venerdì 30 dicembre 2011

L'isola che non c'è (ancora) e quella che invece è venuta fuori


In questi ultimi mesi l'attenzione dei vulcanologi era puntata sulle Canarie, su un'eruzione sottomarina nei pressi di El Hierro, aspettando che il cratere formato dal magma emergesse dal mare. Ci siamo arrivati molto vicini, guardate questa foto dove si vede il mare sopra l'area in cui il magma esce sul fondo marino.



Ma se alle Canarie l'isola non è ancora venuta fuori anche se l'attività continua, sorprendentemente in pochi giorni ne è venuta fuori una nel Mar Rosso.
Il 19 dicembre c'erano sintomi di una eruzione nella zona meridionale del Mar Rosso, vicino a dove le acque dello stretto proto-oceano si mescolano con quelle del golfo di Aden. I rilevamenti della missione AURA, un satellite della NASA che studia la chimica dell'atmosfera e della superfiice terrestre, dimostravano chiaramente che un'eruzione era in corso, grazie alla nuvola di Biossido di Zolfo. 

Nella zona ci sono una serie di vulcani (dei quali uno, Jabal al-Tair, ha fatto parlare molto di se nel 2008, facendo un po' di danni (se non ricordo male anche una guarnigione yemenita ebbe dei problemi).
Il maggiore indiziato era lo Jebel Zubai, la cui ultima eruzione è del 1824, vicino allo Jabal al-Tair.

Poi però si è visto che lo Jebel Zubai non dava segni particolari di eruzione. C'erano state, sempre il 19 dicembre, delle testimonianze di una eruzione in mezzo al mare riportate da dei pescatori a cui era stato dato scarso credito, nonostante parlassero con una certa precisione di fontane di lava.
E persino molti esperti avevano pensato o ad una minima eruzione caratterizzata soprattutto dal rilascio di gas o che il problema fosse di origine antropica (militare? Incendio?).
Poi però venne la NASA: confrontate queste due foto, una “prima” e una “dopo”.
Ecco quella "prima". si vede l' Haycock  Island e la Rugged Island, separate da poco più di 2 km di mare.


E ora confrontatela con quest'altra, di pochi giorni fa.
Vedete come “dopo” c'è un'isola in più nel Mar Rosso. E fuma. Il nuovo vulcano.


Nell'area della nuova isola il mare era profondo prima dell'eruzione un centinaio di metri.

mercoledì 14 dicembre 2011

L'insussistenza scientifica del razzismo

Gli omicidi a sfondo razziale che ci sono stati oggi a Firenze mi hanno particolarmente colpito, sia semplicemente perchè sono successi ma anche perchè sono avvenuti in Piazza Dalmazia, una piazza da me ben conosciuta e frequentata, il che vale anche per l'epilogo nel quartiere di San Lorenzo. Allora voglio rendere omaggio alla memoria di questi ragazzi senegalesi (la bandiera nell'immagine è ovviamente quella del Senegal) prendendo degli spunti sulla storia della ricerca sulle razze e concludendo con quanto è scritto chiaramente su uno dei libri da me preferiti e cioè “Storia e geografia dei geni umani” di Luigi Luca Cavalli Sforza, Paolo Menozzi e Alberto Piazza – Edizioni Adelphi. Gli autori dimostrano su base genetica che non esistono razze. E buonanotte a tutti i razzisti di questo mondo. Il post potrà sembrare un po' confuso, ma l'ho preparato piuttosto in fretta e me ne scuso.


Già nella Grecia Classica ci sono testimonianze della diversità umana basata soprattutto sul colore della pelle.
Nel XVIII secolo gli scambi seguiti ai viaggi intrapresi dai “grandi navigatori” avevano portato in Europa la descrizione della vasta serie di popolazioni che conosciamo; simultaneamente furono scoperte anche le scimmie antropomorfe. Quando Linneo creò l'ordine dei “Primates”, che includeva come oggi l'uomo e le scimmie, fu molto criticato e scrisse che sapeva benissimo quale fosse la differenza morale fra scimmie ed uomo, ma anche che da un punto di vista anatomico le differenze erano ben poche.

