mercoledì 29 aprile 2015

La conservazione della fortezza di Shahr-e Zohak in Afghanistan: una ricerca italiana e i metodi ambientalmente compatibili per farlo


L'Italia ha una grande pratica nella conservazione dei beni culturali e ha le capacità per essere in prima fila anche quando si tratta di operare in Paesi poveri e zone remote. Le possibilità tecniche odierne in termini di rilevamento geomorfologico consentono di ottenere in tempi brevi una buona messe di informazioni, ma a causa degli scogli logistici ed economici vanno escogitati dei rimedi semplici, economici e soprattutto risolvibili con materiali e tecniche disponibili in loco. Un eccellente esempio di questo è la fortezza di Shahr-e Zohak, situata in una valle dell'Afghanistan centrale alle pendici meridionali dell'Hindu Kush. Siamo in un Paese martoriato da decine di anni di guerre ed occupazioni, ma ricco di testimonianze storiche uniche (purtroppo alcune volontariamente distrutte senza nessuna ricaduta pratica, come le enormi statue di Buddha che erano proprio in quella zona). Il sito monumentale è stato studiato da ricercatori dell'ISPRA e dell'Università di Firenze. Per tentare di bloccare o rallentare il degrado della struttura sono stati proposti e messi in opera dei rimedi semplici ed economici, ma che nel contempo avranno una certa efficacia pratica.

Da quando nel 1973 nel Paese fu abolita la monarchia, l'Afghanistan è sempre stato in guerra: rivalità religiose, politiche, tribali ed etniche, insieme agli interventi militari esterni sono una caratteristica costante degli ultimi 40 anni. 
Questa nazione dell'Asia Centrale, ricca di risorse minerarie, era ed è ancora ricca di beni culturali che sono stati ampiamente danneggiati in questi 40 anni di guerre in vari modi: molti siti archeologici per la loro posizione strategica sono stati usati come postazioni di artiglieria o occupati da eserciti o milizie o profughi; molti sono stati purtroppo minati in caso di ritirata degli occupanti per non essere lasciati in mani nemiche; altri sono semplicemente stati vittima dell'oscurantismo religioso, senza rivestire il minimo interesse strategico: l'esempio più famoso è rappresentato dalla distruzione delle due statue giganti di Buddha, impresa difficile che i Talebani hanno realizzato con accanimento e profusione di mezzi degni di miglior causa.
In Afghanistan oltretutto il quadro di base sarebbe già molto complesso di suo per diversi problemi: il territorio montagnoso, le condizioni climatiche aride, le tecniche costruttive e la mancanza di restauri di molte strutture abbandonate da secoli.

Vediamo un esempio di quello che si può fare per dare una mano e conservare la storia di questo martoriato Stato. Un sito piuttosto importante è la fortezza di Shahr-e Zohak, costruita a difesa della valle di Bamiyan. Siamo nell'Afghanistan centrale, lungo gli ultimi contrafforti meridionali dell'Hindu-Kush, proprio nella zona in cui si trovavano le due colossali statue di Budda, che non erano lì per caso, ma perché l'area è stata uno dei centri più importanti del buddismo dell'Asia Centrale: di lì passava la via della seta e quindi la valle rappresentava una tappa fondamentale dei commerci da e per la Cina, un'area privilegiata i cui viaggiatori, commercianti e pellegrini si scambiavano conoscenze. Il periodo buddista si concluse nel IX secolo d.C., con la conquista islamica.
Shahr-e Zohak è il sito più orientale della valle di Bamiyan, scelta dall'UNESCO come patrimonio dell'umanità dal punto di vista del paesaggio culturale; la fortezza fu costruita al tempo della dominazione araba a partire da un nucleo che era già attivo nel VI secolo, e fu abbandonata quando i mongoli di Gengis Khan invasero l'area e la espugnarono nel XIII secolo.

