giovedì 31 ottobre 2013

Da Australopithecus a Homo: dell'inutilità della discussione sul numero di specie umane che sono esistite


L'articolo pubblicato su Science a proposito dell'ultimo interessantissimo reperto di Homo erectus trovato a Dmanisi, in Georgia, al di là della sua importanza nel quadro della paleoantropologia, rinfocola le solite beghe sulla quantità di specie umane esistite negli ultimi 2 milioni di anni. Trovo questa discussione poco attraente, poco scientifica, assolutamente inutile e facilmente governabile da pregiudizi ideologici. Soprattutto sono dell'opinione che con tutto quello che c'è da trovare e da studiare, la questione delle varie specie sia una perdita di tempo, come per esempio la discussione sul fatto che i neandertaliani siano una specie diversa da noi o no e decine di altri esempi del genere. Quindi voglio tratteggiare un attimo il perchè la penso così,

Recentemente è balzato alle cronache anche nei giornali generalisti la notizia dello studio pubblicato sulla rivista Science pochi giorni fa da un gruppo internazionale capitanato dal georgiano David Lordkipanidze: A complete Skull from Dmanisi, Georgia and the Evolutionary Biology of Early Homo.
In questo eccellente studio viene esaminato un cranio appartenente a Homo erectus, uno dei più antichi (o forse il più antico) reperti trovati in Europa, nel famoso sito di Dmanisi, che documenta una presenza umana fuori dall'Africa già poco meno di 2 milioni di anni fa, anche con la presenza di utensili del modo "olduvaiano".
Il cervello è piccolo, 546 c.c., ma la cosa interessante è che mostra somiglianze con i reperti di Homo fossili contemporanei africani. 
Ma ecco il punto dolente: la vasta diversità morfologica degli altri reperti di Dmanisi (in alcuni lavori denominati Homo georgicus) proverebbe che le popolazioni dell'epoca mostravano una certa vastità di morfologie e le somiglianze con i reperti africani della stessa epoca hanno portato gli Autori a scrivere che la conseguenza di tale scoperta sarebbe enorme: è possibile che diversi fossili precedentemente assegnati a diverse specie di Homo potrebbero in realtà essere solo varianti della stessa specie. In particolare, secondo quanto sostengono gli autori dello studio, H. erectus, H. ergaster, H. rudolfensis e H. georgicus (e forse anche H. abilis) potrebbero non essere specie a sé stanti. Ad uscire dall'Africa fu dunque una sola specie con un'elevata variabilità interna oppure un cespuglio di specie che si differenziarono in tempi brevi e andarono ad occupare piccole aree dell'Eurasia?

LA DISCUSSIONE: UNA SPECIE UMANA IN OGNI TEMPO O VARIE SPECIE CONTEMPORANEE? 

Si rianima quindi il dibattito su questa annosa questione, cioè specie unica o “cespuglio” con varie specie. Ricordo che secondo alcuni il percorso dell'Umanità ha visto istante per istante la presenza di una sola specie o se c'è stata una evoluzione “a cespuglio”, con la presenza contemporanea di più specie che si sono estinte quasi tutte, tranne quelle che appartengono alla linea arrivata oggi ad Homo sapiens. A dimostrazione dell'inutilità delle discussioni a cui ho fatto riferimento nell'introduzione, linko questo articolo su Pikaia, uno dei siti italiani che apprezzo maggiormente, dall'ironico e arguto titolo "la Terra è rotonda" in cui  è palesemente dimostrato come, oltretutto, queste discussioni servono solo ad ingenerare (più o meno volontariamente) confusione in chi non ha ben chiaro cosa sia una specie, e permettere di concludere che gli scienziati siano in confusione a proposito delle origini umane. Punto di vista che si sa a chi serve e perchè, a partire da De Mattei e RadioMaria....

Comincio a dire che dal mio punto di vista questa somiglianza non è poi una cosa così clamorosa, perchè se questi erectus rappresentano degli stadi iniziali della prima uscita dall'Africa potevano benissimo essere non tanto diversi dai loro cugini rimasti laggiù.

Ma il succo è un altro: messa come è messa, la discussione che è seguita all'articolo ci dice che le cose continuano evidentemente ad andare avanti su questo aspetto meramente tassonomico (di classificazione) e perdono il filo di quella che sarebbe, almeno per me, la logica.
Ora, a parte che ancora un concetto di specie non è molto chiaro (e spesso in natura i confini fra due popolazioni e due specie sono molto vaghi), quello che più mi fa specie (perdonatemi il gioco di parole) sono queste considerazioni sulle tante specie (o linee) che occupano lo spazio tra le prime Australopitecine e Homo sapiens.

MENTE UMANA DISCONTINUA E CLASSIFICAZIONE DEGLI ESSERI VIVENTI

A soccorrere il mio punto di vista sulla ridicolezza della questione cito come teste nientemeno che Richard Dawkins, sulla autorevolezza del quale – "gene egoista" a parte, secondo i “gusti” di ognuno – immagino che nell'ambiente scientifico pochi abbiano a dire qualcosa,
Ne “Il racconto dell'Antenato” Dawkins se la prendeva con la “mente discontinua” umana, quella che viene da lontano, dall'iperuranio delle idee di Platone, che classifica le cose rigidamente. 
 
Mi spiego: se in una strada il limite di velocità è 50 km/h è ovvio che se vado a 49 km/h sono nel giusto. Suggerendo che il limite sia stato messo per questioni di sicurezza e non per consentire a una macchinetta di multare automobilisti, se vado a 51 commetto una infrazione e sono pericoloso.
Ora, 2 km/h di differenza non fanno certo una differenza nel pericolo a priori.... magari in una notte di pioggia con asfalto scivoloso sarebbero troppi anche 30 km/h, mentre in una assolata giornata con strada asciutta anche a 70 la sicurezza è assicurata.
Però, è questo il punto, occorre stabilire un limite, una velocità di sicurezza convenzionale, che poi per una serie di motivi diventa legale. 

Idem dicasi per pedofilia e maggiore età: considerazioni morali a parte, legalmente è pedofilia se, indipendentemente dal sesso maschile o femminile, una persona adulta (poniamo quarantenne) fa attività sessuale con un individio il giorno prima che quest'ultimo compia 18 anni, mentre è perfettamente legale due giorni dopo.

La stessa cosa avviene con la classificazione zoologica.
La classificazione linneiana fornisce uno straordinario sistema per assegnare alle varie forme di vita il posto che compete loro. Come fece notare un missionario italiano che esplorò la giungla della Cina meridionale, i cinesi conoscevano benissimo tutti gli animali e tutte le piante della foresta, ma mancando una classificazione logica di questo tipo non riuscivano a collegarle fra loro.
Linneo era anche un creazionista (e non poteva essere altrimenti visto il tempo), e per le conoscenze del tempo fece un lavoro straordinario, compreso istituire i “Primati” senza che all'epoca delle scimmie antropomorfe si sapesse qualcosa oltre le dicerie e qualche rarissima testimonianza (e non è che questo collegamente sia piacuto al tempo... c'è chi lo contesta anche oggi...)

