mercoledì 29 aprile 2015

La conservazione della fortezza di Shahr-e Zohak in Afghanistan: una ricerca italiana e i metodi ambientalmente compatibili per farlo


L'Italia ha una grande pratica nella conservazione dei beni culturali e ha le capacità per essere in prima fila anche quando si tratta di operare in Paesi poveri e zone remote. Le possibilità tecniche odierne in termini di rilevamento geomorfologico consentono di ottenere in tempi brevi una buona messe di informazioni, ma a causa degli scogli logistici ed economici vanno escogitati dei rimedi semplici, economici e soprattutto risolvibili con materiali e tecniche disponibili in loco. Un eccellente esempio di questo è la fortezza di Shahr-e Zohak, situata in una valle dell'Afghanistan centrale alle pendici meridionali dell'Hindu Kush. Siamo in un Paese martoriato da decine di anni di guerre ed occupazioni, ma ricco di testimonianze storiche uniche (purtroppo alcune volontariamente distrutte senza nessuna ricaduta pratica, come le enormi statue di Buddha che erano proprio in quella zona). Il sito monumentale è stato studiato da ricercatori dell'ISPRA e dell'Università di Firenze. Per tentare di bloccare o rallentare il degrado della struttura sono stati proposti e messi in opera dei rimedi semplici ed economici, ma che nel contempo avranno una certa efficacia pratica.

Da quando nel 1973 nel Paese fu abolita la monarchia, l'Afghanistan è sempre stato in guerra: rivalità religiose, politiche, tribali ed etniche, insieme agli interventi militari esterni sono una caratteristica costante degli ultimi 40 anni. 
Questa nazione dell'Asia Centrale, ricca di risorse minerarie, era ed è ancora ricca di beni culturali che sono stati ampiamente danneggiati in questi 40 anni di guerre in vari modi: molti siti archeologici per la loro posizione strategica sono stati usati come postazioni di artiglieria o occupati da eserciti o milizie o profughi; molti sono stati purtroppo minati in caso di ritirata degli occupanti per non essere lasciati in mani nemiche; altri sono semplicemente stati vittima dell'oscurantismo religioso, senza rivestire il minimo interesse strategico: l'esempio più famoso è rappresentato dalla distruzione delle due statue giganti di Buddha, impresa difficile che i Talebani hanno realizzato con accanimento e profusione di mezzi degni di miglior causa.
In Afghanistan oltretutto il quadro di base sarebbe già molto complesso di suo per diversi problemi: il territorio montagnoso, le condizioni climatiche aride, le tecniche costruttive e la mancanza di restauri di molte strutture abbandonate da secoli.

Vediamo un esempio di quello che si può fare per dare una mano e conservare la storia di questo martoriato Stato. Un sito piuttosto importante è la fortezza di Shahr-e Zohak, costruita a difesa della valle di Bamiyan. Siamo nell'Afghanistan centrale, lungo gli ultimi contrafforti meridionali dell'Hindu-Kush, proprio nella zona in cui si trovavano le due colossali statue di Budda, che non erano lì per caso, ma perché l'area è stata uno dei centri più importanti del buddismo dell'Asia Centrale: di lì passava la via della seta e quindi la valle rappresentava una tappa fondamentale dei commerci da e per la Cina, un'area privilegiata i cui viaggiatori, commercianti e pellegrini si scambiavano conoscenze. Il periodo buddista si concluse nel IX secolo d.C., con la conquista islamica.
Shahr-e Zohak è il sito più orientale della valle di Bamiyan, scelta dall'UNESCO come patrimonio dell'umanità dal punto di vista del paesaggio culturale; la fortezza fu costruita al tempo della dominazione araba a partire da un nucleo che era già attivo nel VI secolo, e fu abbandonata quando i mongoli di Gengis Khan invasero l'area e la espugnarono nel XIII secolo.

La situazione geomorfologica piuttosto complessa del sito rende difficile di suo la conservazione di un monumento del genere, e se poi ci mettiamo appunto i 700 anni trascorsi dall'abbandono, durante il quale ovviamente nessuno era interessato alla manutenzione del complesso, solo la scarsità delle piogge ha impedito la distruzione dei mattoni di fango (anche se l'aridità è – come vedremo - complice dell'erosione). Comunque molte delle costruzioni sono collassate o sono a grave rischio di collasso, non per la qualità dei mattoni, bensì per le condizioni geomorfologiche.
C'è da considerare anche che la zona ha un rischio sismico abbastanza elevato visto che a qualche decina di km si sono registrati negli ultimi decenni diversi terremoti con M superiore a 6.
Le fondazioni sono fatte di ciottoli fluviali, ma la costruzione è fatta di mattoni di fango ricavati dalla essiccazione di argille rosse, prodotte dall'alterazione delle rocce locali, marne e conglomerati che hanno riempito un bacino apertosi nel Terziario come riflesso della formazione dell'Hindu Kush.

Il clima è abbastanza secco e fresco (anche perché siamo a circa 3000 metri di altezza), le precipitazioni hanno un picco all'inizio della primavera (ma di media siamo sotto i 200 mm/anno) e siccome le medie mensili oscillano fra circa +20 e -5°C è evidente che spesso più che piogge siano scarse nevicate. Le basse temperature quindi aggiungono ai normali problemi di un posto del genereanche l'erosione dovuta alla espansione nelle fratture dell'acqua quando questa ghiaccia.

Uno studio di ricercatori italiani dell'ISPRA e dell'Università di Firenze ha avuto come oggetto proprio delle iniziative per la conservazione di questo interessante sito.
Per prima cosa dovevano essere individuati i processi geomorfologici attivi nel sito e in che modo influenzassero il paesaggio e le strutture antropogenetiche. A causa della scarsità delle piogge non c'è copertura vegetale e proprio per questo i maggiori problemi di erosione sono dati dal ruscellamento superficiale durante e dopo le poche precipitazioni (con le pendenze in gioco la velocità delle acque è elevatissima). Inoltre le rocce della zona (conglomerati e marne) sono particolarmente erodibili in queste condizioni climatiche. Ne consegue una situazione di equilibrio piuttosto precario. Addirittura se piove un po' di più si riattivano dei corpi franosi perché le argille di cui sono composti si imbevono di acqua diventando plastici.
Un altro problema è tipico delle fasi primaverili di disgelo: nel suolo il ghiaccio si trasforma in acqua aumentando la plasticità del suolo, che, complice la pendenza, si muove.
L'erosione sta addirittura provocando grossi solchi nelle mura e la maggior parte delle torri sono crollate da tempo.