In seguito si diffuse l'opinione che i neri fossero discendenti dalla commistione fra uomini bianchi e orangutan (termine con cui fino al 1850 circa erano chiamate tutte le scimmie antropomorfe), o che fossero una specie di mezzo fra l'uomo bianco e le scimmie: non è stato automatico pensare che bianchi e neri fossero la stessa specie. C'erano comunque sostenitori della unicità della razza umana, come l'anatomista olandese Petrus Camper (1722 – 1789): egli prima sezionò il cadavere di un vero orango, dimostrando che c'erano forti differenze con l'uomo e poi quello di un giovane angolano, del corpo del quale disse che era perfettamente uguale all'uomo bianco; invitava quindi a tendere la mano agli uomini dal colore diverso, come figli dello stesso Dio, in cui c'erano addirittura dei religiosi che proponevano creazioni separate fra bianchi e neri.

Le cronache dell'epoca sono piene di notizie su persone, anche molto importanti, di cui alcune note per la loro rettitudine morale, che ritenevano la razza bianca quella iniziale e che i negri rappresentassero una qualche forma di degenerazione (persino Buffon la pensava così...); altri semplicemente ritenevano la razza bianca irrimediabilmente superiore alle altre. È abbastanza ovvio che il razzismo servisse anche da un punto di vista economico, perchè dava motivazioni etiche allo sfruttamento delle colonie ed è stato invocato come pretesto persino per assolvere infamie come la schiavitù e genocidi vari. Anzi, ancora oggi la parola “razza” è regolarmente associata con una serie di pregiudizi, ma la convinzione che esistano razze superiori ed inferiori è totalmente infondata dal punto di vista scientifico (e – quindi – è infondata tout court!).

Per un bizzarro gioco della storia Petrus Camper è stato l'inconsapevole inventore di uno dei tentativi più duraturi di dividere gli uomini in razze a diversa intelligenza, la craniometria, che si basava sull'angolo facciale e cioè su quanto la linea che dai denti porta alla fronte devia rispetto all'orizzontale: ai bassi angoli facciali delle scimmie antropomorfe (50°) si passa ai 70° dei neri e agli 80° gradi degli europei. Camper fece queste osservazioni per puri motivi estetici, notando che le statue greche avevano un angolo che arriva quasi a 90°. L'olandese non avrebbe pensato mai di collegare, come hanno fatto poi i suoi posteri, l'angolo facciale all'intelligenza, cosa che restò accettata fino a dopo l'inizio del XX secolo. In seguito Anders Retzius (1796 – 1860) affiancò all'angolo facciale l'indice cefalico, il rapporto fra lunghezza e larghezza del cranio, che fu usato addirittura fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Johann Friederich Blumenbach (1752 – 1840), considerato il padre dell'antropologia, divise il genere umano in 5 razze (caucasica, mongolica, etiopica (tutti gli africani) americana e malese. Riteneva anche lui che il colore originario fosse il bianco.
E ora veniamo a Charles Darwin: nonostante che gli antievoluzionisti lo considerino il padre di tutte le nefandezze possibili, da quelle sociali a quelle razziali, dal comunismo al nazismo al capitalismo (e ovviamente al darwinismo sociale e a tutti gli -ismi peggiori), oltre a concludere che la specie umana è unica e anche che ogni razza confluisce nell'altra e che le razze umane non sono così distinte da abitare la stessa regione senza fondersi. Su quella che Darwin chiama la confluenza delle razze, come illustrare meglio i passaggi graduali nelle popolazioni umane che con la carta qui accanto, una delle tante pubblicate da Cavalli Sforza? Si vede come la frequenza di alcune varianti genetiche vari in modo estremamente graduale. 

Ah, a proposito, non per metterla in politica ma molti razzisti sono anche antievoluzionisti (specifico che non è comunque vero il contrario: molti antievoluzionisti non sono assolutamente razzisti)

Darwin, per dimostrare l'infondatezza di quegli studi, annota come non ci sia accordo nelle varie classificazioni, che differivano tutte per numero e descrizione delle razze. Inoltre nel suo viaggio notò come anche le popolazioni più selvagge avevano menti simili a quelle dei bianchi. È facile notare come questi concetti sono stati espressi da una persona che apparteneva all'ambiente più razzista che si poteva immaginare, l'aristocrazia inglese che con il colonialismo si è molto arricchita e per i cui scopi il razzismo è stato un pilastro fondamentale.

