sabato 29 gennaio 2011

Lo spiaggiamento della balena a San Rossore (Pisa): non è comunemente noto che nei nostri mari vive il secondo animale più grande del mondo

Due giorni fa una balena si è spiaggiata sulla costa di San Rossore, tra la foce dell'Arno e quella del Serchio. Dalle fotografie e dalla logica mi risulta essere una "balenottera comune" (Balaenoptera physalus)
I cetacei si dividono in "odontoceti" (cetacei con i denti, fondamentalmente capodogli, orche e le tante specie di delfini) e "misticeti", le balene con i fanoni. in questi animali non ci sono più i denti, persi durante la loro evoluzione, e hanno acquisito i fanoni che negli embrioni provengono dalle stesse regioni da cui negli altri mammiferi provengono i peli.
Gli spiaggiamenti degli odontoceti sono diversi da quelli dei misticeti. Ne ho parlato a proposito dello spiaggiamento dei capodogli nel Gargano del dicembre 2009.
Lo spiaggiamento di San Rossore è chiaramente quello tipico dei misticeti, un singolo animale che per qualche suo problema fisico finisce sulla spiaggia, forse addirittura trascinato dalla corrente già morto prima di spiaggiarsi. Invece gli odontoceti sono spesso coinvolti in spiaggiamenti di gruppo, probabilmente dovuti al sistema di ecolocazione che anziché “vedere” una spiaggia vede mare aperto per un gioco di riflessioni delle onde acustiche nel mezzo sabbioso

Le uniche balene vere e proprie (appartenenti cioè all'ordine dei misticeti, i cetacei con i fanoni) che abitano stabilmente nel Mediterraneo sono le balenottere comuni.
Le femmine sono leggermente più grandi dei maschi e arrivano fino a quasi 25 metri di lunghezza per una ottantina di tonnellate di peso: oggi solo la balenottera azzurra (Balaenoptera Musculus) può raggiungere dimensioni maggiori.
È quasi incredibile ma vero: nel mare davanti a casa ospitiamo esemplari di quello che è il secondo animale più grande attualmente vivente.

Nuotano isolate o al massimo in gruppetti di non più di 3 individui e si nutrono di gamberetti. Come tutti i mammiferi di grandi dimensioni raggiungono la maturità sessuale piuttosto tardi: in questo caso non prima degli 8 anni di età e questo in un ambiente abbastanza chiuso come il Mediterraneo è un rischio perchè la velocità di recupero della popolazione in caso di una moria di massa sarebbe sicuramente molto lenta. Di sicuro le balenottere tirreniche sono una popolazione distinta rispetto a quelle della stessa specie che vivono nell'Oceano Atlantico: non c'è quindi un grande interscambio genetico tra i due lati dello Stretto di Gibilterra.

Nel 2010 ne sono state osservate molte nel Tirreno nel quadro della consueta campagna estiva a bordo di traghetti commerciali ad opera della Accademia del Leviatano: avvistamenti di balene sono ridiventati “normali” per i traghetti nelle tratte da e per la Sardegna da Genova, Livorno e Civitavecchia: gli amici della Accademia del Leviatano hanno contato quest'anno durante la loro campagna di osservazione a bordo dei traghetti che fanno la spola tra continente e Sardegna quasi 200 avvistamenti. Sembra sia ormai quasi più difficile fare una traversata senza vedere nessuna balena che il contrario, segno che la popolazione si sta riprendendo grazie al miglioramento della situazione ambientale e anche grazie alla istituzione del Santuario dei Cetacei tra Mar Ligure e Alto Tirreno stanno cominciando a venire fuori (anche se sarà bene cominciare ad estenderlo ancora più a sud, almeno fino alla latitudine delle coste meridionali del Lazio.
È molto raro vederle sottocosta, dato che prediligono fondali di almeno 2.000 metri di profondità e si immergono comunemente fino a 400 metri in immersioni che durano un a mezzoretta circa.

I capodogli (Physeter macrocephalus) sono più rari nel Mar Ligure: li troviamo più facilmente nel Tirreno meridionale, nello Jonio e nel Canale di Sicilia.
Nel 2010 ci sono stati anche due avvistamenti eccezionali di balene che non si vedevano nel Mediterraneo da un bel po' di tempo: a maggio una Balena Grigia (Eschrichtius robustus) ha frequentato per un po' di tempo le coste fra Libano e Israele e ad agosto invece è stato il turno di una megattera (Megaptera novaeangliae) che ha nuotato tra la Versilia e il Levante ligure: il 24 è comparsa nelle acque di Viareggio dando il consueto spettacolo a base di salti e piroette classico di questa specie L'animale è parso in ottima salute e ha proseguito il suo viaggio dirigendosi verso il Levante ligure. Il 29 agosto è stata avvistata alle Cinque Terre poi si è diretta verso la Spagna. In base alle informazioni pervenute la sua permanenza nel Mediterraneo è stata di circa 2 mesi.
L'avvistamento di megattere nel Mediterraneo è molto raro (meno di 20 avvistamenti negli utlimi 150 anni). Dal 1995 se ne contano solo 5. Le Megattere vivono in prevalenza lungo le coste e si pensava che appartenesse alla popolazione dell'Atlantico Settentrionale ma le foto scattate evidenziano più somiglianze con la popolazione dell'Atlantico meridionale, una volta gravemente minacciata di estinzione ed ora in ripresa grazie al divieto di caccia. 
La cosa sembrerebbe sorprendente ma la navigazione della Balena Grigia è ancora più sorprendente: ci sono due popolazioni di questa specie: una vive tra l'Alaska e la California (circa 20.000 esemplari) e una, molto più ridotta (200 esemplari) che migra lungo la costa asiatica dalla Kamchatka alla Corea.
Come ha fatto questa balena ad arrivare nel Mediterraneo? C'è chi dice che è passata in Atlantico da nord, approfittando dell'apertura del passaggio a nordovest nell'Artico canadese. 

