA CRISI

Per adesso quindi il prezzo lo fa ancora l'Arabia Saudita e le quotazioni così basse sono esattamente la conseguenza di quello che vuole Riyad. Il problema è perchè la cosa le è ormai sfuggita di mano. 
Dopo che per anni è stata in qualche modo il custode di prezzi abbastanza elevati, un anno fa circa l'Arabia Saudita si era preparata a un periodo di prezzi “bassi” (Notate bene: “basso” significava 80 dollari al barile!).
Lo scopo dichiarato dell'operazione era: facciamo qualche sacrificio ora ma se teniamo questo livello di prezzo per un paio di anni ci togliamo dalle scatole tutti i concorrenti o quasi perchè scoraggeremo gli ingenti investimenti per esplorare altre zone o aumentare il numero dei pozzi nelle zone attive; inoltre i pozzi meno remunerativi verranno chiusi. Quindi da quel momento, con meno greggio in circolazione, potremo alzare i prezzi a piacimento. 

LA SITUAZIONE ATTUALE

Secondo i dati della Agenzia Americana per l'Energia la produzione mondiale di petrolio del 2014 è stata di 93 milioni di barili al giorno, mentre oggi siamo a 96, con un consumo di 93, con l'OPEC  che è tornata a livelli record, oltre il 60% della produzione, contro il 41% del 2012).

Il prezzo del petrolio continua a calare: meno di 80 $ in novembre, meno di 60 in gennaio e sotto i 50 in febbraio.
In primavera è tornato sopra quota 60 per poi scendere di nuovo sotto i 50. 
L'attuale congiuntura cinese non fa certo pensare ad un rimbalzo delle quotazioni e nell'ultima settimana di Agosto è stato toccato un minimo difficilmente superabile: Brent poco sopra i 40 dollari e WTI a meno di 39.

Come avevano previsto i Sauditi il ridimensionamento degli investimenti per nuove estrazioni è avvenuto, il Venezuela appare in una crisi da cui non si sa come uscirà e anche la Russia non se la passa bene. 

Ho qualche dubbio sulla posizione degli USA: da un lato l'operazione saudita fa loro tanto comodo perchè il prezzo basso del barile è un problema per Paesi produttori importanti come Russia, Venezuela o Iran che notoriamente non vanno molto d'accordo con Washington: dall'altro i produttori americani, già in preda a una crisi dei prezzi del gas dovuta alla grande produzione proveniente dai gas – shales, sono fra quelli a cui l'estrazione costa più cara e gli 80 $ al barile rappresentano – appunto – un limite sotto al quale le perdite sono sicure. 

Ed in effetti la crisi ha picchiato duro in quelli fra gli States che basano gran parte della loro economia sul petrolio: in Texas, North Dakota e non solo molte compagnie hanno provveduto a ridimensionarsi per non fallire, chiudendo pozzi attivi e/o cessando perforazioni e ricerche per nuovi pozzi; di conseguenza in questi Stati c'è stato un calo dell'occupazione, mentre – circostanza curiosa – negli Stati “importatori” di idrocarburi il beneficio dei prezzi più bassi ha consentito al contrario un aumento dell'occupazione come evidenziano i dati della figura qui sotto, che mostra le variazioni nell'occupazione negli USA stato per stato (si nota anche che per la maggior parte gli stati produttori sono a guida repubblicana, quelli importatori invece in generale sono guidati dai democratici).


Oggi per l'Arabia Saudita le cose non si mettono bene, perchè si sono ridotti i profitti: nel 2014 con un prezzo medio di 100 $ al barile, l'esportazione di 6.31 milioni di barili al giorno generava un ricavo quotidiano di 631 milioni di dollari, con un guadagno ipotizzabile di oltre 500 milioni di dollari al giorno. Nel primo quadrimestre del 2015 con quei livelli di produzione gli incassi sarebbero diminuiti a 340 milioni di dollari al giorno. 
Una bella differenza, non c'è che dire. Ma a questo punto per mantenere il livello di guadagni elevato, i sauditi che hanno fatto? Hanno aumentato la produzione a 9.6 milioni di barili nel quarto quadrimestre 2014 e a 10,5 in giugno, quasi il 70% di più rispetto a un anno fa (il che non ha certo contribuito a rialzare le quotazioni...). La stima della crescita del PIL locale è passata dal 3,6 del 2014 al 2,7% nel 2016 (valori comunque che noi invidiamo...) e il rapporto deficit / PIL per il 2015 diventa il 5%, con problemi con il costoso apparato dello stato.

Lo scenario a cui probabilmente nessuno a Riyad aveva pensato era che anche altri Paesi avrebbero alzato i livelli di produzione per mantenere lo stesso incasso. Non pensavano proprio che fosse una cosa possibile

SCENARI FUTURI: 
1. IL POSSIBILE AVVENTO SUL MERCATO INTERNAZIONALE DEL GAS AMERICANO

Non è previsto un aumento della richiesta di petrolio in Europa, mentre in Nord America il mercato delle importazioni può crollare al momento che i prezzi risalgono per la forte potenzialità produttiva interna (gas shales, oil shales e sabbie bituminose del Canada comprese). Quindi gli esportatori si devono rivolgere essenzialmente all'Asia ma se la Cina non va bene (come sembrerebbe) grandi possibilità di ripresa dei prezzi senza tagli nella produzione non ci sono, anche se i livelli toccati la settimana scorsa appaiono un minimo impossibile ad infrangere: è bastato un leggero miglioramento rispetto alle previsioni dell'economia USA per far guadagnare 5 dollari alle quotazioni. 
Ma c'è un pericolo in più. 