La situazione geomorfologica piuttosto complessa del sito rende difficile di suo la conservazione di un monumento del genere, e se poi ci mettiamo appunto i 700 anni trascorsi dall'abbandono, durante il quale ovviamente nessuno era interessato alla manutenzione del complesso, solo la scarsità delle piogge ha impedito la distruzione dei mattoni di fango (anche se l'aridità è – come vedremo - complice dell'erosione). Comunque molte delle costruzioni sono collassate o sono a grave rischio di collasso, non per la qualità dei mattoni, bensì per le condizioni geomorfologiche.
C'è da considerare anche che la zona ha un rischio sismico abbastanza elevato visto che a qualche decina di km si sono registrati negli ultimi decenni diversi terremoti con M superiore a 6.
Le fondazioni sono fatte di ciottoli fluviali, ma la costruzione è fatta di mattoni di fango ricavati dalla essiccazione di argille rosse, prodotte dall'alterazione delle rocce locali, marne e conglomerati che hanno riempito un bacino apertosi nel Terziario come riflesso della formazione dell'Hindu Kush.

Il clima è abbastanza secco e fresco (anche perché siamo a circa 3000 metri di altezza), le precipitazioni hanno un picco all'inizio della primavera (ma di media siamo sotto i 200 mm/anno) e siccome le medie mensili oscillano fra circa +20 e -5°C è evidente che spesso più che piogge siano scarse nevicate. Le basse temperature quindi aggiungono ai normali problemi di un posto del genereanche l'erosione dovuta alla espansione nelle fratture dell'acqua quando questa ghiaccia.

Uno studio di ricercatori italiani dell'ISPRA e dell'Università di Firenze ha avuto come oggetto proprio delle iniziative per la conservazione di questo interessante sito.
Per prima cosa dovevano essere individuati i processi geomorfologici attivi nel sito e in che modo influenzassero il paesaggio e le strutture antropogenetiche. A causa della scarsità delle piogge non c'è copertura vegetale e proprio per questo i maggiori problemi di erosione sono dati dal ruscellamento superficiale durante e dopo le poche precipitazioni (con le pendenze in gioco la velocità delle acque è elevatissima). Inoltre le rocce della zona (conglomerati e marne) sono particolarmente erodibili in queste condizioni climatiche. Ne consegue una situazione di equilibrio piuttosto precario. Addirittura se piove un po' di più si riattivano dei corpi franosi perché le argille di cui sono composti si imbevono di acqua diventando plastici.
Un altro problema è tipico delle fasi primaverili di disgelo: nel suolo il ghiaccio si trasforma in acqua aumentando la plasticità del suolo, che, complice la pendenza, si muove.
L'erosione sta addirittura provocando grossi solchi nelle mura e la maggior parte delle torri sono crollate da tempo.

Le tecnologie informatiche hanno sempre più importanza nello studio e nel monitoraggio di siti in difficoltà morfologiche e strutturali e soprattutto consentono ispezioni più rapide e precise rispetto alle tecniche tradizionali (anche se il geologo sa che questi mezzi integrano validamente quello che si vede e che non è possibile evitare delle ispezioni dirette).
A Shahr-e Zohak sono state usate in maniera massiccia.
Per prima cosa si è proceduto con un rilevamento dall'alto, eseguito ovviamente con un drone, le cui immagini sono state georeferenziate con le coordinate GPS.
Il tutto è stato poi inserito in un sistema di informazione geografica che ha fornito una base topografica eccellente. Bisogna notare anche che con un sistema di questo tipo estrapolando i dati della semplice topografia si ottengono altre importanti carte, per esempio quella della pendenza del terreno, fondamentale per capire la distribuzione delle aree più a rischio di frana.