Le tecnologie informatiche hanno sempre più importanza nello studio e nel monitoraggio di siti in difficoltà morfologiche e strutturali e soprattutto consentono ispezioni più rapide e precise rispetto alle tecniche tradizionali (anche se il geologo sa che questi mezzi integrano validamente quello che si vede e che non è possibile evitare delle ispezioni dirette).
A Shahr-e Zohak sono state usate in maniera massiccia.
Per prima cosa si è proceduto con un rilevamento dall'alto, eseguito ovviamente con un drone, le cui immagini sono state georeferenziate con le coordinate GPS.
Il tutto è stato poi inserito in un sistema di informazione geografica che ha fornito una base topografica eccellente. Bisogna notare anche che con un sistema di questo tipo estrapolando i dati della semplice topografia si ottengono altre importanti carte, per esempio quella della pendenza del terreno, fondamentale per capire la distribuzione delle aree più a rischio di frana.

Premettendo che è praticamente impossibile pensare di riportare la costruzione ai fasti di qualche secolo fa, resta solo da vedere cosa fare per impedire ulteriori crolli.
E qui la cosa si fa interessante, perchè l'intervento proposto è piuttosto innovativo anche per le difficoltà logistiche che porrebbe una sistemazione di tipo tradizionale. Pertanto i rimedi devono essere semplici, poco costosi e pratici: operare con sistemi industriali (in questo caso di consolidamento) non è economicamente sostenibile ed è praticamente impossibile logisticamente trasferire in loco macchinari, attrezzature e materiali idonei e nel proseguo assicurare assistenza continua. Inoltre i rimedi devono essere il meno impattanti possibile, mentre la loro realizzazione e manutenzione devono essere svolti da personale locale con mezzi e materiali locali. Per cercare di salvare il salvabile occorre mitigare i fenomeni erosivi e diminuire la velocità delle acque di ruscellamento.

I problemi della cittadella superiore, di quella inferiore e della scarpata sono molto diverse fra loro e quindi i rimedi sono stati studiati per ciascuna delle tre situazioni.
Nella cittadella superiore il problema si manifesta in primavera, quando lo scioglimento delle poche nevi invernali e la pioggia primaverile si infiltrano nel suolo, lo imbevono e lo rendono soggetto a movimenti

Sono previsti due tipi di intervento:

1. l'introduzione a scopo di stabilizzazione del suolo di un cespuglio locale, adatto a queste difficili condizioni climatiche.
Questa pianta è usata in zona come legname da combustione e la presenza di un suo stock consistente, sia pure in un'area difficile da raggiungere, potrebbe rappresentare una tentazione notevole per la popolazione locale, vanificando il tentativo: quando la protezione dell'ambiente o di un bene culturale cozza con gli interessi locali, specialmente se questi ultimi sono a breve orizzonte temporale (in questo caso risolvono il problema del riscaldamento per un inverno, ma dopo averle tutte distrutte siamo punto e a capo), occorre trovare delle soluzioni che contentino entrambi gli interessi; in soldoni in questo caso c'è bisogno di un accordo con la popolazione locale per evitare la distruzione delle piante. La proposta migliore è quella di usare la zona come vivaio, assicurando un equilibrio fra la crescita dei cespugli e il loro sfruttamento a scopo di riscaldamento.
È un principio che mi piace molto perché così si ottiene la salvaguardia sia degli interessi pratici che dell'ambiente (o di un bene culturale, come in questo caso).

2. sempre per ridurre il rischio delle frane, vengono costruite delle staccionate in legno che vanno in profondità nel suolo, fino al livello che le acque imbevono, impedendone il movimento.

Nella cittadella inferiore il problema è un altro: la velocità del ruscellamento. Per questo è stato ideato un sistema di dighe (in pietra e/o in legno a seconda dei casi) che, oltre alla funzione di rallentamento ha anche lo scopo di distribuire la caduta delle acque in maniera più uniforme rispetto alle condizioni preesistenti.

I problemi maggiori sono però nella scarpata che circonda la fortezza (la cui presenza è ovviamente alla base del perchè esiste Shahr-e Zohak). Qui la velocità del ruscellamento è elevatissima. Occorre pertanto iniziare dalla diminuzione della quantità di acqua che scende, e la soluzione escogitata incanala buona parte del ruscellamento in un alveo artificiale in cui la velocità di discesa sarà molto minore di quella attuale.

Questi accorgimenti comunque sono limitati alle condizioni esterne al manufatto. Purtroppo è il tipo stesso di pietre da costruzione che pone problemi di conservazione: il fango essiccato è sottoposto ad elevata alterazione a causa dell'umidità. Quindi migliorare la situazione è impossibile: l'unica possibilità è stoppare al massimo il degrado di questa imponente struttura.

Per chi ne volesse sapere di più l'articolo che parla di questa ricercae da cui sono state tratte le immagini è: C. Margottini, F. Fidolini, C. Iadanza, A. Trigila e Y. Ubelmann (2015): The conservation of the Shahr-e-Zohak archaeological site (central Afghanistan): Geomorphological processes and ecosystem-based mitigation. Geomorphology 239, 73 - 90

lunedì 27 aprile 2015

Il terremoto del Nepal del 25 aprile 2015 e la diffusa sismicità nel continente asiatico dovuta all'incunearsi dell'India nell'Eurasia


Il terremoto del Nepal del 25 aprile 2015 si inquadra nella collisione fra India ed Eurasia, iniziata all'inizio del Terziario, collisione che ha inciso pesantemente ad esempio sulla storia dei mammiferi placentati. Himalaya e altopiano del Tibet sono il risultato più evidente di questo evento geologico, ma non sono i soli: per rompere qualcosa di massiccio spesso si usa mettere dentro l'oggetto da rompere un cuneo, martellandoci sopra; ecco, l'India sta entrando nell'Eurasia come un cuneo, provocando una serie di deformazioni in una fascia molto ampia, che arriva fino al Tien Shan e alla Cina sudoccidentale, con una sismicità che va ben oltre la zona di contatto fra le due zolle.

Il sisma del 25 aprile è stato provocato dal movimento lungo un piano di faglia suborizzontale, vicino al limite fra la zolla euroasiatica e quella indiana che scende sotto l'Asia (anzi, è probabile che il movimento sia avvenuto proprio lungo il limite fra le due zolle). Lo vediamo in questo disegno tratto da Billam et al. (2002). Appartiene quindi al tipo di terremoti più devastanti, i cosiddetti terremoti di thrust. In quella zona le due zolle convergono a una velocità piuttosto bassa, circa mezzo centimetro all'anno. 