Con una posizione del genere è evidente che era assolutamente legittimo ed ovvio questo sistema “discontinuo”
Però quella classificazione ad albero di Linneo "discontinua ma quindi non troppo discontinua" è stata fondamentale per la Storia Naturale, per arrivare alla (logica) conclusione rappresentata dalle teorie evolutive (teoria in senso non di mera ipotesi, ma di corpus di idee ed informazioni inquadrato in una visione coerente, mi raccomando!). 
Un approccio evolutivo alla classificazione degli esseri viventi è stato operato con la cladistica atttraverso la sostituzione dell'anello mancante con quella dell'antenato comune (il “contenato” di Dawkins).

Da notare che anche gli antievoluzionisti accettano in parte l'evoluzione tirando fuori una delle loro solite fantasie, i baramini, cioè forme ancestrali create da Dio (a livello credo di “ordine” o di “famiglia”, chissà perchè ridare dignità a definizioni ormai tutte assorbite nei “cladi”) che si sarebbero differenziate per “degenerazione del DNA). Per chi volesse scrissi un post al proprosito.

PERCHÈ CLASSIFICARE DIVERSAMENTE I VARI FOSSILI

Una prima considerazione su Homo e dintorni è che le tante classificazioni che abbiamo si reggono solo sulla scarsezza di fossili. Se ne avessimo 100 volte tanti (e ben distribuiti nel tempo invece di mostrare ampie lacune come quella tra gli austalopitechi “classici” e Australopitecus sediba, si vedrebbero talmente tante forme intermedie che per stabilire un limite occorrerebbe usare delle convenzioni. Ricordo quella di Sir Arthur Keith, che mise un limite di 750 c.c. come valore inferiore della capacità cranica per essere Homo, ma che, alla fine, è molto convenzionale: per esempio ad un certo punto fiu spostato a 650 c.c. perchè alcuni habilis altrimento non erano più Homo (noto inoltre come per molti paleantropologi Homo habilis sia ancora una australopitecina, nonostante il nome).. E con questo limite neanche il cranio di Dmanisi apparterrebbe a Homo!

Insomma, usiamo le varie denominazioni come se riflettessero una realtà discontinua, ma alla fine molti studiosi (e, più modestamente anche il sottoscritto) sostengono che l'arcipelago di denominazioni sia solo una finzione per motivi pratici, anche perchè non è che una mamma Australopithecus ha partorito un figlio Homo... Queste varie classificazioni servono, ovviamente, perchè indicano in qualche modo “a che punto siamo” nell'evoluzione umanae e quindi basterebbe utilizzarli come “denominazioni tassonomiche informali”, come disse già qualcuno.

Mi spiego: avere davanti un reperto attribuibile a Homo heidelbergensis, al di là delle diatribe sul fatto se sia una specie diversa da H. ergaster, colloca chiaramente tale reperto nel tempo, nello spazio e nella posizione nella genia umana..
E invece questi motivi pratici scatenano lotte feroci su denominazioni, ipotesi se neanderthalensis e sapiens siano due specie diverse etc etc. Tutto tempo sprecato inutilmente, secondo me e che può essere usato meglio....
Una dimostrazione pratica è quella di Australopithecus sediba. Sono fossili che vanno a colmare sia pure in maniera marginale una importante lacuna nella documentazione fossile e hanno certe caratteristiche da Australopitecine e altre da Homo: sono ragionevolmente sicuro che gli Autori avessero descritto la specie come Homo sediba ma in sede di referazione sia stato loro imposto di cambiare la classificazione (il potere è dei Referi, giustamente!).

UNA CLASSIFICAZIONE "DINAMICA": SPECIE AD ANELLO E CRONOSPECIE

Ora (finalmente) arriviamo al nocciolo della questione: in buona sostanza, è nota la presenza delle “specie ad anello”, nelle quali una popolazione ancestrale si è divisa in varie le popolazioni che vivono in zone contigue e nelle quali individui di specie diverse ma che vivono al confine fra le due zone di distribuzione si accoppiano, quelli più lontani no. In futuro diventeranno sicuramente specie diverse, oggi sono a metà del guado. Sempre Dawkins fa una ottima dimostrazione di questo con le salamandre del genere Estatina, diffuse nelle alture che circondano la Central Valley della California: da una popolazione ancestrale arrivata in tempi non lontanissimi si sono differenziate delle popolazioni che mostrano differenze notevoli e che talvolta si comportano come specie differenti, talvolta no. 
 
Andando nel tempo esiste la stessa figura, la Cronospecie. Ad esempio potrebbe essere vero che un Homo sapiens odierno potrebbe accoppiarsi con una femmina di erectus di 1 milione di anni fa, la quale a sua volta potrebbe accoppiarsi con un maschio di habilis. Ma un sapiens e una habilis non potrebbero farlo.

DA AUSTRALOPITECINE A HOMO SAPIENS: UNA SOLA CRONOSPECIE?

È ovvio che questa visione non contrasta con la visione del “cespuglio”, perchè è evidente che ci sono state delle popolazioni che alla fine si sono estinte, non lasciando discendenti diretti, compe per esempio i Parantropi.

Quindi, lasciando al di fuori fossili come Sahelanthropus tchadensis o Orrorin tugenensis, la cui interpretazione è poco chiara, a me parrebbe più logico considerare tutto il resto di questo popò di forme all'interno di un'unica specie, che so... Homo stanteambulansuomo che cammina in piedi”… infischiandosene della presenza o non di "specie" diverse e considerare tutte la la varia nomenclatura appunto come “denominazioni tassonomiche informali” che rappresentano popolazioni di caratteristiche via via diverse e sono molto di aiuto per classificare i vari reperti (e, soprattutto, sono di aiuto per chi non avendoli studiati in dettaglio, che ne capisce appunto la collocazione nello spazio – tempo).

Così anche le possibili ibridazioni fra neanderthalensis e sapiens (e la questione, non secondaria, dei demisoviani e della persistenza di alcuni loro geni di una popolazione asiatica particolare in Nuova Guinea e dintorni) perdono forse di “clamore” ma consentono di vedere i dati genetici con un approccio meno dogmatico e più realistico, diventando semplicemente scambi fra popolazioni diverse della stessa specie che si erano separate per l'isolamento, diversificandosi in alcuni aspetti morfologici, strutturali, comportamentali e manufatturieri e che si sono in seguito reincontrate con relativi scambi genici.

sabato 26 ottobre 2013

Una ricerca multidisciplinare per descrivere l'ambiente in cui un milione di anni fa viveva Homo erectus nell'Africa Orientale


È bello vedere ricercatori dei più vari settori delle Scienze della Terra che si uniscono per determinare tutti gli aspetti geologici di una regione; in particolare oggi vedremo come come una ricerca finale di tipo paleontologico su fossili di piccoli vertebrati, legati ad ambienti più ristretti rispetto alla macrofauna, possa dare delle eccellenti indicazioni paleoambientali.
La Dancalia è situata all'inizio della grande spaccatura delle fosse tettoniche dell'Africa orientale; essa stessa è una delle tante depressioni associate al rift ed in particolare al famoso triangolo dell'Afar. Ho tratteggiato la storia geologica e del vulcanismo di quest'area in questo post. Siamo in posti estremamente significativi per il genere umano: proprio da qui un gruppo di Homo sapiens anatomicamente moderni partì alla conquista del mondo. Un gruppo di geologi fiorentini nel 1994 vi ha trovato un cranio riferibile a Homo erectus di un milione di anni fa. Il ritrovamento ha dato vita ad un lavoro multidisciplinare che ha tracciato le caratteristiche geografiche e ambientali dell'area ai tempi in cui viveva il proprietario di quel cranio.