Premettendo che è praticamente impossibile pensare di riportare la costruzione ai fasti di qualche secolo fa, resta solo da vedere cosa fare per impedire ulteriori crolli.
E qui la cosa si fa interessante, perchè l'intervento proposto è piuttosto innovativo anche per le difficoltà logistiche che porrebbe una sistemazione di tipo tradizionale. Pertanto i rimedi devono essere semplici, poco costosi e pratici: operare con sistemi industriali (in questo caso di consolidamento) non è economicamente sostenibile ed è praticamente impossibile logisticamente trasferire in loco macchinari, attrezzature e materiali idonei e nel proseguo assicurare assistenza continua. Inoltre i rimedi devono essere il meno impattanti possibile, mentre la loro realizzazione e manutenzione devono essere svolti da personale locale con mezzi e materiali locali. Per cercare di salvare il salvabile occorre mitigare i fenomeni erosivi e diminuire la velocità delle acque di ruscellamento.

I problemi della cittadella superiore, di quella inferiore e della scarpata sono molto diverse fra loro e quindi i rimedi sono stati studiati per ciascuna delle tre situazioni.
Nella cittadella superiore il problema si manifesta in primavera, quando lo scioglimento delle poche nevi invernali e la pioggia primaverile si infiltrano nel suolo, lo imbevono e lo rendono soggetto a movimenti

Sono previsti due tipi di intervento:

1. l'introduzione a scopo di stabilizzazione del suolo di un cespuglio locale, adatto a queste difficili condizioni climatiche.
Questa pianta è usata in zona come legname da combustione e la presenza di un suo stock consistente, sia pure in un'area difficile da raggiungere, potrebbe rappresentare una tentazione notevole per la popolazione locale, vanificando il tentativo: quando la protezione dell'ambiente o di un bene culturale cozza con gli interessi locali, specialmente se questi ultimi sono a breve orizzonte temporale (in questo caso risolvono il problema del riscaldamento per un inverno, ma dopo averle tutte distrutte siamo punto e a capo), occorre trovare delle soluzioni che contentino entrambi gli interessi; in soldoni in questo caso c'è bisogno di un accordo con la popolazione locale per evitare la distruzione delle piante. La proposta migliore è quella di usare la zona come vivaio, assicurando un equilibrio fra la crescita dei cespugli e il loro sfruttamento a scopo di riscaldamento.
È un principio che mi piace molto perché così si ottiene la salvaguardia sia degli interessi pratici che dell'ambiente (o di un bene culturale, come in questo caso).

2. sempre per ridurre il rischio delle frane, vengono costruite delle staccionate in legno che vanno in profondità nel suolo, fino al livello che le acque imbevono, impedendone il movimento.

Nella cittadella inferiore il problema è un altro: la velocità del ruscellamento. Per questo è stato ideato un sistema di dighe (in pietra e/o in legno a seconda dei casi) che, oltre alla funzione di rallentamento ha anche lo scopo di distribuire la caduta delle acque in maniera più uniforme rispetto alle condizioni preesistenti.

I problemi maggiori sono però nella scarpata che circonda la fortezza (la cui presenza è ovviamente alla base del perchè esiste Shahr-e Zohak). Qui la velocità del ruscellamento è elevatissima. Occorre pertanto iniziare dalla diminuzione della quantità di acqua che scende, e la soluzione escogitata incanala buona parte del ruscellamento in un alveo artificiale in cui la velocità di discesa sarà molto minore di quella attuale.

Questi accorgimenti comunque sono limitati alle condizioni esterne al manufatto. Purtroppo è il tipo stesso di pietre da costruzione che pone problemi di conservazione: il fango essiccato è sottoposto ad elevata alterazione a causa dell'umidità. Quindi migliorare la situazione è impossibile: l'unica possibilità è stoppare al massimo il degrado di questa imponente struttura.

Per chi ne volesse sapere di più l'articolo che parla di questa ricercae da cui sono state tratte le immagini è: C. Margottini, F. Fidolini, C. Iadanza, A. Trigila e Y. Ubelmann (2015): The conservation of the Shahr-e-Zohak archaeological site (central Afghanistan): Geomorphological processes and ecosystem-based mitigation. Geomorphology 239, 73 - 90

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