mercoledì 7 settembre 2011

Le idee sulla formazione delle montagne prima della Tettonica a Zolle

Questa estate guardando pigramente una bancherella di libri usati, ho trovato un vecchio libro di Scienze per la scuola media superiore: “La Terra e le sue ricchezze – corso di geografia generale ed economica per gli Istituti Tecnici commerciali” dei prof. Roberto Almagià ed Elio Migliorini, edito nel 1953. In questo libro vengono esposti tutta una serie di nozioni e concetti di geologia e geografia fisica. La cosa più interessante è che nel libro vengono esposte le teorie sulla formazione delle montagne in un'epoca nella quale a parte pochi studiosi si presumeva sostanzialmente la fissità dei continenti. In un post di parecchio tempo fa parlai di come ci sono voluti alle Scienze della Terra 50 anni da quando Alfred Wegener tirò fuori l'idea della deriva dei continenti alla definitiva affermazione della tettonica a zolle. Mi sono reso cinti che ho omesso all'epoca di illustrare le ipotesi sulle cause della formazione delle montagne che erano state ipotizzate precedentemente. Con questo post intendo colmare la lacuna. 



La Tettonica a Zolle non è una teoria nel senso di “pura ipotesi speculativa”, ma in quello di “formulazione o sistemazione di idee o enunciati volta a spiegare o descrivere una serie di fatti” perchè è un modello capace di inquadrare tutti i fenomeni geologici collegandoli fra di loro.
Il suo successo totale e rapidissimo (come ricordano gli studenti dell'epoca “siamo entrati all'Università che i continenti stavano fermi; quando ne siamo usciti si muovevano”) è appunto dovuto al fatto che fornisce un quadro generale, completo e soddisfacente di tutti i fenomeni geologici attuali e del passato, dai terremoti ai vulcani passando per la formazione di serie sedimentarie ed il metamorfismo. 

La necessità di spiegare in qualche modo la questione esulando dal racconto biblico è nata quando il mondo scientifico accettò la nozione del “tempo profondo” e i gradualisti vinsero la diatriba con i catastrofisti. Questi ultimi, oggi ridotti ormai a un numero esiguissimo come “teste pensanti” hanno comunque un certo seguito fra persone poco informate scientificamente: resistono più o meno impavidamente nelle frange creazionistiche e come ho rimarcato nel post sulle alluvioni del Columbia River vengono regolarmente smentiti dai fatti ma altrettanto eroicamente se ne fregano e tirano a diritto, dimostrando comunque di possedere una cultura geologia – come dire... – approssimativa.
Tutte le ipotesi sulla formazione delle montagne hanno magari avuto un certo successo (anche perchè – insomma – in qualche modo la faccenda andava spiegata) però, come dire, erano parecchio lacunose.

Di fatto Almagià e Migliorini certificano lo “stato dell'arte” della ricerca geologica quando scrivono che anche nelle epoche passate “la formazione delle grandi catene montuose avvenne non attraverso manifestazioni catastrofiche, ma in virtù di movimenti lentissimi prolungati per periodi enormemente lunghi” e che “si ritiene oggi con sicurezza che tali avvenimenti avvennero sotto forma di spinte tangenziali, agenti cioè all'incirca parallelamente alla superficie terrestre”. Però, ed è questo il punto interessante, confermano che “sul meccanismo delle forze orogenetiche siamo pochissimo informati”.
Fra le varie ipotesi sull'origine delle montagne ai tempi in cui i continenti sembravano “fissi” giustamente i due nostri Autori citano la Teoria della contrazione e la teoria dell'isostasia. 

La TEORIA DELLA CONTRAZIONE o della “mela raggrinzita” immagina una crosta rigida e ormai raffreddata mentre l'interno terrestre si sta ancora raffreddando e quindi contraendo.. Per cui la crosta rigida, solidale a quanto le sta sotto, non può più contrarsi e quindi si raggrinzisce. Il modello di riferimento è appunto quello di una mela cotta in cui la buccia si raggrinzisce per la contrazione dell'interno. Il problema fondamentale è che la distribuzione irregolare nel tempo e nello spazio delle catene montuose è un po' difficile a spiegarsi con questo modello, già ormai abbandonato all'epoca. 