A livello generale la causa della sismicità di quell'area è l'indentazione dell'India nel continente asiatico. Chiariamo questo termine: si definisce indentazione il movimento con il quale una placca (o una parte di essa) si introduce all'interno di un altro continente e in qualche modo lo disturba: se un solido si incunea dentro un altro, questo secondo in qualche modo si deve deformare.
È anche quello che succede tra Veneto, Carinzia e Ungheria a causa della placca adriatica che entra in quella europea (per questo si sono separati le Alpi dai Carpazi, che si sono spostati verso est).

Questa carta, presa da Chatterjee et al. (2013) mostra bene la situazione.
1. Ad ovest vediamo che fra la zona di convergenza in Iran e quella in Himalaya c'è una grande distanza. Le due zone sono collegate fra loro da una linea trasversale, che corrisponde a una fascia di compressione ma soprattutto ad una grossa trascorrenza (la cosiddetta “faglia di Chaman”) complicata da una certa rotazione, a cui è legata la catena dei monti Sulaiman; in buona approssimazione è il limite fra l'Eurasia, ferma, e l'India che sta incuneandovisi dentro. Ne ho parlato a proposito del terremoto del Beluchistan del 2013.

2. Nella zona Himalayana, di cui il Nepal fa parte la situazione è un po' diversa: l'immagine mostra la situazione 400 km a NW di Kathmandu ma la situazione è la stessa. 


La zona di collisione inizia dove iniziano le colline prospicienti alla bassa Himalaya (è il sovrascorrimento frontale principale, conosciuto come Himalayan Main Thrust). È l'inizio del prisma di accrezione della Bassa Himalaya, che comprende numerosi altri sovrascorrimenti, a mano a mano più antichi più sono alti e vicini alla catena principale. I piani di scorrimento separano vari blocchi e sono suborizzontali anche se un po' inclinati verso NE.

Poi c'è la grande catena himalayana, al di là della quale una grande valle la separa dal Tibet. Questa valle corrisponde alla sutura dell'Indo, dove scorrono le parti più alte del corso dell'Indo verso ovest e del Brahmaputra verso est. 
In questa zona troviamo le ofioliti, cioè parte delle rocce che componevano il fondo dell'oceano posto una volta fra l'India e l'Eurasia. Qui finisce la zona principale di deformazione perché il Tibet fa parte della crosta del continente euroasiatico.

3. Ad est dell'Himalaya il limite è più complesso e la deformazione interessa pesantemente la fascia tra Cina (Yunnan) e Indocina. Qui prevalgono movimenti trascorrenti, come si evidenzia in questa carta. Ne ho parlato a proposito del terremoto cinese dell'agosto 2014.


LA SISMICITÀ DEL NEPAL

La sismicità più importante di questa zona interessa la parte fra il Main Frontal Thrust e la catena principale, quindi il Nepal è tutto all'interno di questa fascia dove i terremoti non sono particolarmente frequenti perché il sistema è quasi bloccato, ma quando avvengono possono raggiungere intensità piuttosto elevate. 
Possiamo ricordare due eventi del XX secolo, nell'agosto 1988, 250 km a SE, con M 6.9, che provocò 1.500 morti e quello del 1934, che colpì Kathmandu ed altre aree facendo 10.600 morti. 

Il più forte terremoto registrato con la strumentazione nell'area himalayana è quello del 15 Agosto 1950, avvenuto in Assam, la parte più orientale dell'Himalaya, nell'india Orientale. Sempre in Assam è particolarmente importante il terremoto del 1897, in cui si evidenziò in superficie una dislocazione lungo la faglia che lo ha generato di ben 11 metri: è stata la prima evidenza che i terremoti si generano per lo spostamento del terreno lungo una faglia. Durante questo evento, non drammaticamente potente ma dagli effetti particolarmente persanti perchè molto superficiale, si osservarono onde nel terreno e massi pesanti qualche decina di kg furono lanciati in aria, segno che i valori raggiunti valori dell'accelerazione cosismica sono stati superiori alla accelerazione di gravità.

L'epicentro della scossa di questi giorni è a ben 80 km da Kathmandu, ma la sua forza nella capitale è stata devastante per due motivi:
1. l'energia di un terremoto non si irradia da un punto, ma da un piano (e più grande è il terremoto più grande è la superifcie interessata). L'epicentro è collocato nella posizione in cui è iniziata la rottura, ma l'area interessata dal movimento in questo caso è più o meno un rettangolo lungo un centinaio di km e largo una quarantina, parallelo alla catena Himalayana, come si individua dalle repliche che si vedono in questa carta elaborata con l'IRIS Earthquake Browser: Kathmandu è sopra al piano di scorrimento e quindi non è a 85 km da dove è avvenuto il terremoto, ma proprio sopra. 
2. Nella capitale nepalese ci sono stati particolari effetti a causa della scarsa qualità degli edifici e, come è successo a Christchurch nel 2011 e a San Giuliano di Puglia nel 2002, per fenomeni di amplificazione locale delle onde sismiche.


LA DISTRIBUZIONE DELLA SISMICITÀ IN ASIA: 
UNA FASCIA MOLTO PIÙ LARGA DELLA ZONA DI CONVERGENZA FRA LE ZOLLE


Ed eccoci a parlare di un aspetto piuttosto interessante con questa carta, tratta da Van Hinsbergen et al. 2012, che mostra la disposizione delle varie macrounità geologiche che compongono la zona di collisione fra tra Pakistan, India, Birmania ed Indonesia.
In prima approssimazione la stratigrafia dell'Himalaya appare semplice; in realtà l'attribuzione paleogeografica di alcune di queste unità è ancora incerta e soprattutto la storia dell'orogene è molto dibattuta (vedi questo mio post).
Ed è ancora più complessa la situazione tettonica, perché se da un lato, come abbiamo visto nella figura di Billam, esiste un chiaro limite attuale di zolla con i suoi bravi sovrascorrimenti, confrontiamo la carta di Chatterjee con quest'altra, ottenuta con l'IRIS Earthquake Browser, in cui si evidenziano i terremoti con M uguale o superiore a 6 degli ultimi 30 anni: vediamo come la fascia interessata dagli eventi si prolunghi ben oltre il limite fra le due zolle. Insomma, l'India mentre si incunea nell'Asia ne fa di tutti i colori, provocando deformazioni anche in zone molto lontane, magari riattivando vecchie zone di debolezza in una fascia larga centinaia di km, fino all'estremità settentrionale del Tibet lungo il bordo meridionale del bacino del Tarim e addirittura nei monti del Tien Shan, a nord di questo bacino. Sono zone che si sono aggregate fra loro nel Paleozoico e assolutamente lontane da limiti di zolla attuali.