Le zone di palude o delta sono fra le poche aree subaeree in cui si formano comunemente sedimenti e dove ci si può aspettare di trovare parecchi fossili. Purtroppo i sedimenti continentali antichi sono piuttosto rari. essenzialmente per due motivi:
1. sono subito sepolti da altri sedimenti in un contesto di subsidenza, cioè di alto tasso di sedimentazione e di continuo abbassamento del terreno (in quelle attualmente soggette a questa attività geologica l'unico sistema per avere informazioni sugli ultimi milioni di anni è quello di scavare pozzi ed estrarre carote)
2. oppure hanno vita breve in quanto vengono precocemente erosi. 

La conclusione ovvia è che i sedimenti continentali sono più difficlili a trovarsi rispetto a quelli marini ed anche la documentazione fossile della vita terrestre è molto più frammentaria di quella marina.
Si spiega così anche la scarsezza di reperti fossili che documentano l'origine di Homo.
 
Il vantaggio è che sedimenti del genere  con età di un milione di anni sono ancora abbastanza recenti ed è possibile che siano ben visibili in aree caratterizzate da una forte attività tettonica: in questo caso le faglie hanno provocato delle dislocazioni e formato delle pareti; il risultato di questa attività è la formazione di colline che se da un lato provocano l'erosione di questi sedimenti, dall'altro offrono per lo studio comode sezioni stratigrafiche (non è un caso che la maggior parte dei ritrovamenti di ominidi in tutta l'Africa Orientale siano in sedimenti di questo tipo).

La foto qui a destra illustra la situazione della Dancalia, che fornisce una ottima applicazione di questo aspetto, con l'ulteriore vantaggio di un clima arido in cui la vegetazione non copre il suolo e rende più semplice lo studio.
L'attività tettonica ha diviso la Dancalia in diversi bacini che si sono aperti nel basamento, formato da rocce di ben oltre mezzo miliardo di anni. In questi bacini il tasso di sedimentazione è elevato a causa della forte erosione delle alture in cui affiora il basamento. Nei fondi dei bacini si trovano inoltre parecchie rocce vulcaniche, soprattutto inella parte centrale della depressione, per cui la parte meridionale della Dancalia è divisa in due rami (tipo il lago di Como...). Ed è proprio grazie all'instabilità tettonica che le faglie hanno formato quelle scarpate (anche di pochi metri) in sedimenti molto recenti così comode per studiare quei sedimenti.
 
Oggi terra arida e dall'ambiente molto difficile, la Dancalia di un milione di anni fa era una terra umida e piena di vita, come dimostrano i sedimenti pleistocenici.
Vi si trovavano molti laghi, nei quali sfociavano dei fiumi formando delta. C'erano molti acquitrini e spesso le alluvioni ricoprivano zone che ordinariamente rimanevano in condizioni subaeree, coperte solo da un tappeto erboso. Nei sedimenti del Pleistocene terminale e dell'Olocene è registrato l'inaridimento recente della regione.

Il Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Firenze ha una consolidata tradizione di spedizioni nel corno d'Africa; in quella del 1994, un gruppo di geologi di Firenze insieme a ricercatori locali ha fatto una scoperta eccezionale: un cranio di Homo erectus, scavato vicino al villaggio di Buia, nella depressione della Dancalia, circa 100 kilometri a sud della capitale eritrea, Massaua. L'impiego di vari criteri, dalle età assolute alla biostratigrafia fino alla stratigrafia magnetica, ha consentito di datare il reperto a circa un milione di anni fa.

Questa ricerca ne ha ovviamente spinte altre per cui in nuove missioni nella zona, oltre a reperti umani, che comprendono pochi fossili ma tanti strumenti litici, sono stati trovati i resti di una fauna analoga a quelle di tutta l'Africa Orientale del tempo (ippopotami, elefanti, coccodrilli, rinoceronti, suini e bovidi). Un particolare molto interessante è che alcune di queste ossa mostrano chiari segni di macellazione da parte degli uomini: questo aspetto è contenuto in Fiore et al (2004)

In questa immagine al microscopio, tratta dal lavoro appena citato, si vedono le strie provocate da uno strumento di macellazione su un frammento di femore di ippopotamo. 
I coccodrilli rappresentano le uniche ossa di carnivori: mancano quelle di carnivori terrestri ma la loro presenza è accertata dalla presenza su un fossile di suino di morsi ascrivibili ad una iena. 
È importante conoscere l'ambiente in cui vivevano e cacciavano questi uomini. La calotta cranica umana, in particolare, è stata ritrovata nella “formazione di Alat”, un complesso di sedimenti lacustri e deltizi.

Con le macrofaune (che ove presenti sono sostanzialmente facili da vedere e spesso anche da raccogliere) si possono ottenere molte informazioni (coccodrilli e ippopotami ad esempio sono animali acquatici per definizione e i coccodrilli in particolare ci dicono che siamo in un clima molto caldo). Se però si volesse comprendere meglio le caratteristiche dell'ambiente in cui i nostri progenitori si muovevano, sarebbe interessante definire quanto umida potesse essere la zona, e la maggior parte delle informazioni utili a determinare un quadro più particolareggiato possono essere rivelate solo da faune più piccole, da forme di vita adattate ad ambienti molto particolari.

Così i ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Firenze e del museo nazionale eritreo hanno provveduto a colmare questa lacuna con alcune spedizioni fra il 2010 e il 2011, i cui reperti sono esposti al Museo stesso, ad Asmara. I risultati sono stati pubblicati quest'anno sul Journal of Human Evolution,

Esaminando direttamente i materiali scavati e poi passandoli al setaccio, con infinita pazienza sono stati ritrovati resti più o meno ben conservati di pesci (tra i quali un pesce – gatto), rettili (tartarughe, denti e squame di coccodrillo, pitoni), uccelli (pellicani e vari uccelli palustri) e piccoli roditori.
Quindi è stata accertata la presenza di animali che vivevano in vari ambienti: verso le spalle del bacino c'era proprio una savana; scendendo più in basso zone erbose di terraferma si alternavano a paludi; sono stati scoperti e determinati i resti di molti animali tipici di rive fluviali e lacustri, soprattutto di acque chiare e ossigenate, ma anche di uccelli ed altre creature tipiche di aree più secce con copertura erbacea. Un particolare importante: i laghi, sia pure non profondi, erano abbastanza estesi perchè sono stati trovati fossili di forme che vivono lontano dalle rive. L'alternanza di zone paludose e zone più secche è ben dimostrata dalla presenza di forme tipiche di entrambi gli ambienti.