Tornando al cetaceo spiaggiato a Pisa, verrà trascina a largo e affondato. Proprio mentre sto scrivendo, è stato imbragato con un cavo di acciaio tra il cranio e la parte centrale dell'animale per evitare che durante l'affondamento, e anche in seguito, il cranio si stacchi dal corpo.  Sicuramente è il sistema di smaltimento più economico che in più avrà anche ricadute positive dal punto di vista ecologico e della ricerca scientifica: attorno alla carcassa nascerà una comunità animale che si nutrirà per anni e verrà monitorata con attenzione almeno per un anno e mezzo, dopodichè lo scheletro verrà recuperato. Uno studio già effettuato in altri mari ma non ancora dalle nostre parti.

Noto in calce a tutto questo la solita ridda di voci secondo le quali per esempio la morte è stata causata dall'ingerimento di sacchetti di plastica o genericamente “dall'inquinamento”. Che fosse sofferente o addirittura prossima alla morte era abbastanza evidente (altrimenti non si sarebbe spiaggiata!), ma in assenza di una dichiarazione in merito delle autorità (che immagino debbano accertare le cause del decesso), non mi pare impossibile che molto semplicemente una delle balene che vivono davanti alle nostre coste – indebolita per cause naturali – sia stata trascinata dalle correnti morendo prima o durante lo spiaggiamento.

martedì 18 gennaio 2011

Le variazioni climatiche oloceniche e la loro influenza sulla civiltà umana

Robert W. Kates nel 1984 è stato il primo ricercatore che ha capito l'importanza delle variazioni climatiche nella storia dell'umanità, concetto che specialmente in Italia gli archeologi, tutti di estrazione umanistica e molto dediti fino ad oggi allo studio delle opere d'arte e dei manufatti in genere, molto meno a quello delle ossa e di altri aspetti scientifici della questione, stentano a capire (tranne alcuni esempi illuminati, soprattutto fra i giovani). Secondo questo autore il clima determina alcuni effetti
- effetto principale: rendita ricavata dalla coltivazione e dal bestiame
- effetto secondario: il prezzo della biomassa, regolato dalla sua abbondanza
- effetto terziario: effetto demografico dovuto alla maggiore o minore possibilità di accedere alle riserve di cibo

È quindi evidente che lo storia umana sia stata influenzata moltissimo dalle mutazioni climatiche, specialmente dopo la trasformazione da una economia di cacciatori – raccoglitori a quella dedita ad agricoltura e pastorizia.
David Thornalley, della Cardiff School of Earth and Ocean Sciences, è primo firmatario di un lavoro pubblicato su Science in cui la chiave di queste alternanze climatiche è una situazione particolare della distribuzione della salinità nell'Atlantico settentrionale, che induce brusche fermate alla circolazione termoalina e quindi provoca in Europa fasi fredde e umide, mentre quando la circolazione riprende il clima diventa più caldo e più secco. Per altri la spiegazione sta nelle variazioni a periodo medio dell'attività solare (quindi non quelle undecennali di cui tanto e asproposito si parla oggi).
Tornerò su questo argomento in un prossimo post, perchè ora voglio soffermarmi sulla storia di questi effetti e su alcuni cambiamenti nelle civiltà umane.

L' 8300 AC è il limite convenzionale dell'Olocene. Convenzionale perchè la nostra mente discontinua, con la necessità di classificare rigidamente le cose, ha bisogno di un limite. In realtà la deglaciazione è stata complessa e polifasata, molto influenzata dalla distribuzione delle rotture dentro le varie calotte, quindi trovare un limite esatto è difficile. È stato quindi assegnato questo valore che corrisponde ad un evento importante per l'Europa e cioè la scomparsa definitiva della calotta scandinava. 