A ovest, dal mare arabico e dalla faglia di Chaman, fino all'Hindu Kush e al Pamir la sismicità è parecchio elevata, arrivando appunto alla antica catena del Tien Shan.
Nel Tibet gli eventi non sono tanti, ma come si vede sono dispersi un pò in tutto l'altopiano. Forti scorrimenti interessano la fascia di confine fra il Tibet e il bacino del Pamir, a centinaia di km dalla zona di contatto fisico fra le due zolle!

Anche il bordo orientale del Tibet è fortemente sismico. Vediamo in questa sezione per esempio come l'altopiano sovrascorra la crosta della Cina nella zona del Sichuan, nella zona colpita da forti terremoti negli ultimi 10 anni.
Un'altra conseguenza è la deformazione della fascia a nord dell'Indocina, dove predominano trascorrenze capaci di provocare sismi piuttosto forti .

Insomma, fra India ed Eurasia esiste teoricamente un limite di zolla abbastanza chiaro, la cosiddetta “sutura dell'Indo”, ma in realtà siamo davanti come per altre aree dell'Asia ad un “limite diffuso”, e ad una fascia in deformazione piuttosto larga.

Bibliografia citata:
Billam et al. (2002): Himalayan Seismic Hazard. Science 293, 1442-1444 
Chatterjee et al. (2013): The longest voyage: Tectonic, magmatic, and paleoclimatic evolution of the Indian plate during its northward flight from Gondwana to Asia. Gondwana Research 23,238–267
Cattin & Avouac (2000): Modeling mountain building and the seismic cycle in the Himalaya of Nepal. Journal of geophysical research solid Earth 105 B6,13389–13407
Van Hinsbergen et al. (2012): Greater India Basin hypothesis and a two-stage Cenozoic collision between India and Asia, PNAS 109/20, 7659–7664


sabato 18 aprile 2015

Frane a forte componente orizzontale causate da sottili livelli particolari: gli "Orizzonti Proni allo Scivolamento" come importante causa di fenomeni franosi


Quando a seguito di un crollo improvviso si capisce che il problema stava in una debolezza di base non considerata, si parla di gigante con i piedi di argilla. Questo vale in tutti i campi, da quello naturale a quello economico. In Geologia alcune frane hanno origine proprio dalla presenza alla base di pareti rocciose (anche alte centinaia di metri) di minime discontinuità litologiche. Avevo detto in un post precedente che in Inghilterra le frane sono un fenomeno quasi sconosciuto, tranne che su aree costiere. A leggere letteralmente il termine “landslide” si percepisce bene il senso di uno scivolamento e non di un crollo: questo perché la maggior parte delle frane di quel Paese sono proprio degli scivolamenti lungo una superficie spesso suborizzontale o inclinata di pochi gradi su degli orizzonti particolari, che si attivano all'improvviso: spessi pochi centimetri ma capaci di far collassare tutto quanto sta loro sopra, sono denominati SPH (Slide Prone Horizons – orizzonti proni agli scivolamenti) e spesso sono di difficilissima rilevazione. Per parlare di questo argomento è venuto a Firenze il professor Edward Bromhesd dell'Imperial College di Londra, uno dei massimi esperti mondiali dell'argomento. Pubblico volentieri un post su questo argomento, anche per i tristissimi riflessi di casa nostra: dopotutto anche la tragedia del Vajont è nata da un SPH....

Quella parete di roccia sembrava eterna: una scogliera di argille, arenarie e calcari sedimentatasi in un ambiente che cambiava di continuo: depositi di mare poco profondo, di laguna, delta e pianura costiera mescolati in un insieme disordinato. Una manna per i paleontologi, che vi trovavano ogni genere di animali, dai molluschi a resti di grandi vertebrati.
D'accordo, l'erosione agisce sempre e in continuazione, dilavando la roccia e generando numerosi, piccoli crolli; ma un giorno tutto questo ben di Dio si afflosciò miseramente ed improvvisamente su se stesso. La massa principale si spostò di parecchi metri, rimanendo comunque in gran parte intatta, pur se in una posizione più bassa di prima e inclinata.
La cosa incredibile è che tutto questo caos è stato guidato da un livelletto di pochi centimetri di spessore che non era stato riconosciuto. Questa sezione in particolare è sull'isola di Wight e il livello che ha causato il pandemonio è situato alla base del Gault, una argilla del Cretaceo inferiore.

Ma come è possibile che uno straterello di 3 centimetri possa mandare in crisi una serie di rocce spessa decine di metri? Semplice, basta che sia un “orizzonte prono allo scivolamento", meglio noto come SPH, Slide Prone Horizon, una denominazione ideata da John Hutchinson e da Edward Bromhead nel 2002.
Gli SPH sono delle bombe a orologeria: livelli particolari o per composizione o perché lungo essi si individua una discontinuità; la loro resistenza meccanica (in special modo a sforzi di taglio) può abbassarsi in maniera drastica ed improvvisa, di solito per colpa delle piogge.
Insomma, un corpo roccioso è tenuto insieme semplicemente grazie alle forze di attrito. Ecco, l'improvviso crollo della resistenza al taglio in quello straterello vi annulla le forze di attrito per cui tutto quello che sta sopra scivola via.

Come si vede da questa carta, presa dal lavoro di Edward Bromhead "Reflections on the residual strength of clay soils, with special reference to bedding-controlled landslides", pubblicata nel 2013 nella rivista Quarterly Journal of Engineering Geology and Hydrogeology, l'Inghilterra sudorientale è costituita da sedimenti che si sono formati tra Mesozoico e Terziario in una piattaforma continentale di mare piuttosto basso. La serie comprende litotipi diversissimi (argille, gessi, calcari, arenarie); le formazioni più note sono il Gault e i gessi bianchi di Dover del Cretaceo e la London Clay del Terziario inferiore.

FERROVIE E FRANE NELLA PRIMA METÀ DEL XIX SECOLO IN INGHILTERRA

Per addolcire al massimo le pendenze, come in tutto il mondo, le dolci colline del Kent e del Sussex sono state oggetto di tagli quando si è trattato di far passare le prime ferrovie. Lungo queste trincee sono avvenute spesso delle frane.