Vediamo pertanto come con l'analisi dei fossili più di questo tipo si è potuto precisando meglio il quadro geologico ricavato dallo studio dei sedimenti e dalle precedenti ricerche sulla macrofauna. Condizioni simili sono condivise da altri siti dell'Afar in cui sono stati ritrovati fossili e utensili dello stesso periodo. Buia è per adesso, comunque, il più settentrionale di questi.

Riferimenti bibliografici:
Abbate et al, 2004 Geology of the Homo-bearing Pleistocene Dandiero Basin (Buia region, Eritrean Danakil depression) Rivista Italiana di Paleontologia e Stratigrafia, vol.110 pp. 5-34
Fiore et al, 2004: Taphonomic analysis of the late Early Pleistocene bone remains from Buia. Rivista Italiana di Paleontologia e Stratigrafia, vol.110, pp. 89-97.
Rook et al, 2013 Stratigraphic context and paleoenvironmental significance of minor taxa (Pisces, Reptilia, Aves, Rodentia) from the late Early Pleistocene paleoanthropological site of Buia (Eritrea)Journal of Human Evolution, January 2013, Vol. 64/1 Pages 83–92

venerdì 18 ottobre 2013

Geologi, assetto del territorio e politica


Tremonti voleva computare nella massa del debito dei Paesi Europei il decommissioning delle centrali nucleari. Poteva non avere torto. Ma se all'Italia facessero computare i costi per rimettere a posto questo sgangherato territorio di quanto aumenterebbe il debito? Al convegno di Longarone sul Vajont e alla giornata dedicata ai 90 anni della Geologia a Firenze sono state fatte alcune osservazioni sul ruolo del geologo. Un ruolo perfettamente sconosciuto ai più. Ricordo che fino alle apparizioni televisive di Mario Tozzi, nessuno sapeva cosa fosse un geologo e molti credevano che il geologo fosse quello che andava “nelle caverne” (con rispetto parlando per gli speleologi, dal mio punto di vista e taccio dei modi in cui pronunciavano questo secondo termine nelle maniere più varie e pittoresche...). Anzi, qualcuno non riusciva neanche a capire il termine “geologo”. Poi, anche quando andavo a fare trekking, finalmente qualcuno osservava che avevo “il martello di Tozzi” (il glorioso Estwing”).

Secondo me è necessario far capire che quelle dei geologi, nelle loro varie collocazioni (accademia, libera professione dipendenti pubblici e, perchè no, quelli che scrivono di geologia) non sono le classiche rivendicazioni corporativistiche di chi cerca di spacciare per interesse generale del Paese il proprio porco comodo, ma che una corretta gestione del territorio è proprio un importante interesse generale del Paese.
In altre parole, i geologi vogliono contare di più per mettersi a servizio del Paese, nella assoluta certezza che non tenendo di conto le Scienze della Terra e le loro istanze, l'Italia rischi parecchio. 
La questione è se il Paese vuole i geologi o no.
Il Vajont è stato un tipo esempio di come si possa oltraggiare il territorio, ma in quante altre occasioni, sia pure meno luttuose, danni e vittime sono almeno in parte da addebitarsi ad errori nella programmazione territoriale?

Ma perchè succede questo?
Diciamo che non c'è in questo momento uno scambio sereno di conoscenze fra il Geologo e la committenza, pubblica o privata che sia. Tutt'altro... anzi, spesso c'è un vero ostracismo... con il geologo che, chiamato solo per ultimo e per obbligo, dovrebbe limitarsi a ratificare quanto già fatto da altri.
Volete un esempio? Un comune importante ha deciso di riguardare il suo assetto urbanistico: ha demandato la cosa a due urbanisti che hanno avuto due anni di tempo e solo alla fine si è passati attraverso il giudizio di un geologo. Non è un caso infrequente: quante volte il geologo interviene “a cose fatte” e cioè viene chiamato per ultimo a dare una approvazione “formale” ad un progetto? Ovvio che in questo caso il professionista non può essere visto in altro modo se non come “l'ennesimo balzello dovuto” e/o come chi mette “lacci e lacciuoli”. Occorre far capire che se invece il geologo venisse chiamato prima sarebbe stato molto più logico e si sarebbe potuto sicuramente fare di meglio.
Come esperienza personale ricordo come tempo fa un conoscente che lavora in una fabbrica mi chiese lumi perchè il comune dov'è posta l'azienda è stato classificato sismico. Voleva trovare delle pezze d'appoggio per dimostrare di non essere in zona sismica. 

Eppure oggi più che mai il territorio italiano è a rischio anche perchè è cambiato lo “stile” delle alluvioni: negli ultimi anni più che piene epocali dei grandi corsi d'acqua (Pò, Arno, Tevere ad esempio) sono i piccoli bacini a destare preoccupazione e noi di piccoli bacini ne abbiamo tanti, per di più disposti intorno a mari dall'alta temperatura e dal forte tasso di evaporazione (la classica situazione favorevole alle bombe d'acqua).
Da più parti si chiede che le risorse finanziarie per gli interventi funzionali alla protezione del territorio possano essere trovate in deroga al patto di stabilità. Ma purtroppo sono ancora di più le parti che continuano in un assurdo ostracismo nei confronti dei geologi e nel rifiuto di un corretto uso del territorio.

Un altro campo in cui si dovrebbe considerare di più il ruolo del geologo è la Protezione Civile: oggi questo è un organismo essenziale immediatamente prima, durante e nell'immediato dopo di un evento calamitoso; diciamo che l'attività “di fondo” consiste nel monitoraggio per prevedere eventi calamitosi, mentre la parte “dormiente” si sveglia dall'emanazione di un allarme in poi, fino a “emergenza conclusa”. .Quindi i suoi unici compiti in “tempo di pace” sembrano essere il monitoraggio delle emergenze, al limite, lo studio dell'organizzazione.
Nelle emergenze siamo molto bravi, è difficile, anche dopo gli errori del passato anche recente, che un'alluvione colga impreparata la Protezione Civile.  
È ovvio che se le alluvioni sono prevedibili, i terremoti non lo sono e questo richiama il concetto di una Protezione Civile che non si limita alla previsione (quando possibile) e alla gestione delle emergenze, ma, facendo un notevole passo avanti, si potrebbe arrivare ad una Protezione civile che si occupi di prevenzione, utile contro tutte le calamità naturali. In quest'ottica soprattutto Urbanistica, Ingegneria e Geologia dovrebbero camminare a braccetto.