Saltiamo a piè pari tutte le vicende – spesso molto tristi e dolorose – dell'ottocento e del primo novecento e arriviamo ai risultati della genetica: l'uomo anatomicamente moderno è molto giovane, ha meno di 200.000 anni. Per cui succede che “c'è una grande variabilità genetica in tutte le popolazioni umane, anche in quelle piccole”. Le differenze fra i gruppi maggiori sono perciò modeste se paragonate a quelle entro gli stessi gruppi e perfino all'interno di popolazioni singole.
Inoltre la notevole attività migratoria e le conseguenti mescolanze fra migranti e popolazioni locali hanno contribuito alla mancata differenziazione fra loro delle popolazioni.

Quindi “il concetto di razza nella specie umana non ha ottenuto alcun consenso dal punto di vista scientifico e non è probabilmente destinato ad averne, perchè la variazione esistente nella specie umana è graduale.
Si potrebbe obbiettare che gli stereotipi razziali hanno una certa consistenza, tale da permettere anche all'uomo comune di classificare gli individui. Tuttavia gli stereotipi più diffusi, tutti basati sul colore della pelle, sull'aspetto ed il colore dei capelli e sui tratti facciali, riflettono differenze superficiali che che non sono confermate da analisi più appropriate fatte su caratteri genetici (più attendibili). L'origine di tali differenze è relativamente recente ed è dovuta sprattutto all'effetto del clima e – forse - della selezione sessuale.

Un'analisi statistica multivariata permette di identificare “raggruppamenti” di popolazioni e ordinarli secondo una gerarchia che crediamo possa rappresentare la storia delle fissioni, (le separazioni di una popolazione in due o più gruppi, NdR) durante l'espansione in tutto il mondo dell'uomo anatomicamente moderno. A nessun livello si possono identificare questi raggruppamenti con le razze, dal momento che ogni livello di raggruppamento rappresenta una fissione diversa e non c'è alcuna ragione biologica per preferirne una in particolare. I livelli successivi di di raggruppamenti (vediamo un esempio qui accanto) si dispongono in una sequenza regolare e nessuna discontinuità può indurci a un certo livello come una soglia ragionevole, anche se arbitraria, per distinguere “razze”” (Cavalli Sforza et al, opera citata.


Da ultimo riprendo un post che avevo scritto un paio di anni fa sulla genetica degli europei:  le componenti genetiche dell'umanità del nostro continente sono varie e derivano da diverse ondate migratorie (a parte le Americhe, l'Europa è stata l'ultima area ad essere occupata da Homo sapiens, ben dopo l'Australia ad esempio, ed è stata strappata ai Neandertaliani solo tra 40 e 25 mila anni fa. Quindi alla componente autoctona dei primi cacciatori - raccoglitori si sono affiancate diverse migrazioni dall'Asia, dal Medio Oriente e dal Mediterraneo. Ne consegue che la popolazione europea sia lungi dall'essere una “razza pura” (e, aggiungo “superiore”...), ma che il nostro continente sia stato negli ultimi 8000 anni un crogiolo di mescolanze che continua anche oggi, da quando l'Europa, da territorio di emigrazione, è ritornata ad essere un continente di immigrazione.

domenica 11 dicembre 2011

Il Corpo delle Miniere e l'industria mineraria italiana negli ultimi 200 anni

Ringrazio il prof. Giuseppe Tanelli, del Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Firenze che mi ha fornito il testo della sua comunicazione durante il convegno di Firenze dal titolo "Dal Regio Corpo delle Miniere alle georisorse del futuro”. Da essa ho tratto spunto per una storia dell'attività mineraria degli ultimi 200 anni in Italia.