I primi casi documentati risalgono praticamente all'inizio di questa pratica nel XIX secolo. Nel 1839 fu aperta una ferrovia per collegare Londra con Croydon, una cittadina a sud della capitale inglese. La realizzazione comprendeva alcune trincee nella London Clay, delle quali una nel novembre 1841 fu interessata da una frana. Vediamo una riproduzione del disegno originale di C.H. Gregory del 1844, che distinse la parte alterata (in marrone) e quella in buone condizioni (in blu) della London Clay.
Gregory riteneva fosse stata colpa dell'acqua o perché aveva alterato i minerali o perché aveva aumentato la pressione dei liquidi, ma nel contempo capì che il movimento franoso aveva avuto una forte componente orizzontale; analogamente Robert Stephenson, figlio del leggendario George, descrisse una frana simile in un'altra trincea vicino a Northampton, Blisworth Cutting. Bliswoth Cutting è stata una operazione molto complessa per l'epoca: lo scavo interessò roccia impregnata di acqua e franò qualche anno dopo la sua costruzione. Il movimento aveva interessato una zona più o meno al contatto fra le argille di Blisworth e i sovrastanti calcari. In seguito all'evento, furono realizzati diversi muri di contenimento, a più livelli. In entrambi i casi nessuno pensò all'epoca che quella superficie suborizzontale fosse la causa del movimento e non il suo effetto.

Una interpretazione diversa fu data a proposito di un'altra frana, in occasione dell'incidente di Sonning Cutting a ovest di Londra, nel dicembre 1841, da un dipendente della Great Western Railway, compagnia ferroviaria esercente quel tratto di ferrovia (su Google Books ho trovato al proposito documenti dell'epoca!). La frana provocò il deragliamento di un treno, con diversi morti e feriti. Tal Bertram, dipendente della ferrovia, disse che il giorno prima era tutto regolare: c'erano delle fratture ma erano state sistemate e lo scorrimento non aveva interessato la zona delle fratture ma quella accanto.
Per Bertram lo scivolamento era avvenuto lungo uno strato orizzontale che si era indebolito sul quale erano diventate nulle le forze di attrito e attribuì alle stesse cause la frana di Croydon. Vediamo qui sotto il disegno. In rosso, indicato dalla freccia, l'orizzonte che si è mosso



UN TIPO DI FRANE MOLTO PARTICOLARE

È divenuto poi chiaro che le frane di questo tipo nell'Inghilterra Orientale, sia nelle trincee artificiali che lungo le coste, avvengono per movimenti orizzontali lungo una superficie che improvvisamente perde consistenza, appunto gli "Slide Prone Horizons".

Ma come si formano questi orizzonti malefici?
Potrebbe sembrare logico che si tratti di una rottura progressiva lungo il contatto fra due materiali diversi. Ma la realtà è diversa.
Una buona parte di questi livelli condivide una caratteristica, la forte percentuale di argilla smectitica, risultato dell'alterazione di materiali di origine vulcanica: durante la sedimentazione della London Clay sull'Inghilterra si sono deposti dei livelli di ceneri prodotte da attività vulcanica trasportata dai venti a grande distanza. Si parla ovviamente di eruzioni di grandi proporzioni (c'è anche la possibilità di una risedimentazione in mare di ceneri deposte sulla terraferma).
In questa foto, fornitami personalmente da Bromhead, si vede proprio un piccolo orizzonte fatto di ceneri provenienti da una eruzione vulcanica che potrebbe essere avvenuta a centinaia se non migliaia di km di distanza. Notate sopra e sotto quella parte un po' giallastra che deriva da alterazione del ferro.
Non ho analisi su questi tufi, ma le possibili provenienze possono essere ad ovest il vulcanismo delle fasi precoci dell'apertura dell'Oceano Atlantico settentrionale e a sud il vulcanismo legato alle questioni alpino – mediterranee e anche il magmatismo terziario intraplacca diffuso a pelle di leopardo in Europa Occidentale. Insomma.. sì... grossolanamente dal Mesozoico ad oggi l'Inghilterra non ha subìto forti disturbi tettonici ma non si è trovata lontanissima da zone in cui vulcanismo e tettonica erano un affare serio.

I problemi, specialmente nella London Clay, sono due:

  • non è facile trovare un intervallo argilloso in mezzo a delle … argille
  • non tutti questi intervalli hanno il potenziale distruttivo

La London Clay è di età terziaria. Anche i sedimenti di Giurassico e Cretaceo dell'Inghilterra orientale contengono molti SPH; alcuni sono vulcanici, ma la maggior parte di questi ha un'altra origine: sono giunzioni fra litologie diverse o si sviluppano lungo superfici che derivano da interruzioni nella sedimentazione. Ne vediamo un esempio nella Fairlight Clay del Sussex.


Un cambio di litologia o una lacuna di sedimentazione in ambienti come quelli tipici dell'ambiente di sedimentazione delle rocce dell'Inghilterra orientale sono dovuti essenzialmente a variazioni del livello marino e l'apertura dell'Atlantico settentrionale ne rappresenta una ottima motivazione, ma nel Mesozoico ci sono state anche imponenti variazioni del livello marino a scala globale (soprattutto nel Maastrichtiano).

Un problema piuttosto importante è che non sempre gli SPH sono facilmente distinguibili. È successo anche che siano stati visti solo effettuando delle perforazioni in roccia fresca perchè l'alterazione tende spesso a mascherarli 


ITALIA E ORIZZONTI PRONI ALLO SCIVOLAMENTO

E in Italia?
Anche in Italia ci sono orizzonti del genere.
Il più tristemente noto è quello del Vajont, dovuto ad un misero orizzonte prono allo scivolamento di appena 10 centimetri di spessore.... a vedere il risultato sembra una cosa incredibile...

Ma ce ne sono tanti altri e il bello è che la regione italiana è fra quelle dove attualmente abbiamo un ottimo potenziale di sviluppo di SPH: primariamente con tutti i prodotti che negli ultimi 100.000 anni i vulcani hanno emesso. Secondariamente le continue variazioni del livello marino hanno prodotto numerose discontinuità nella sedimentazione.

È evidente che gli SPH rappresentano un rischio importante e – spesso – di difficile rilevamento.
Una questione importante è la posizione dell'orizzonte nei confronti della falda acquifera: il rischio maggiore infatti lo si ha quando, per le piogge o per interventi antropici, la superficie della falda si innalza e li raggiunge. L'arrivo dell'acqua abbassa violentemente e drasticamente la resistenza al taglio di questi livelli e se la roccia sovrastante esercita uno sforzo idoneo, ecco che abbiamo lo scivolamento, che è improvviso e non sempre fornisce dei segni premonitori.