A questo proposito riterrei estremamente utile ripristinare il “Servizio Geologico d'Italia” (inserendoci dentro anche l'INGV), anziché tenere nel calderone dell'ISPRA una serie di multiformi competenze (nessuna polemica con il presidente dell'ISPRA, De Bernardinisi a cui ho espresso personalmente anche di recente la mia solidarietà per la condanna nel processo dell'Aquila)
Ora, lasciamo perdere il mitico USGS, il servizio geologico degli USA, ma a vedere i vari servizi geologici dei vari “states” viene invidia. Qualche giorno fa ho parlato con un ricercatore del servizio geologico spagnolo... sono dei marziani in confronto a noi

Nella classe dirigente e soprattutto in quella politica manca una coscienza della prevenzione e della salvaguardia nei temi ambientali. Molti dedicano all'assetto del territorio una scarsa attenzione e succede che che quando vi si dedicano lo fanno per cercare di alleggerire i vincoli imposti da una legislatura che è lungi dall'essere perfetta (anzi, spesso le maglie sono molto larghe) e piena di disposizioni legislative di vario livello non sempre in armonia fra loro.
Alle volte ho fatto notare come spesso alla base del problema non ci sia irresponsabilità nella classe politica, ma ignoranza: un irresponsabile sa che sta rischiando perchè fa una cosa sbagliata ma la fa lo stesso; invece spesso molti ignorano di essere lì a fare un errore.

Anche il Consiglio superiore dei Lavori Pubblici lascia un po' perplessi, soprattutto se si vede che a fronte di 110 membri votanti, fra ingegneri (oltre 60), consulenti e fiduciari, ci sia un solo geologo (che per di più ci ha messo 2 anni per avere l'ammissione).
In più nel CSLLPP una buona parte dei membri sono politicizzati (strano....) e questo comporta il fatto che c'è chi si fa il tifo a favore o contro i provvedimenti a seconda del partito di appartenenza del ministro in carica, alla faccia dell'”organismo tecnico”.
Con questo non si contesta il fatto che ci possano essere opinioni differenti su un progetto: nessuno potrà mai essere completamente obbiettivo, stando le differenti visioni che ci possono essere su sviluppo, opere da approvare e modo di affrontarle, ma che queste debbano dipendere più dalla fede politica che da un convincimento tecnico è semplicemente demenziale, in un consesso di quel tipo. Quindi ci vogliono dei commissari politicamente super partes da un punto di vista politico, al di là di legittime differenze di opinione, per esempio, fra chi vuole nei centri urbani piste ciclabili e chi vuole parcheggi per autovetture; forse sarebbe utile anche una riduzione del numero dei membri ma maggiore rappresentatività delle varie categorie tecniche.

Non ci si può stupire se molto spesso le modellizzazioni geologiche siano scadenti, quando non assenti, in molti piani territoriali e in molti progetti di opere più o meno grandi, nonostante i geologi siano convinti della mecessità di rispettare il contesto fisico in cui insistono queste opere.

In un'ottica del genere è normale che il Geologo sia per forza un rompiscatole che mette paletti (non solo per fare delle fondazioni più consone...), è uno che ti dice “alt! Così non è possibile” e, appunto, passa per un costo e per uno di quei lacci e lacciuoli burocratici che ostacolano il cittadino. Ma lo fa perchè fa il suo lavoro in un quadro di approccio sbagliato da parte della committenza.
Mi domando se non sarà anche che i geologi stessi (tutte le categorie) sbaglino qualcosa?
Insomma, occorre che i geologi si facciano sentire. L'Appello di Firenze, illustrato durante il convegno “Il Risorgimento e la GeologiaItaliana” nel novembre del 2011 mi sembra sia caduto nel dimenticatoio

Un primo problema, basilare, è che se si fa la domanda “chi è e cosa fa un Geologo” non so in quanti siano in grado di rispondere.
È evidente che, tanto per incominciare, occorra nelle Scienze della Terra un coordinamento fra le varie anime della geologia (accademici, liberi professionisti e geologi nella Pubblica Amministrazione). Non solo per una maggiore comunicazione e per un periodico scambio di opinioni, ma per poter interloquire meglio con chi deve decidere dell'assetto territoriale.

Quindi occorrerebbe che la categoria sia più comunicativa. Forse così qualcuno comincerebbe a chiamare il geologo “prima” e non come succede troppo spesso “dopo”, per curare sintomi ormai gravi o per esprimere un giudizio su un progetto già stabilito.

Altrimenti non ci si potrà stupire se, mancando conoscenze di base del territorio, un qualsiasi problema dovuto ad una serie di errori, consapevoli o inconsapevoli che siano, diventi “un evento eccezionale non previsto né prevedibile” come qualcuno (anche dei geologi, purtroppo) ha detto del Vajont.


giovedì 17 ottobre 2013

Le radici climatiche della fine dell'Età del Bronzo


Come ho fatto vedere in alcuni post precedenti, ragioni climatiche sono alla base dell'adozione dell'agricoltura. Ma il clima ha guidato anche in seguito la storia umana. In questo post mi occupo della crisi della fine dell'Età del Bronzo nel Mediterraneo, facendo notare la forte radice climatica del problema, una siccità che perdurò per 3 secoli, causa del periodo di decadenza successivo (rappresentato bene dal cosiddetto "Medioevo greco");  solo la ripresa delle piogge consentì la ripresa della civiltà nel IX secolo a.C. Le variazioni  climatiche sono state finora un pò snobbate da storici e archeologi ed è bene che in futuro ci sia una più stretta collaborazione fra questi ed i geologi

Le civiltà dell'età del bronzo cessarono la loro esistenza o quantomeno andarono in forte difficoltà più o meno contemporaneamente verso il 1200 a.C.: in Grecia scompare la civiltà micenea, in Egitto entra in crisi il Nuovo Regno, nelle coste orientali del Mediterraneo vanno in decadenza la cultura cananea e quella cipriota e crolla l'impero Ittita. Alcuni documenti riportano notizie su popolazioni che avrebbero effettuato scorrerie in tutta l'area (sui “popoli del mare” ci sono opinioni molto discordanti fra gli storici).
Anche l'Italia è coinvolta nel problema: scompare la cultura delle Terremare.

I 3 secoli successivi saranno caratterizzati da una notevole turbolenza, da cui emergeranno forti cambiamenti nell’assetto etnico e politico in tutto il Mediterraneo.
In particolare la decadenza è forte in Grecia (il cosiddetto Medioevo Ellenico): oggi si tende a ritenere che gli storici greci classici abbiano un po' esagerato le cose, ma è accertato che in quel momento i centri principali micenei e le loro strutture palaziali siano stati abbandonati in un quadro di diminuzione demografica e di ritorno a un’agricoltura di sussistenza e pastorizia. Anche dal punto di vista industriale e culturale si registra un forte arretramento: scompare l’uso della scrittura (la “Lineare B”) e diminuisce la produzione di oggetti in bronzo. Tutto lascia pensare ad un impoverimento generalizzato.
Un particolare di non trascurabile importanza è che le rovine dei palazzi micenei risultano sottoposte ad incendi e che spesso sembra siano state difese fino all'ultimo. Resta il dubbio se si tratta di problemi dovuti a fattori esterni (guerre) o fattori interni (tumulti).