Nella seconda metà del Settecento, grazie alla rivoluzione industriale, carbone fossile e minerale di ferro diventano materie prime strategiche. C'è interesse anche in alcuni stati dell'Italia pre – unitaria intorno ai nuovi modelli produttivi a carattere industriale e questo porterà allo sviluppo delle Scienze della Terra: Granducato di Toscana, Regni di Sardegna e delle Due Sicilie, Lombardo-Veneto organizzano campagne di prospezione mineraria e, in un quadro di marcata mobilità nazionale ed europea, scienziati e tecnici italiani, visitano i più importanti distretti minerari e frequentano le grandi scuole geologiche e mineralogiche dell’Europa. Fu anche grazie a questi scambi che emersero alcuni grandi naturalisti e geologi, quali Ermenegildo Pini, Giovanni Arduino, Matteo Tondi, Antonio Lippi, Leopoldo Pilla, Ottaviano Targioni Tozzetti, Giuseppe Gjuli, Igino Cocchi e Alberto La Marmora. Nomi che oggi dicono poco perchè purtroppo la storia delle scienze non è una materia insegnata ma lo dovrebbe essere, 

Nel 1779 la scoperta dell'acido borico ne i soffioni del “Lago Cerchiaio”, nei pressi di Monterotondo (Colline Metallifere Toscane), dovuta al grande naturalista Paolo Mascagni, fu il preludio a una delle prime produzioni industriali, antecedenti l'Unità d'Italia: ad una prima fase pionieristica iniziata nel 1818 da una società livornese alla quale partecipava lo stesso Mascagni, seguì dal 1827 una vera produzione industriale del “sale sedativo” nel 1827, grazie ad un francese naturalizzato livornese, Francesco Larderel (da cui il nome della località principale dove troviamo i soffioni).

Il 18 ottobre del 1822 con le Regie Patenti di Carlo Filippo, vengono isituiti il Regio Corpo delle Miniere Sarde, con compiti tecnici ed amministrativi, ed il Consiglio Superiore delle Miniere, con funzioni di indirizzo e controllo. Con l’Unità d’ Italia le competenze del Corpo e del Consiglio delle miniere, sono estese a tutto il territorio nazionale. Nel 1861 ai compiti minerari si aggiunsero quelli relativi alla Carta geologica; questo nojn fu un parto indolore ma l'esito finale di una lotta fra chi, come Filippo Cordova, Ministro dell’Agricoltura del primo Governo Ricasoli, voleva che la cartografia geologica venisse affidata a geologi naturalisti e Quintino Sella che impose alla fine l'attribuzione di questo compito ai geologi provenienti dall'ingegneria.

Nel 1881 esce ad opera del Regio Corpo delle Miniere una pubblicazione fondamentale nella storia mineraria italiana, "Notizie Statistiche sulla Industria Mineraria in Italia dal 1860 al 1880”. Le informazioni riportate nel volume forniscono un significativo spaccato della situazione industriale e socio – economica del nostro paese: l’Italia unificata è un paese povero ed arretrato, carente di materie prime minerali, in particolare di combustibili fossili di qualità. La situazione per il ferro era sensibilmente migliore, grazie in particolare ai depositi di ossidi dell’Elba e a quelli di siderite del Bergamasco.

In questa pubblicazione si legge che l’acido borico a Larderello era ottenuto "facendo sboccare i soffioni (naturali o ottenuti mediante perforazioni del terreno) nell’acqua di bacini detti lagoni ed evaporando poi questa con il calorico del vapore dei soffioni".
L'era della Geotermia iniziò proprio nella località toscana nel 1904, quando il calore mise in moto un apparecchio che fornì energia per l'accensione di cinque lampadine.

Sempre secondo le "notizie statistiche" negli ultimi anni Settanta dell’Ottocento, la produzione mineraria annuale può essere stimata attorno ad un valore di 100 milioni di lire (attorno allo 0,8% del Pil); circa il 60 % era dovuto allo zolfo della Sicilia (35 milioni); i minerali di piombo e zinco della Sardegna e della Toscana concorrevano per 12 milioni, i marmi apuani per10 milioni e l'acido borico ricavato dai soffioni di Larderello per 2 milioni.
A questi si univano pochi combustibili fossili: torbe dell’Arco alpino, ligniti della Maremma e giacimenti di carbone del Sulcis per un valore di circa 3 milioni di lire (contro i 40 milioni di importazione di litantrace). 

La mancanza di risorse energetiche era già allora il problema principale dell'Italia: in Belgio, Inghilterra e Stati Uniti la rivoluzione industriale si era basata sulla presenza di carbone. E che l'Italia non era ancora una realtà industriale lo dimostra il fatto che a fronte di una produzione di minerali di ferro per circa 2,5 milioni di lire da Elba e Bergamasco le importazioni di ghisa, acciaio, prodotti semilavorati o lavorati e macchinari raggiungevano un valore di circa 70 milioni di lire.