Al Vajont, evento scatenato dalle forti piogge, i segni premonitori erano le fratture che si sono formate nella parte superiore di quello che stava diventando il corpo di frana (visibili in questa celebre foto di Edoardo Semenza)




giovedì 16 aprile 2015

200 anni fa l'eruzione del Tambora: 2. le conseguenze politiche e sociali delle modificazioni climatiche negli anni immediatamente successivi


E veniamo al secondo post sull'eruzione del Tambora di 200 anni fa esatti. La grande perturbazione climatica dovuta all'eruzione ha inciso molto sul clima fresco che ha caratterizzato la decade 1810 – 1819, la più fredda degli ultimi 500 anni. Su questo aspetto ha influito un'altra eruzione stratosferica, avvenuta non si sa ancora dove (ma sicuramente vicino all'equatore) alla fine del 1808 e i cui effetti dovrebbero essere durati almeno fino al 1811.
In Europa, USA e Asia sono successe tante cose in quegli anni, innescate proprio dal clima infame. La scarsità di piogge monsoniche in Asia ha rovinato i raccolti per anni, mentre al contrario in Europa fame e carestie sono state provocate dal freddo ma anche dalle troppe piogge tra il 1816 e il 1818!
A questo, in una Europa ancora scossa dalla tempesta rivoluzionaria francese (che fra le sue cause annovera le conseguenze climatiche dell'eruzione del Laki del 1783), sono seguiti anche importanti cambiamenti politici.

COME E PERCHÈ IL TAMBORA INNESCÒ LA CRISI ATMOSFERICA

Gli effetti a livello climatico dell'eruzione del Tambora sono stati davvero imponenti. Ricordo negli ultimi 200 anni altri eventi del genere originatisi in Indonesia: l'esplosione del Krakatoa, nello stretto che separa Giava da Sumatra (1883) e quella dell'Agung a Bali (1963). Nel 1991 toccò invece al Pinatubo, nelle Filippine.
Nessuno di questi ha avuto però la stessa importanza: è interessante notare come l'intensità delle emissioni nella fase parossistica sia stata più o meno simile tra il Tambora e il Pinatubo, ma la differenza fondamentale fra i due eventi sta nella loro durata: il parossismo del 1815 fu 6 volte più lungo di quello del 1991.
Ed è altrettanto interessante notare come il Tambora abbia rilasciato meno SO2 rispetto all'eruzione del Laki del 1783, ma, a dimostrare l'importanza dello stile eruttivo oltre a quella della semplice quantità delle emissioni, ha generato più aerosol nella stratosfera perché la colonna eruttiva è risultata molto più alta di quella islandese che si fermò a soli 13 km dalla superficie.

Il biossido di Zolfo (SO2) una volta iniettato nell'atmosfera, viene ossidato e idrato formando un aerosol di acido solforico e acqua. Se questo rimane nella troposfera, la parte più bassa dell'atmosfera terrestre, l'SO2 è un gas – serra (e quindi porterebbe ad un aumento delle temperature); ma se riesce ad arrivare nella stratosfera (che comincia a circa 15 km di altezza) altera il bilancio della radiazione solare, disperdendola e rimandandone indietro una parte: per cui provoca un raffreddamento che viene risentito dalla vegetazione e dalla superficie del mare. Inoltre gli aerosol interferiscono con lo strato di ozono.
Grandi eruzioni come quella del Tambora sono denominate eruzioni stratosferiche perchè la colonna eruttiva passa abbondantemente i 15 km di altezza e quindi i prodotti vengono scaricati direttamente nella stratosfera, dove arrivano in pochi minuti.

Per questo esiste una coincidenza molto precisa fra emissioni di ingenti quantitativi di biossido di zolfo delle più grandi eruzioni avvenute in età storica e momentanee diminuzioni delle temperature globali.
All'effetto degli aerosol di zolfo si deve aggiungere l'effetto schermante delle polveri sottili.

La concentrazione di SO2 diminuisce molto più rapidamente di quella di CO2 perché gli aerosol hanno una permanenza nella statosfera molto più breve, dell'ordine dell'anno, soprattutto perché ridiscendono di quota abbastanza velocemente: in generale il ciclo di basse temperature causato dalle eruzioni stratosferiche si conclude dopo 3 anni.


IL 1816: L'"ANNO SENZA ESTATE"

Gli effetti dell'eruzione del Tambora sono stati incisivi al punto tale che il 1816 è stato chiamato “l'anno senza estate” e appartiene alla decade più fredda degli ultimi 500 anni (1810 – 1819). Gli effetti, come c'era da aspettarsi, non si limitarono al 1816, proseguendo intensi almeno fino al 1818.
Ci sono degli indicatori sul fatto che l'evento originatosi a Sumbawa abbia amplificato gli effetti di una fase di raffreddamento preesistente, il cui motivo è da ricercare in un'altra eruzione stratosferica, di localizzazione ancora sconosciuta. Si sa solo che è avvenuta tra la fine di novembre e i primi di dicembre del 1808 grazie ad alcune osservazioni scientifiche eseguite in America Meridionale; si sa anche che è localizzabile intorno ai tropici perchè le sue tracce si trovano sia in Groenlandia che Antartide: eruzioni stratosferiche a latitudini maggiori di quelle tropicali possono inviare le loro emissioni di zolfo soltanto nelle calotte glaciali del proprio emisfero e sicuramente non nell'America tropicale perché era già sufficientemente abitata e studiata: un evento del genere non sarebbe potuto passare inosservato da quelle parti.

La diminuzione delle temperature causò ingenti danni all'agricoltura, con il conseguente corollario di carestie, aumento della mortalità ed emigrazioni, il tutto con risvolti politici e sociali di grande importanza.

Il 1816 in Europa occidentale e nel Mediterraneo Occidentale è stato caratterizzato da temperature anche di più di 3°C inferiori alla media e da piogge intense (in Giugno addirittura piovve il doppio del normale!); al contrario tra Scandinavia e Mar Nero il clima si è poco discostato dalla media.
Nella immagine tratta da J. Luterbacher and C. Pfister: The year without a summer, pubblicato in aprile su Nature Geosciences, si vedono gli scostamenti dalla media di temperature e precipitazioni nel giugno 1816:


La conseguenza fondamentale è stata la ritardata maturazione delle coltivazioni; se in Francia e in Svizzera l'uva non maturò nemmeno, in tutta questa vasta area poche coltivazioni giunsero a termine e a causa dell'umidità esagerata una buona parte dello scarso raccolto marcì. La carestia fu particolarmente elevata nelle Isole Britanniche (in Irlanda a causa dei danni alle coltivazioni di patate, anche se questa non è la grande carestia che sconvolse l'isola 40 anni dopo).
Il disturbo continuò almeno fino al 1818 e provocò una prima consistente emigrazione dall'Europa all'America.
Non sono invece molto convinto del nesso (ampiamente sostenuto soprattutto fuori dalla letteratura scientifica) fra la sconfitta patita da Napoleone a Waterloo e l'eruzione del Tambora, perché, nonostante il quadro molto anomalo delle forti piogge avvenute nei giorni precedenti la celebre battaglia sia coerente con quello che è successo l'anno dopo, questa avvenne appena due mesi dopo l'eruzione: mi pare un pò troppo presto. È invece possibile che i tumulti avvenuti in molte zone della Germania abbiano influito sui tentativi riformatori da cui in vari stati tedeschi si originarono i primi abbozzi dei poteri parlamentari odierni.
Un nesso piuttosto sicuro è invece quello con una violenta epidemia di colera che iniziò nel 1817 in India, una delle aree più colpite dagli eventi climatici.
Nei giovani Stati Uniti il freddo provocò una crisi agricola che è probabilmente alla base della prima grande crisi finanziaria degli States, il cosiddetto panico del 1819.