In Egitto c'è una forte instabilità politica e la divisione del territorio in più entità statuali. Qui le testimonianze delle incursioni dei Popoli del Mare sono abbondanti ma forse non del tutto veritiere, se qualche storico sminuisce l'importanza di queste popolazioni (ovviamente non essendo uno storico, tantomeno specializzato nel periodo, non mi sento di esprimere giudizi in materia e mi limito a registrare che ci sono posizioni diverse sull'argomento).
Nell'area anatolica e siro – mesopotamica la forte espansione assira va a innestarsi sulla disgregazione dei sistemi statuali precedenti. In Italia peninsulare si diffonde il cosiddetto Protovillanoviano, denotante forse arrivi dall’Europa Centrale
Qualche secolo dopo (siamo nel IX secolo) le cose cambiano nuovamente: gli scambi commerciali, che non erano del tutto cessati, aumentano di nuovo, c'è una ripresa demografica, emergono civiltà complesse, non solo nelle aree che erano “decadute” e si diffonde della scrittura
- la Grecia esce dal “medioevo” e la rioccupazione di molti siti urbani getta le basi della civiltà classica e del fenomeno della colonizzazione
- l'Egitto si riunifica e si pacifica
- in Italia emerge un quadro regionalizzato: fiorisce la civiltà etrusca, nasce la Roma arcaica e si diffondono le popolazioni osco – umbre
- In Gallia si registra una forte crescita demografica

Per spiegare la decadenza alla fine dell'età del bronzo sono state avanzate le più varie ipotesi: disastri naturali come terremoti, tsunami o eruzioni vulcaniche, innovazioni tecnologiche destabilizzanti, tumulti popolari e altre cause politiche e antropologiche.
Sicuramente non è stata una eruzione vulcanica devastante: negli ultimi 10.000 anni le maggiori eruzioni che hanno provocato problemi nell'area dell'Europa e del Mediterraneo sono la formazione della caldera dell'Hasan Dan in Turchia circa 8000 anni fa, un forte evento ancora non localizzato data circa 800 anni prima della fine dell'Età del Bronzo e, Santorini esplose 400 anni prima. Il successivo evento del genere potrebbe essere nel 535 d.C.
Un forte cluster di terremoti sarebbe una causa teoricamente possibile (il Mediterraneo orientale attraversa periodi di forte sismicità che si alternano a lunghi periodi di calma o quasi) ma non pare la causa dell'abbandono delle città micenee, per esempio, né lo può spiegare una serie di tsunami quando si parla di zone interne.

Sui Popoli del Mare è incerto se, ove esistiti, siano una causa o piuttosto un effetto degli accadimenti.

Chiaramente non entro nel dibattito su cause più propriamente politiche, economiche o antropologiche, non essendo il mio ramo.

Però parlo di questa crisi perchè questi eventi sono praticamente tanto improvvisi quanto più o meno contemporanei e la causa comune per tutto questa improvvisa instabilità è stato l'instaurarsi di un lungo periodo di siccità. I primi scritti al proposito datano dal 1996.

Per capire meglio quello che è successo l'esame dei sedimenti deposti all'epoca è essenziale: è il caso di Cipro in un lavoro recente di David Kaniewski: Environmental Roots of the Late Bronze Age Crisis, pubblicato su PlosOne nel 2013.
Gli Autori mettono in evidenza il periodo siccitoso fra il XIII e il IX sec. a.C. Nella laguna di Larnaka, il cui inizio corrisponde alla fase di decadenza economica, culturale e della produzione agricola e la cui fine corrisponde alla ripresa delle precipitazioni. In questo grafico è particolarmente significativa la prima parte dove si vede la drastica diminuzione delle specie coltivate.
In pratica l'improvvisa scarsità della produzione agricola porta a rivolte e crisi politiche e sociali. 
 
Una traccia interessante è quella dell'Impero Ittita: la sua capitale, Hattusas, era in mezzo alle montagne e lontana dalle zone di produzione del grano. Quindi era vulnerabile dato che il cibo vi arrivava da territori assoggettati con la forza e che si ribellarono, probabilmente all'inizio della carestia. Inoltre in Asia Occidentale fiumi come Eufrate e Tigri mostrano una diminuzione della portata.
Anche i “popoli del Mare” potrebbero essere un effetto della siccità: se provenivano anch'essi da Anatolia o Mar Nero, è possibile che la diminuzione delle piogge avesse provocato gravi problemi alimentari in una zona che in situazione “normale” ha un livello di precipitazioni al limite della sussistenza di un'economia pastorale: basta una diminuzione anche piccola delle precipitazioni per provocare guai.

Lo stesso quadro siccitoso è evidente in Europa e Atlantico settentrionale. In Italia Mauro Cremaschi, Chiara Pizzi e Veruska Valsecchi pubblicano un interessante e abbastanza “conclusivo” articolo nel 2006 su “Quaternary International”, studiando il villaggio terramaricolo di Poviglio (nella pianura tra Parma e Reggio Emilia): vedono una decadenza rapida del sito e soprattutto che gli ultimi pozzi per l'acqua sono stati scavati nel fossato che circondava il sito, dove evidentemente in tempi precedenti c'era acqua.
Quindi è possibile mettere in relazione la fine del villaggio con un forte abbassamento del livello della falda acquifera del Po.
In quel periodo laghi e fiumi si abbassano di livello in tutta l'Europa mentre si ritirano i ghiacci alpini. Dall'altra parte dell'Atlantico la calotta groenlandese mostra una accelerazione dello scioglimento.
L'aumento delle temperature è accertato anche grazie al δ18O, il rapporto fra gli isotopi 16 e 18 dell'Ossigeno, il cui valore in qualche modo segnala la temperatura del momento.

Quali possono essere le cause di questa improvvisa e lunga siccità? Innanzitutto ci fu un riscaldamento in cui il confine fra la zona a clima mediterraneo e quella a clima atlantico si spostò nella Francia settentrionale, se non addirittura nell'Inghilterra meridionale.

È un fenomeno comune negli ultimi millenni, caratterizzati da un'alternanza fra fasi in cui con un Sole più attivo, l'anticiclone delle Azzorre rimane più a lungo a latitudini più elevate, per cui la zona in cui prevalgono le estati secche tipiche del clima mediterraneo è più vasta e le condizioni estive permangono per un periodo più lungo.
Le fasi di attività solare più bassa sono contraddistinte dalle “piccole ere glaciali” come quella che si è protratta dal XIV all'inizio del XIX secolo: l'anticiclone delle Azzorre rimane più a sud e la zona a clima atlantico, con piogge più o meno egualmente distribuite lungo tutto l'anno, oggi tipica dalla Francia centrale in su, si abbassa fino alla Spagna.