Per spiegarlo è molto interessante questo grafico, dove si vedono i prezzi di vari idrocarburi normalizzati alle loro capacità termiche, indicate in milioni di BTU (British Thermal Units): con le BTU si mettono in rapporto i prezzi dei vari idrocarburi con la loro capacità di riscaldare
Come si vede il rapporto prezzo / resa del gas negli USA all'”Henry Hub” è bassissimo: la discesa è iniziata nel 2008; in quel periodo assistemmo anche ad una forte discesa del prezzo del petrolio per varie cause. Poi, però, il Brent è tornato a salire: all'epoca l'OPEC aveva perso molte posizioni ma siccome una buona parte del greggio veniva da giacimenti costosi (con l'OPEC sotto al 50%) all'Arabia Saudita tutto sommato le cose andavano bene perché i concorrenti potevano vendere solo ad un prezzo molto più alto di quello che era il costo di estrazione in Medio Oriente, dove quindi i guadagni erano buoni. 
Invece il gas all'Henry Hub non è più riuscito a risalire a causa della sua enorme abbondanza provocata dallo sfruttamento dei gas – shales con i pozzi orizzontali (fracking). Ed è un mercato chiuso perchè in questo momento negli USA è praticamente vietata l'esportazione di idrocarburi all'estero, se non con qualche eccezione. 

Molte compagnie, specialmente di piccole dimensioni nel campo del gas, stanno facendo di tutto per non fallire nella “bolla del gas”, ampiamente prevista (da tutti tranne che dagli economisti...). Abbattere o allentare il divieto di esportazione sarebbe una valvola di sfogo per la domanda e aumenterebbe il livello dei prezzi sul mercato interno, ed è quello che stanno cercando di ottenere da Washington.

Senza fare dei calcoli precisi, nell'esportazione (che ovviamente dovrebbe essere fatta via nave) vanno conteggiati i costi per liquefare in partenza il gas, trasportarlo e rigassificarlo, ma il rapporto prezzo / BTU potrebbe ancora essere molto favorevole al gas: negli Stati importatori di idrocarburi ci potrebbe essere quindi la voglia di sostituire i combustibili con base il greggio con il gas in misura ancora maggiore di quello che è stato fatto negli ultimi 20 anni in molti impieghi (per esempio la produzione di energia) e per qualche decina di anni.

SCENARI FUTURI:
2. DIMINUIRE IL SURPLUS O CONTINUARE LA CONCORRENZA? 

Ma che succederà in Arabia Saudita, dove le spese militari (a partire da quelle per la guerra in Yemen) e di sicurezza sono in aumento a causa della instabilità di tutta l'area islamica di Africa e Vicino Oriente dal Marocco al Pakistan? 
La sua produzione non può ancora aumentare più di tanto, sia per mancanza di infrastrutture adeguate che per le ulteriori conseguenze nel prezzo. Ci si chiede solo fino a quando la situazione potrà restare quella attuale. 

È possibile che duri ancora poco se a Riyad decidano che è l'ora di finirla diminuendo la produzione e tornando  a 7 milioni di barili al giorno.
Ma se oggi i 10 milioni e mezzo di barili dell'Arabia Saudita, uniti ai 6 complessivi dei suoi alleati UAE, Kuwait e Qatar sono più o meno equivalenti a quelli dei suoi nemici (Russia, Iran e Iraq (senza considerare Venezuela e Nigeria), il rischio è che in caso di diminuzione della quota saudita gli altri pompino ancora di più, lasciando sul mercato il surplus attuale e, teoricamente, assicurandosi una distruzione reciproca delle loro economie a causa dei pochi incassi.
Se poi il gas americano irromperà nel settore le conseguenze potrebbero essere devastanti, almeno per una decina di anni.

Mi chiedo quanto sia plausibile uno scenario del genere e non mi lancio in previsioni.

I RISCHI A LUNGO TERMINE DEI PREZZI BASSI

Da ultimo faccio notare un problema fondamentale non per l'economia, che notoriamente ha un corto respiro, ma per l'ambiente: se il petrolio costa poco (e il gas ancora meno) se ne consuma di più e si rendono sempre più antieconomiche le ricerche e le rese delle energie alternative (o, meglio, allo stato attuale delle energie complementari, dato che un mondo oil – free in questo momento è impossibile). 

E  se da un lato più petrolio e metano si brucia più presto finirà, dall'altro il ritmo delle emissioni di gas – serra rimarrà alto. In più la crescente disponibilità di gas farà "dimenticare" che prima o poi il tutto finirà (o, almeno, finirà la sagra del prezzo basso)

È vero che dopo la rivoluzione industriale il petrolio ha assicurato al XX secolo energia a basso prezzo (ma con gravi conseguenze per il futuro) e questo regime di prezzi non fa che rimandare la soluzione dei problemi dettati dall'inquinamento e del riscaldamento globale (anche perché meno costano gli idrocarburi meno efficaci sono le politiche di risparmio energetico).

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