Il clima freddo e piovoso dell'Europa Occidentale è stato correlato all'indebolimento dei monsoni asiatici. Ed in effetti anche in Asia ci furono grossi problemi.
Un monsone estivo forte porta abbondanti precipitazioni (e temperature più calde) sull'Asia mentre se è debole le precipitazioni sono meno abbondanti e il clima è più fresco.
Viceversa sono risultati più forti i monsoni invernali, che portarono freddo e incrementarono ulteriormente le condizioni siccitose.
Pertanto in Asia l'improvviso indebolimento del monsone estivo causò una riduzione della produzione agricola. Gli anni tra il 1816 e il 1818 furono durissimi e non solo in Indonesia: anche la Cina (in cui si verificarono gravi lotte etniche) e l'India furono colpite ed è logico vista la quasi totale dipendenza per il sostentamento delle zone rurali e delle città dai raccolti propiziati dal caldo e dalle piogge del monsone estivo.
Tutto questo, colpendo essenzialmente l'economia locale, consentì una maggiore presa da parte del colonialismo europeo.

È quindi evidente che anche se molto probabilmente le piogge che precedettero la battaglia di Waterloo non hanno una relazione con il Tambora perché avvenute troppo precocemente, per il resto di conseguenze economiche, politiche e sociali questa eruzione ne ha indotte parecchie, per non parlare di chi è morto direttamente o indirettamente per la fame e le malattie!

domenica 12 aprile 2015

200 anni fa l'eruzione del Tambora.: 1. un vulcano non ordinario e l'eruzione dell'aprile 1815


In ritardo come spesso mi succede, mi sembra giusto ricordare un evento fondamentale della storia umana e della vulcanologia avvenuto esattamente 200 anni fa (giorno più giorno meno): l'eruzione del Tambora dell'aprile 1815. I materiali prodotti dall'eruzione (sul volume dei quali il dibattito è ancora aperto a dispetto della sicurezza di svariati siti e le stime degli ultimi 30 anni sono molto più basse rispetto a quelle tradizionali) diminuirono la quantità di luce solare al punto di abbassare di almeno un grado e mezzo le temperature della superficie terrestre: per questo il 1816 è passato alla storia come l'anno senza estate. Dedicherò al Tambora e alla sua eruzione del 1815 due post: il primo è centrato sul punto di vista vulcanico, perché siamo davanti a un qualcosa di diverso dal classico stratovulcano indonesiano a magmi calcalcalini, sia pure sempre nel contesto della convergenza fra la zolla indoaustraliana e quella euroasiatica sovrastante; il secondo post verterà sugli effetti climatici di questo devastante evento, che hanno provocato un certo trambusto sociale.

Il Tambora sorge in una delle piccole isole della Sonda, Sumbawa. A Sumbawa affiorano essenzialmente rocce magmatiche piuttosto giovani, della famiglia dei graniti, formatesi una trentina di milioni di anni fa sempre a causa dello scorrere della zolla indoaustraliana sotto il continente euroasiatico. I movimenti tettonici hanno poi sollevato queste rocce fino a farle arrivare in superficie e sopra di esse si sono deposti dei calcari.
Il Tambora non è l'unico vulcano attivo o recente di Sumbawa ed è in una zona abbastanza complessa geologicamente parlando, molto meno lineare rispetto alla parte più occidentale dell'arco della Sonda, quella tra Giava e Sumatra. Prima del 1815 il vulcano era alto ben 4300 metri ed è ancora oggi una montagna imponente: a livello del mare ha un diametro di 60 km e il bordo della caldera, dal diametro di oltre 6 km, si trova a oltre 2800 metri di altezza. 

La prima sorpresa studiando il Tambora è il vulcano stesso: lì per lì, vista la sua collocazione, uno penserebbe ad un classico stratovulcano indonesiano che emette magmi ad affinità calcalcalina, sovrassaturi in silice, un tipo di vulcani spesso alla ribalta in quanto ad esplosioni, grandi o piccole (poco meno di 70 anni dopo sempre in Indonesia esplose il Krakatoa) e tipicamente correlato allo scontro fra zolla indoaustraliana e zolla euroasiatica.
Partiamo dalla sua forma: diversi siti riportano il Tambora come stratovulcano (compresa Wikipedia e il ben più autorevole Global Volcanism Program dello Smithsonian) ma nella letteratura scientifica la maggior parte degli Autori lo descrive come un vulcano a scudo, tipo quelli delle Hawaii e la base dell'apparato etneo, o quantomeno “simile ad un vulcano a scudo”, in quanto a differenza dei vulcani Hawaiiani ci sono anche dei livelli di tufi e ceneri varie. In effetti come si vede dalla foto i suoi fianchi hanno una pendenza minore di quella dei classici stratovulcani. 

La seconda stranezza, che deriva dalla prima, sono i suoi magmi: sottosaturi in silice, appartengono alla serie potassica e il loro comportamento è simile a quello dei basalti hawaiiani: prevalenza di lave su prodotti piroclastici. E mancano le classiche andesiti indonesiane.
Dopodichè una terza stranezza: un vulcano a scudo su cui avviene una esplosione devastante (anzi, la più devastante degli ultimi 500 se non 1000 anni).
Insomma, un vulcano a scudo in un margine attivo di zolla, con lave alcaline e che esplode. Tutto questo li per lì ti fa dubitare di quello che hai studiato. Ma (ovviamente!) c'è una soluzione razionale a tutte queste apparenti stranezze.

Cominciamo con il dire che altri, sia pur pochi, vulcani in Indonesia, tra Giava e Flores, mostrano le stesse caratteristiche petrologiche. Li vediamo raffigurati in questa carta, sono quelli con il cerchietto pieno: notiamo che sono tutti in posizione più settentrionale rispetto ai ben più numerosi vulcani che emettono magmi calcalcalini. Quindi non è un caso isolato e soprattutto il Tambora è coerente con la vulcanologia dei dintorni. 