Di fatto solo la ripresa delle precipitazioni, tre secoli dopo, dettata da una diminuzione dell'attività solare, coincide con la fine del medioevo greco, il riaffermarsi dell'unità in Egitto ed in Italia l'emergere della cultura etrusca, di Roma e delle popolazioni osco – umbre e quindi con una ripresa generalizzata della civiltà.

martedì 15 ottobre 2013

Vajont: protagonisti e cause


"The Vajont reservoir disaster is a classic example of the consequence of the failure of engineers and Geologists. To understand the nature of the problem that they were trying to deal with. Proper understanding of the geology of the hillside would have preserved the disaster" 

UNESCO, 12 febbraio 2008 – presentazione dell'Anno del Pianeta Terra.


Torno a parlare del Vajont.
È di moda, purtroppo...
Ma sono state dette in giro tante cose, spesso assurde. Vorrei quindi parlare un po' degli uomini e di quello che il è emerso nel convegno di domenica scorsa a Longarone, ricordando alcuni punti fondamentali. In questa immagine gentilmente fornitami dall'amico Paolo de Pasqual si vede la diga con dietro la frana e il monte da cui è partita.

1. in tutti i corsi di Scienze della Terra in Italia si studia il Vajont

2. la Geologia Applicata nasce con questa tragedia. Sì, c'erano già corsi di Geologia Applicata all'Ingegneria, ma la maggior parte di chi si occupava dell'argomento erano ingegneri, non geologi. Anche Leopold Muller era un ingegnere, sia pure un “ingegnere geologo", come ci sono gli edili, i meccanici, gli elettronici etc etc. È da quel momento che nel mondo delle Scienze della Terra qualcuno comincia ad occuparsi anche di frane, falde acquifere, prove sui materiali, deformazioni e quant'altro oltre ai tanti che fino ad allora si erano occupati della storia della Terra, dei vulcani e di come sono sorte le catene montuose.

3. in questi giorni sono uscite delle "rivelazioni" sul fatto che c'era la volontà di provocare delle frane artificialmente. Il tutto seguito da cori di indignazione al suono di "nessuno lo aveva mai detto".
È l'ennesima dimostrazione di quanto spesso oggi si spaccino fatti assodati per novità: è vero, è agli atti ed è sempre stato saputo, anche prima della tragedia: l'obbiettivo era proprio quello di provocare piccole frane che avrebbero dovuto bloccare eventi franosi puù grossi. Un errore fatale che spiegherò nel prosieguo del post. 

CARLO SEMENZA, IL PROGETTISTA CHE NON ERA CONVINTO

Carlo Semenza, non è solo il “papà” della diga, ma anche in qualche modo è una vittima dell'opera, come coloro che morirono per farla e coloro che persero la vita nel disastro. Anche se conosco la storia molto meno nei dettagli di altri mi chiedo se con lui vivo sarebbe cambiato qualche cosa: non abbiamo la riprova, ma forse la sua morte ha dato una accelerata agli eventi. Morì nel 1961 e probabilmente la sua morte è in parte da attribuire allo stress e ai pensieri che aveva.
Fu il primo, dopo la frana nel vicino invaso di Pontesei, a chiedere uno studio della geologia dell'invaso, una cosa che all'epoca non era neanche contemplata dalla normativa, che si curava esclusivamente della zona della diga.

Ricordo al proposito che la franosità del bacino intorno all'invaso del Pontesei era nota, ciononostante nessun tecnico o burocrate aveva obbiettato nulla.

Pochi mesi prima della sua morte scrisse a Vincenzo Ferniani, uno dei massimi protagonisti della costruzione di dighe ed impianti idroelettrici del tempo: “non Le nascondo che il problema di queste frane mi sta preoccupando da mesi: le cose sono probabilmente più grandi di noi e non ci sono provvedimenti pratici adeguati, a meno di pensare di far cadere buona parte del materiale”. 

 Di sicuro Carlo Semenza non era convinto che il progetto dovesse proseguire.

MANCANZA DI CONOSCENZE, ERRORI 
E OPINIONI SBAGLIATE DI SCIENZIATI E TECNICI DI PRIM'ORDINE

Sono stati commessi errori importanti prima e dopo la tragedia, da parte di studiosi importanti. Cioè, non è che la SADE prima e le commissioni di inchiesta poi, si siano avvalse di gente “raccattata”, ma nella vicenda sono state coinvolte importanti personalità.
Leopold Muller è considerato il padre della meccanica delle rocce ma non sapeva molto di frane e del comportamento di sedimenti sciolti. E a quel tempo la dinamica dei corpi di frana era ancora ad uno stato embrionale.

Giorgio Dal Piaz e Ardito Desio sono due giganti della geologia italiana e si sono sbagliati: anche loro non erano geologi applicati, ma accademici insigni provenienti da una visione naturalistica delle scienze della Terra come Desio, mentre quando Dal Piaz studiava non esisteva neanche il corso di Geologia e lui era laureato in Scienze Naturali. Questa è una possibile e parziale giustificazione.

Un altro illustre scienziato, Pietro Caloi, fece dei sondaggi geofisici. Arrivò a delle conclusioni sbagliate, in particolare sullo spessore della zona in frana. Ma con il senno di poi (e l'esperienza dei 50 anni successivi di ricerche) si può dire che era molto difficile arrivare a conclusioni affidabili in quelle condizioni. Tra il maggio ed il giugno del 1960 furono anche eseguiti 3 sondaggi (solo 3 e tutti nella parte occidentale dell'area del futuro distacco).

L'ingegner Augusto Ghetti, l'ennesimo luminare coinvolto nella storia, aveva costruito un modello in scala dell'invaso per simulare la frana ed i suoi effetti. Ricordo la forma a “M” della superficie di distacco, pertanto i due vertici della M erano concepirti come facenti parte di due corpi diversi. E Ghetti svolse le sue ricerche con un modello in cui il movimento di uno dei due corpi avrebbe innescato anche il movimento del secondo e le due masse diverse  si muovevano con tempi leggermente diversi. Inoltre il modello ha sottostimato la velocità a cui la massa sarebbe precipitata a valle.
Chissà se con Carlo Semenza vivo non venissero fatte anche le prove con una massa di frana unica, anche perchè Ghetti stesso non era del tutto sicuro dei risultati e voleva proseguire gli studi.

Ma, senza riferirsi a nessun caso particolare e a nessuna persona, c'è il forte sospetto che in parecchi casi durante questa vicenda sia stata la Scienza ad adattarsi agli interessi della SADE e non viceversa.