La carenza di combustibili fossili e la mancanza di idonei impianti metallurgici faceva sì che anche la produzione di minerali di base, come rame, piombo, zinco, stagno e antimonio fosse per almeno due terzi destinata all’esportazione in nazioni da cui poi tornavano prodotti semilavorati e lavorati. Queste attività minierarie erano presenti su tutto l'arco alpino, la Sardegna e nelle zone  geologicamente più antiche dell'Italia centrale (soprattutto in Toscana). Alcune di queste coltivazioni sono state attive ben oltre  la fine della II Guerra mondiale. Fra le poche eccezioni di rilievo c'era la produzione di mercurio, estratto per distillazione dal cinabro delle miniere delle Alpi Apuane e del Monte Amiata (la prima miniera amiatina, aperta nel 1846, fu quella del Siele).

Lo zolfo quindi rappresenta nei primi decenni dell’Unità d’Italia la più remunerativa produzione mineraria: grande parte era prodotto nelle solfare siciliane ed inviato all’estero per la produzione di acido solforico e per la solforazione delle viti. Lo stesso volume del Regio corpo delle Miniere  contiene al riguardo una precisa denuncia di sfruttamento del lavoro minorile: vi è chiaramente evidenziato come "nei cunicoli e nelle gallerie delle miniere lavorino attorno a 3500 adolescenti in tenera età, detti carusi, impiegati al faticoso lavoro del trasporto a spalla del minerale solfifero, anche da grande profondità”.
Quando nel 1907 Luigi Pirandello pubblica “Ciàula scopre la luna”, lo zolfo siciliano domina ancora il mercato mondiale, ma dopo pochi anni entra in crisi schiacciato dalle primitive e disumane tecniche di coltivazione, dalla concorrenza dello zolfo americano, estratto con moderne tecniche di solubilizzazione in sito e dalla scoperta dei grandi giacimenti di pirite della Maremma nei primi anni del Novecento

Con il XX secolo inizia anche l’estrazione della bauxite nei giacimenti abruzzesi e pugliesi, quale materia prima dell’alluminio, il metallo “innovativo e tecnologico” dell’Ottocento e, come accennato, l’estrazione della pirite dai grandi giacimenti della Maremma, che caratterizzerà in modo marcato la storia mineraria di tutto il secolo. La pirite usata fino agli anni Sessanta limitatamente alla produzione di acido solforico, con l’entrata in funzione dello stabilimento di Scarlino, viene ad essere anche una risorsa di minerale di ferro secondario e di energia. 

All’inizio del Novecento si realizza la più importante svolta industriale del nostro Paese nel settore minerario con la messa in funzione degli altiforni di Portoferraio (distrutti dai bombardamenti della seconda guerra), Piombino e Bagnoli, alimentati principalmente dal minerale elbano
Le esigenze di materie prime ferrifere legate agli eventi della Prima Guerra Mondiale portarono inoltre all'utilizzazione delle grandi masse di scorie della metallurgia etrusco-romana del minerale elbano che si trovavano nella piana di Baratti a Populonia. La loro rimozione ebbe eccellenti risvolti archeologici, perchè sotto alle scorie fu scoperta della vasta necropoli arcaica di S.Cerbone.

Nel corso del Novecento fino alla seconda Guerra Mondiale si ha una marcata espansione del settore minerario e metallurgico, in particolare durante il periodo autarchico degli anni Trenta. Si intensificano le coltivazioni delle ligniti dell’Italia centrale e del carbone del Sulcis, la migliora qualità del carbone nazionale, per il cui sfruttamento viene fondata la città di Carbonia.

Nel secondo dopoguerra le attività minerarie, in particolare in Toscana e Sardegna, concorsero marcatamente alla ricostruzione del tessuto industriale del paese. Però con la crescita socio-economica, si determina in Italia e in Europa quel processo, tipico di tutte le società industrialmente avanzate, per cui cessano le attività primarie come quella estrattiva, e si sviluppano le attività secondarie e terziarie.