La TEORIA ISOSTATICA era quindi quella più in voga. Il concetto è abbastanza semplice: la crosta terrestre è in equilibrio statico con il mantello sottostante (quasi come se vi galleggiasse sopra). I fenomeni di erosione e deposizione spostano masse ingenti di sedimenti per cui le zone erose tenderebbero ad innalzarsi e quelle di deposizione ad abbassarsi. Si formerebbero così pieghe ed anche faglie. Gli autori del libro però obbiettano che “anche questa ipotesi urta con gravi obiezioni sia di indole meccanica che geologica”, in particolare appunto la questione che era già evidente all'epoca che i movimenti prevalenti fossero orizzontali e non verticali.
L'isostasia associata al denudamento di una superficie comunque è talvolta considerata ancora oggi un meccanismo accessorio nella formazione di alcune catene attuali, come la Catena Transantartica (che comunque non è una catena orogenica ma un grande rift) ed è stato richiamato negli ultimi anni da alcuni Autori per spiegare certe caratteristiche dell'Himalaya. 

Poi Almagià e Migliorini accennano ad “altre ipotesi geniali come quella della DERIVA DEI CONTINENTI, formulata dal geologo tedesco A. Wegener”, che “sono pure da accogliersi con grandi riserve specialmente quanto si voglia applicarle a tutta la Terra”.

Tutti i testi geologici dagli anni '20 in poi hanno sempre citato in margine le idee di Wegener, che erano sostenute da una piccola schiera di scienziati, soprattutto attivi nell'emisfero meridionale, come avevo fatto notare in Da Wegner a Wilson. Ma questa citazione spesso celava una certa ironia (un concetto tipo “ah, già... ci sono anche dei pazzi che sostengono che i continenti si muovono...”)

Fermiamoci un attimo sul concetto dei movimenti orizzontali prevalenti perchè la Geologia dell'Appennino settentrionale è stata fondamentale al proposito (Annotazione: in Geologia il termine Appennino settentrionale individua non solo la catena geografica propriamente detta ma anche tutte le fasce collinari fino ed oltre la costa fra Corsica Orientale, Liguria, Emilia – Romagna, Toscana (isole comprese!) e parti settentrionali di Marche e Umbria).
Già negli anni 20 del XX secolo Gustav Steinmann (1856 – 1929) aveva dimostrato che le lave basaltiche delle ofioliti dell'Appennino Settentrionale non potevano essersi formate dov'erano, in quanto sotto di loro non c'erano tracce dei condotti di alimentazione di questi magmi. Pochi anni dopo era praticamente assodato che questa catena fosse composta da diverse unità caratterizzate ciascuna da una sua precisa stratigrafia e poste l'una sopra l'altra. La spiegazione più in voga era quella di Giovanni Merla (1906 – 1984) secondo il quale le falde si erano mosse a causa di movimenti gravitativi dovuti a dislivelli che si erano creati per fenomeni di isostasia. 

 Nell'immagine qui accanto vediamo un esempio in cui appunto la gravità muove queste falde superficiali di copertura della crosta senza interessarla o quasi.
Ma è chiaro che erano tutte ipotesi difficilmente verosimili e solo grazie alla Tettonica a Zolle furono riconosciuti anche in Appennino dei fenomeni di subduzione connessi con lo scontro fra due placche. Rimaneva però il concetto di “geosinclinale” come zona marina in rapido abbassamento e altrettanto rapido riempimento da parte dei sedimenti che poi veniva deformata dagli eventi tettonici, non si sa bene come: le diatribe sulle falde liguridi che venivano “da Ovest” oppure “da Est” me le ricordo bene anche io!!!. Alla fine degli anni '70 sono arrivati i “prismi di accrezione”, applicati finalmente all'Appennino nel fondamentale articolo del 1984 di Benedetta Treves “mountain belts as orogenic prisms: the example of Northern Apennines” apparso sulla rivista “Ofioliti” . Così anche l'Appennino Settentrionale è diventato un orogene “normale 

Quindi questo libro è interessante perchè è una testimonianza della geologia “ante – Wilson” e fa capire come mai una idea così rivoluzionaria come la tettonica a zolle abbia potuto affermarsi così rapidamente in tutta la comunità scientifica: la sua “bellezza” non in senso estetico ma nel saper agilmente spiegare tutto e l'inadeguatezza di quanto ipotizzato precedentemente.

1 commento:

Fioba ha detto...

La grande e simpaticissima Benedetta..... ricordi di facoltà.

Ciao
Massimo