In parte questi errori non sono dovuti ad imperizia, quanto a mancanza di conoscenze specifiche. Per Leopold Muller, ad esempio, che la frana scendesse era ineluttabile, solo che l'aveva presa per un flusso lento e costante, assimilandone il comportamento a quello di un ghiacciaio.
E questo è l'errore fatale al di là delle "rivelazioni" odierne sulle frane “preventive”: chi conosce la vicenda sa benissimo che l'intenzione era proprio quella di innescare delle frane con una lenta risalita del livello del lago (per permettere l'infiltrazione delle acque piovane) seguita da una veloce discesa. Secondo il modello queste franette dovevano "tenere su" quanto restava dietro, come succede nei ghiacciainoltre non aveva tenuto conto delle piogge: ricordo che sul Toc non c'era neanche una sorgente, segno che tutta l'acqua che pioveva o ruscellava in superficie (ed era molto poca) o andava in falda.
Nonostante la collaborazione con Edoardo Semenza, Muller ha continuato con quell'approccio che oggi, con un concetto tanto di moda quanto a me antipatico si definirebbe “Top – down” (perchè non dire “dall'alto”?), mentre un approccio “bottom – up”, cioè “dal basso” è l'ideale per qualcosa come la Geologia: modellare a priori i comportamento di una roccia o di un sedimento sciolto, date le possibili discontinuità di comportamento o di condizioni che possono esibire anche a pochi metri di distanza, potrebbe poi essere fonte di sorprese...
  
Dopo la frana del 4 novembre 1960, durantre la prima prova di invaso, c'erano tre linee di pensiero:
Giorgio Dal Piaz (geologo naturalista), Francesco Penta (che era professore di Geologia Applicata a Napoli ma era un ingegnere) e Pietro Caloi, geofisico di estrazione matematica, sostenevano che sulla sponda sinistra dell'invaso ci fossero solo franamenti superficiali
Per Leopold Muller invece c'era una grande frana che si muoveva in modo lento, progressivo e ineluttabile. Questa ipotesi era empirica e non costruita su solide evidenze scientifiche.

Per Edoardo Semenza, il più giovane di tutti e in quel momento sicuramente il meno titolato, sul Monte Toc c'era una gigantesca paleofrana. In particolare il rapporto Semenza – Giudici recita queste esatte parole: “... Più grave sarebbe il fenomeno che potrebbe verificarsi qualora il piano d’appoggio della intera massa, o della sua parte più vicina al lago, fosse inclinato (anche debolmente) o presentasse apprezzabile componente di inclinazione verso il lago stesso. In questo caso il movimento potrebbe essere riattivato dalla presenza dell’acqua, con conseguenze difficilmente valutabili attualmente, e variabili tra l’altro a seconda dell’andamento complessivo del piano d’appoggio ...” 
Nessuno credette mai alla paleofrana descritta da Semenza

L'ing. Penta scrisse il 1° dicembre 1960: “i dati raccolti potrebbero infatti spiegarsi anche ammettendo che il fenomeno consista in una serie di scoscendimenti e crolli delle ripide sponde del lago. Tali scoscendimenti e l'elevata piovosità potrebbero aver riattivato ed accelerato il moto della “lama” che interessa i detriti e la roccia sfatta nella parte alta del fianco della valle. Il movimento quindi potrebbe essere limitato al massimo ad una coltre dello spessore di 10 – 20 metri.
Esaminiamo questo scritto: Penta ipotizza un movimento confinato alla parte superiore della roccia e al suolo sovrastante. Ma si deve innanzitutto notare la presenza in questo rapporto di un uso massiccio del verbo "potere" al condizionale, come ho evidenziato nel testo. A me Penta non mi pare sia molto sicuro di quella che è, da parte sua, una mera ipotesi.

Furono fatti dei cunicoli esplorativi, ma come i sondaggi nessuno arrivò alla base del corpo di frana e, soprattutto, nessuno riconobbe di essere dentro il corpo di frana.


 Muller scrisse nel febbraio 1961: "alla domanda se questi franamenti possono venire arrestati mediante misure artificiali, deve essere risposto negativamente in linea generale; anche se in linea teorica si dovesse rinunciare all'esercizio del serbatorio, una frana talmente grande, dopo essersi mossa una volta non tornerebbe tanto presto all'arresto assoluto.
Quindi non resta latra via che di provare a tenere le frane sotto controllo e di limitare, con misure artificiali, l'entità delle masse precipitanti e le velocità, in modo di poter evitare danni a persone ed opere".

Gli errori fatali furono l'abbassare troppo velocemente il livello del lago e il non tenere conto delle precipitazioni: la resistenza al taglio dei materiali al contatto fra roccia solida e corpo di frana si azzerò istantaneamente. E fu il dramma. Questo è per sommi capi il meccanismo ed è logico: tutte le frane avvengono per questo motivo. Ma ancora oggi, comunque, se si conosce la causa alla base di tutto, non sono chiare le modalità del distacco, in particolare perchè la frana è stata così veloce. 
 
Ma la Scienza continuò a sbagliare anche dopo. Addirittura il giudice respinse le deduzioni della commissione d'inchiesta e c'era persino Ardito Desio dentro...),che definirono la frana un evento imprevisto ed imprevedibile.

 ... E FUORI DAL MONDO SCIENTIFICO, 
ALTRE OPINIONI CHE OGGI SAREBBERO ASSURDE

Quanto ai letterati e dintorni che se la prendevano con la "natura crudele" (mi riferisco a Montanelli, Bocca e Buzzati, personaggi le cui idee e la cui impostazione sono stati ampiamente discussi da chi aveva idee diverse dalle loro ma di cui non è possibile mettere in discussione l'altissimo livello) qualche imbeccata l'avevano ricevuta e purtroppo anche da qualcuno del mondo scientifico e tecnico.
Ma questa era all'epoca un'opinione diffusa sulle catastrofi naturali, che per fortuna oggi, in un'ottica diversa del posto dell'Uomo nell'ambiente e con il notevole avanzamento delle conoscenze, è sostanzialmente è molto cambiata.

Ricordo anche il preside dell'Istituto Tecnico Minerario di Agordo, che nella commemorazione parlò dell'ineluttabilità di alcune morti sulla via del progresso. Questo particolare ce lo ha raccontato Valerio Spagna, geologo, all'epoca professore in quell'istituto.che sentì queste parole personalmente. Un racconto toccante, quello di Valerio Spagna, un testimone quasi oculare (giunse a Longarone in piena notte, ma a cose fatte).

EDOARDO SEMENZA, IL GEOLOGO SENZA MACCHIA

L'unico che ne è uscito senza macchia è indubbiamente Edoardo Semenza. Ma lui ha appunto ha seguito l'istinto del geologo "pratico": anzichè dedurre ha controllato centimetro per centimetro il Monte Toc e tutta l'area dell'invaso. Aveva visto che in tempi precedenti una paleofrana aveva invaso la valle e bloccato il torrente, aveva visto le fratture sul monte Toc nelle quali si infilavano le acque piovane ed altro. Inoltre ci sono prove circostanziali che la SADE conosceva già il rapporto Semenza – Giudici nell'agosto del 1959, quindi un anno prima della prima prova di invaso e della piccola frana del 1960.

Qui lo vediamo nel "classico" prato di Erto che domina la valle e la frana