Così dagli anni Settanta del Novecento, si assistette ad una lenta dismissione dei grandi distretti minerari italiani ed è del dicembre del 1993 l’ultima seduta del Consiglio Superiore delle Miniere: a cavallo fra il XX ed il XXI secolo, con il trasferimento alle Regione di tutte le competenze minerarie - a meno dei materiali energetici - vengono chiusi i Distretti minerari e finisce la storia del Corpo delle Miniere. 

E oggi? Dopo la chiusura, un paio di anni fa, della miniera aurifera di Serrenti-Furtei (nel Campidano) è rimasta solo quella di bauxite a Olmeda (Sassari) a ricordare il cammino plurimillenario delle attività minerarie metallifere in Italia.
Per quanto riguarda l'estrazione di minerali non metalliferi abbiamo ancora fra Toscana, Calabria e Trentino ottime coltivazioni di materiali feldspatici, dei quali siamo ancora i più grandi produttori mondiali e di marmi  (specialmente ma non solo sulle Alpi Apuane). Poi, al salgemma di Saline di Volterra si affiancano circa 5.000 cave di materiali litoidi, marne da cemento, pietrisco, sabbie e ghiaie, tutti materiali usati più o meno nei dintorni, troppo spesso al centro di marcate conflittualità, socio-economiche ed ambientali

Nel settore energetico, chiuse le ultime miniere di lignite di S.Giovanni Valdarno e Pietrafitta, restano i centri estrattivi di vapore endogeno della Toscana, che concorrono a soddisfare circa il 2% del fabbisogno elettrico del paese e quelli di petrolio e gas sparsi dalla Pianura Padana, alla Basilicata, all’Adriatico fino al Mar Ionio, che rispondono a circa il 10% della domanda energetica primaria

Prospettive? Poche, a parte il settore energetico se ci sarà lo sperato sviluppo della geotermia a bassa entalpia per usi di riscaldamento domestico: alto costo del lavoro e bassi quantitativi di minerale estraibili non consentono alle nostre vecchie miniere una competitività internazionale, anche se ogni tanto sui giornali li legge di qualche società che fra Toscana e Sardegna opera dei sondaggi per l'estrazione di oro.

martedì 6 dicembre 2011

Politica, petrolio, antievoluzionismo e cambiamenti climatici

Gli antievoluzionisti continuano imperterriti nelle loro invettive o a proporre ipotesi assurde su vita e geologia, come dimostra anche attualmente il buon Bertolini. Negli Stati Uniti il dibattito contro l'evoluzionismo ha radici profonde nella politica e nell'economia e si muove su un binario parallelo a quello del negazionismo sui cambiamenti climatici. Pertanto i creazionisti hanno un forte supporto da parte della destra politica radicale e dall'industria petrolifera. Al solito dall'America importiamo le cose peggiori, non quelle migliori


L'evoluzione è ormai provata "al di là di ogni ragionevole dubbio”. Però è sottoposta fino dalla sua riscoperta nel XVIII secolo (già nell'antica Grecia qualcuno l'aveva ipitizzata) a un continuo attacco da parte di attivisti religiosi che, si badi bene, da Lamarck in poi non solo non sono mai riusciti a formulare e proporre nessuna teoria alternativa che non fosse risibile (o goffa), ma spesso si limitano a stare sulla difensiva cavillando volta a volta su un particolare che a loro dire smentirebbe l'evoluzionismo, salvo poi mettere da parte il tutto perchè poi le obiezioni scientifiche sono troppo stringenti.

L'antievoluzionismo, dopo aver conosciuto nel XX secolo una lunga serie di sconfitte, anche legali, a partire dal famoso “Processo Scopes" del 1925, permea tuttora la cultura americana.