APRILE 1815 - CRONACA DI UNA ERUZIONE

Nel 1815 il Tambora si è svegliato dopo almeno un migliaio di anni di silenzio. 
Naturalmente all'epoca non c'erano i dispositivi di oggi e quindi nessuno si poteva accorgere della attività sismica iniziata sotto il vulcano (ignoro se nei fianchi del vulcano ci fosse attività fumarolica, ma la trovo una ipotesi fondata; nel caso anch'essa avrà presentato cambiamenti). 

I primi segni dell'attività si evidenziarono circa un anno prima di quel 5 aprile 1815, data nella quale comparve sopra il vulcano una colonna di ceneri e gas. Ci furono anche le prime esplosioni che furono sentite a centinaia di km di distanza. Il giorno dopo la cenere del Tambora era già arrivata su Giava.
Siccome le esplosioni furono ritenute salve di cannoni la cosa destò un serio allarme e ci furono movimenti di truppe e di navi. Questo tipo di attività continuò ad un livello costante fino al tardo pomeriggio del 10 aprile, quando improvvisamente il ritmo aumentò; seguì la deposizione di uno spessore di pomici che nelle vicinanze del vulcano ha raggiunto il mezzo metro, dopodichè ci fu un primo collasso con il quale precipitò in basso una enorme massa di materiali (più o meno come a Pompei) che travolse tutto quello che trovò sulla sua strada con uno spessore variabile tra 5 e 30 metri. È l'ignimbrite inferiore. 
Secondo alcuni Autori la colonna eruttiva raggiunse i 43 km di altezza. 
Il tutto è sintetizzato nell'immagine sottostante, presa da un eccellente lavoro di Self e Rampino del 1984.


Ci sono decine di testimonianze anche sulle reazioni popolari in tutta l'Indonesia. Fra le più bizzarre quella degli abitanti di Martapura, nel Borneo meridionale: videro “oro cadere dal cielo” e qualcuno prese la cenere con l'intenzione di venderla come medicinale.... 

Intorno al vulcano questi depositi coprirono la penisola di Sanggar fino al mare. È interessante notare che, comunque,  l'attività di emissioni di ceneri continuò anche durante la produzione dell'ignimbrite. 
Quando l'ignimbrite arrivò al mare produsse uno tsunami. Per un paio di giorni nella zona il buio fu quasi assoluto e i boati furono sentiti ad oltre 1000 km di distanza.
L'attività è diminuita velocemente dopo l'11 aprile, proseguendo in maniera sempre più debole e saltuaria fino ad agosto. 

Il bilancio di perdite umane fu subito importante: 10.000 persone circa sono state sepolte dalle nubi ardenti, mentre altre morirono sempre a Sumbawa in seguito per patologie respiratorie o per le conseguenze dell'accumulo nelle acque, negli animali e nelle piante di sostanze velenose (fra le conseguenze dell'eruzione del Laki di pochi anni prima si annovera la decimazione del bestiame in Islanda proprio per le conseguenze delle emissioni gassose). Alla fine i morti furono 90.000. 
L'eruzione dovrebbe aver messo la parola fine ad un corpo magmatico di circa 30 km cubi di volume che esisteva sotto al vulcano, a profondità davvero basse, pochi km (per questo mi domando se c'erano fumarole o altro prima del 1835). Evidentemente è successo qualcosa che ha modificato gli equilibri nella crosta superficiale e ha dato il via all'eruzione.

La quantità di ceneri prodotte varia molto da Autore ad Autore. Questo perché una buona parte è caduta in mare e quindi il calcolo è piuttosto difficile, ma si è deposto almeno un centimetro di cenere in un'area che se fosse stata una terra emersa avrebbe contato mezzo milione di km quadrati. Alcuni carotaggi effettuati nei mari indonesiani  hanno fornito volumi un po' troppo elevati, segno che in qualche modo i depositi del Tambora finiti in mare sono stati rimossi da dove sono originariamente caduti. Le ultime stime danno meno di 60 km cubi di prodotti.
Dopo il 1815 il vulcano ha avuto vari cicli di moderata attività. Anche negli ultimi anni abbiamo assistito a periodiche piccole esplosioni e lanci di ceneri, ma nulla di particolare. 

L'ORIGINE DEI MAGMI DEL TAMBORA

Abbiamo visto che pur essendo in un contesto di collisione fra zolle, i magmi del Tambora non sono i classici magmi calcalcalini. Le ultime analisi geochimiche suggeriscono la loro derivazione dalla fusione parziale di lave basaltiche. La presenza sotto all'Indonesia della crosta dell'oceano indiano subdotta sotto la placca euroasiatica è naturalmente la logica sorgente di questi magmi, che si formano però dove la zona di subduzione è più profonda rispetto alla parte più meridionale dell'arco magmatico, in una zona che si può chiamare arco posteriore (rear arc), in cui la zona in subduzione si trova a profondità maggiore rispetto a quella sopra la quale vengono genenati i classici magmi calcalcalini di arco.

E veniamo alla terza stranezza: l'esplosione in un vulcano a scudo. Un vulcano a scudo è sinonimo di attività hawaiiana: i gas vengono rilasciati in maniera dolce in quanto il magma che fuoriesce in grande quantità è caldo e fluido. Quindi ci sono poche ceneri.
Però proprio in Italia abbiamo un altro esempio di magmi potassici che hanno provocato un guaio simile: l'ignimbrite campana di 39.000 anni fa che la maggior parte degli Autori attribuisce ai Campi Flegrei. 
Anche in Campania siamo davanti ad un contesto di scontro fra zolle, sia pure ben diverso da quello indonesiano. E, quindi, anche questa ultima stranezza diventa normalità.
E ci sono altri vulcani con magmi di questo tipo che sono capaci di fare cose sullo stesso stile.

Inoltre sul Tambora ci sono evidenti segni di una eruzione simile avvenuta ben oltre i 40.000 anni, fa la cui caldera è stata successivamente ricoperta da quelle lave che hanno prodotto l'enorme montagna esistente fino al 1815.

Quindi il Tambora è un vulcano un po' particolare ma pur sempre compatibile con il quadro tettonico della zona dove sorge e dal comportamento in linea con quello dei suoi magmi.
Sarebbe interessante però capire cosa ha portato all'eruzione, cioè perchè dopo un lungo periodo di calma è successo tutto questo. Potrebbe essere utile anche in funzione proprio dei nostri Campi Flegrei. 

Nel prossimo post parlerò invece della crisi climatica e delle sue conseguenze storiche, di cui alcune sono sicuramente reali. Altre sono meno sicure ma fortemente probabili.