Ancora nel 1981 in Arkansas gli antievoluzionisti cercarono una via legale per poter insegnare a scuola il creazionismo alla pari dell'evoluzionismo. La situazione è ben descritta da Steven Jay Gould, in uno dei suoi saggi raccolti in “Bravo Brontosauro” (libro del 1991), quando fa notare come molti libri scolastici strizzassero l'occhio all'antievoluzionismo, usando formule come “si ritiene che le trilobiti abbiano vissuto fra 500 e 600 milioni di anni fa” o “si pensa che i Mammut abbiano vagato per la tundra fino a 22.000 anni fa”. Al contrario si usa l'indicativo affermando che “non ci sono più Dodo viventi”, secondo Gould “perchè l'estinzione del Dodo si è infatti verificata entro il lasso di tempo concesso alla Creazione dall'interpretazione letterale della Bibbia e quindi non c'era alcun bisogno di nicchiare”. Ovviamente gli stessi libri che usavano il condizionale a proposito della Storia Naturale usavano l'indicativc a proposito di fisica o chimica. Per chi volesse, qui c'è una bella cronologia del dibattito negli USA.

Qualche tempo fa da una costola dell'antievoluzionismo è nato l'Intelligent Design: alcuni pensatori religiosi, rassegnati perchè da un punto di vista scientifico non possono sussistere alternative all'evoluzionismo, hanno pensato di introdurre un finalismo nella Storia Naturale: l'evoluzione c'è stata sì, ma guidata da qualcosa (non possono esplicitamente parlare di Dio o di un qualsiasi Essere Superiore in quanto questo sarebbe in contrasto con la legislazione americana).

Recentemente i creazionisti, per cercare di risolvere il problema della somiglianza all'interno di alcuni gruppi di animali e alla evoluzione di singole popolazioni, hanno tirato fuori la Baraminologia, con la quale ammettono una qualche evoluzione (dolo che per loro è una degenerazione da un archetipo perfertto): Dio avrebbe creato degli esseri viventi che poi per una non meglio specificata “degenerazione del DNA” avrebbero dato specie diverse. Questi archetipi sarebbero collocabili al livello tassonomico degli ordini. Cioè Dio non ha creato il cavallo o la zebra, ma un essere ancestrale i cui discendenti si sono differenziati in cavalli e zebre. Qualcuno specifica anche che la degenazione del DNA è iniziata “a causa del peccato originale”.

Peccato che anche questa ipotesi sia assurda biologicamente, in quanto geni “nuovi” vengono fuori in continuazione. Per rendersene conto basta cliccare su un motore di ricerca alla voce “de novo genes”. Inutile dire che gli antievoluzionisti cercano di dire che è statisticamente impossibile che succeda ed altre facezie del genere.

Negli ultimi anni l'antievoluzionismo è tornato prepotentemente alla ribalta: numerosi politici sono annoverati nelle sue schiere, compreso il Presidente George Bush Jr, l'attuale Governatore del Texas Rick Perry, e Sarah Palin, candidata repubblicana alla vicepresidenza insieme a Mc Cain, nel tandem sconfitto dall'accoppiata Obama – Biden. Il “Tea Party”, movimento che si distingue per le posizioni ultraliberal, antistataliste e ultrapersonalistiche etc etc, annovera nelle sue file sicuramente più antievoluzionisti che evoluzionisti

Motivazioni politiche sono sicuramente alla base di queste scelte, che – è bene far notare – viaggiano parallelamente con il negazionismo a proposito dei cambiamenti climatici. Il negazionismo sui cambiamenti climatici passa attraverso o la negazione dei cambiamenti climatici (insostenibile geologicamente ma siamo davanti ad antievoluzionisti...) oppure negando qualsiasi apporto antropico al trend attuale (non mi stancherò mai di sgolarmi dicendo che è un mix di circostanze naturali e antropiche).

Una prima motivazione politica è quella di accontentare una parte del proprio elettorato (gli antievoluzionisti sono ovviamente schierati molto a destra). Ma una seconda è prettamente pratica: i politici citati siano originari di Stati come Texas o Alaska in cui la produzione di petrolio è parte preminente dell'economia. Pertanto l'uso della religione serve anche come giustificazione, visto che secondo la Bibbia Dio ha donato la Terra agli uomini per sfruttarla come meglio possono. Non stupisce quindi che l'industria petrolifera finanzi i creazionisti (e, già che ci siamo, negare eventuali cattivi effetti delle emissioni da combustibili fossili è parimenti comodo!).
A questo si aggiunge che in molti cittadini USA la concezione che hanno dell'ambiente è più o meno quella dei cow-boys del XIX secolo.

E in Italia?

Fino a pochi anni fa i creazionisti italiani non erano molto organizzati. Oggi invece la situazione è un po' cambiata.
Organizzati soprattutto nel milanese “comitato antievoluzionista”, animato da Fabrizio Fratus: i membri attivi dell'antidarwinismo in Italia sono un numero esiguo (tra i cattolici meno istruiti probabilmente il creazionismo è molto comune). Si “agitano” moltissimo e godono di amicizie politiche importanti nel centro-destra e anche nella estrema destra (che spesso considera l'evoluzionismo una cosa “di sinistra”) che sponsorizzano spesso i loro dibattiti in cui il contraddittorio langue. 

Anche da noi il legame fra petrolieri e antievoluzionisti è accertato: al proposito si deve ovviamente citare Letizia Moratti.

Vediamo alcuni suoi comportamenti.

Da Ministro della Pubblica Istruzione fece di tutto per togliere l'evoluzione dai programmi scolastici. Inoltre piazzò al CNR un personaggio come Roberto De Mattei.
Da Sindaco di Milano ha al suo attivo l'invito agli antievoluzionisti turchi di Harun Yaya e il sistematico boicottaggio del “Darwin Day”. 

Un curriculum antievoluzionista ineccepibile.

venerdì 2 dicembre 2011

Allora sui rospi del lago di San Ruffino l'avevo detta giusta (ma non mi hanno ringraziato)

Mi riallaccio ad un vecchio post che scrissi il 6 aprile 2010 sullo strano comportamento dei rospi in un lago vicino ai Monti Sibillini: I rospi di un lago marchigiano e il terremoto abruzzese di un anno fa.

Nei giorni precedenti il terremoto dell'Aquila erano spariti dal Lago di San Ruffino i rospi, come era scritto in un articolo: Predicting the unpredictable; evidence of pre-seismic anticipatory behaviour in the common toad, a firma di Rachel Grant e Tim Halliday Journal of Zoology Volume 281, Issue 4,pages 263–271, August 2010.


L'articolo era stato pubblicato on-line il primo di Aprile, così pensai addirittura che fosse un pesce d'aprile (in quella data i blogger, per esempio, si inventano delle cose incredibili...). Il buon Marco addirittura telefonò alla Open University per sincerarsene (è tutto nella discussione del post)

La Grant nell'articolo sosteneva che:
nei giorni immediatamente precedenti il terremoto i maschi di rospo erano praticamente spariti dalla circolazione e hanno tratto la conclusione che gli animali abbiano “sentito” l'avvicinarsi del terremoto.

Io pensai subito che più che aver presagito il terremoto, i rospi erano stati allontanati da variazioni nel chimismo delle acque e scrissi:

ho pensato a delle variazioni nella composizione delle acque provocata da una variazione della portata delle sorgenti, una conseguenza normale di un terremoto. Nel caso abruzzese ce ne sono state veramente di ingenti.

e che

1. l'area del lago era stata colpita in quei giorni da un piccolo sciame sismico
2. ci sono state delle grosse variazioni nella portata e nel chimismo delle sorgenti anche nei giorni precedenti alla scossa principale

Pertanto mi chiesi

se si possa ipotizzare che l'attività dei rospi sia stata disturbata dalle variazioni di composizione e di acidità delle acque del lago conseguenti alle variazioni di queste grandezze che si sono verificate nelle sorgenti. Anche il fatto che nei giorni successivi al terremoto i rospi siano stati praticamente assenti (eccezione fatta per le notti intorno al plenilunio) può far pendere l'ago della bilancia verso variazioni di chimismo delle acque più che su aspetti di previsione del terremoto da parte delle bestiole.

In fondo al post feci un edit:

EDIT: ho scritto una mail alla prof. Grant, chiedendole una sua opinione sulla mia ipotesi e mi ha risposto che potrei aver ragione! La ringrazio per la rapida risposta.

Difatti scrissi alla Grant esponendole la mia idea e mi rispose così e, anzi, le diedi diverse informazioni

Oggi esce un articolo sempre della Grant e di Halliday con altre persone dal titolo Ground Water Chemistry Changes before Major Earthquakes and Possible Effects on Animals

Sono contento di sapere che il mio suggerimento sia stato utile.... mi dispiace solo che non mi abbia ringraziato.....