Per studiare il clima e la storia dell'Olocene si usa la scala di Blytt – Sernander. Principalmente i due scienziati scandinavi hanno basato questa classificazione sullo studio dei pollini ma questo sistema ha ricevuto ampie conferme dagli studi su avanzamenti e retrocessioni dei fronti dei ghiacciai e sui sedimenti lacustri e fluviali. Suddivide l'Olocene in 6 fasi, di cui l'ultima è quella in cui viviamo anche noi: 


Sostanzialmente durante una fase più calda le fasce climatiche si allargano, con i loro limiti che si spingono verso nord, mentre durante una fase fredda si stringono, spostandosi verso sud. I mutamenti nel clima si riflettono ovviamente sulla vegetazione e sulla fauna, per cui hanno pure condizionato in maniera massiccia l'umanità del mesolitico e del neolitico (ma anche quella più recente). 

Tralasciamo l'inizio e veniamo all'Optimum Climatico Postglaciale (OCP o, in inglese, CPO) che inizia versi il 4200 AC e termina nel 2600 AC: è stato un momento in cui il clima europeo era più caldo di quello attuale e non di poco: 2 o 3 °C alle basse latitudini e fino a 5°C in più alle alte latitudini. La definizione di "optimum" è stata molto discussa perchè se da un lato la Scandinavia ne è stata sicuramente avvantaggiata nell'Europa centro – orientale e mediterranea la diminuzione di piovosità ha causato non pochi problemi alla vita.

Nel 2600 AC invece succede qualcosa di nuovo: dopo migliaia di anni i ghiacciai hanno ricominciato ad avanzare nei monti scandinavi e nelle Alpi. Da allora la situazione è un po' cambiata: dopo 1500 anni di clima costante si assiste ad una alternanza, che continua tuttora, tra cicli più caldi (e in Europa meno piovosi) e più freddi (in Europa meno piovosi), con pesanti riflessi sulla condizione umana: in buona parte delle coste del Mediterraneo la piovosità media si attesta a circa 300 mm/anno, un livello minimo di precipitazioni per una economia basata sulla pastorizia. Una diminuzione di questo valore, anche di poco, comporta gravi rischi per l'approvvigionamento del foraggio per il bestiame, per cui se i valori nei momenti più freschi sono superiori o vicini a questo limite, un calo anche non troppo sostenuto delle precipitazioni si riflette molto gravemente sulle capacità di produrre cibo a sufficienza per tutti. Di fatto questi periodi più caldi hanno provocato delle crisi come quella dell'XII – XI secolo AC che corrisponde al momento in cui i cosiddetti “popoli del mare” tentarono l'invasione dell'Egitto, evidentemente spinti a muoversi dalle loro sedi dalla mancanza di risorse. 

Venendo a tempi più recenti, tra il 1500 e il 1200 AC c'è stata una fase fresca e umida, mentre dal 1200 al 900 le temperature sono state più calde, anche se con temperature inferiori a quelle dell'optimum climatico postglaciale e hanno innescato appunto una grossa crisi alimentare nel Mediterraneo orientale. In Italia tra il XVII e il XII secolo si sviluppa la civiltà delle Terramare: si suppone che queste costruzioni così alte fossero necessarie per difendersi dalle frequenti alluvioni. Il dato interessante è che più o meno la fine di questa civiltà e l'inizio di quella villanoviana si collocano al momento in cui il clima diventa più caldo e più secco. Sarà proprio un caso? 

La sequenza di Blytt-Sernander assegna il I millennio AC alla fase subatlantica in cui si alternano fasi globalmente più calde a fasi più o meno fresche. Nel Mediterraneo ed in Europa in generale si può dire che le fasi calde sono contraddistinte da bassi valori di piovosità e le fasi fredde sono invece più umide.
In particolare il periodo etrusco è stato contrassegnato da un ciclo in 4 fasi: 



Il livello marino: circa 1 metro al di sotto di quello attuale e le temperature: tra i 2 e i 3°C inferiori a quelle attuali.

Vediamo come la formazione dell'Impero Romano sia avvenuta durante una fase in cui la temperatura è aumentata e non di poco: in queste  due carte vediamo:


- un esempio di distribuzione delle fasce climatiche durante un periodo freddo, in cui il clima atlantico, piovoso, si estende molto a sud (nel periodo etrusco il limite fra clima atlantico e clima continentale probabilmente era ancora più ad est, oltre l'Italia) 



- un periodo caldo in cui il clima mediterraneo, caratterizzato da estati secche, si estende molto verso nord, con un evidente calo di piogge nella Francia, per esempio. Il disegno si riferisce proprio alla situazione tra il III secolo AC e il III secolo DC.

Successivamente assistiamo ad una diminuzione della temperatura che perdurerà fino al IX secolo. Un periodo freddo anche per la storia umana, complicato forse anche da eventi eccezionali non dovuti direttamente al clima. 
A questo è seguito il “Periodo Caldo Medievale” che è durato fino all'inziio del XIV secolo, in cui le temperature sono risalite fino a livelli simili a quelli odierni. In quell'epoca i vichinghi tentarono la colonizzazione della Groenlandia, da cui dovettero poi uscire quando le condiziona climatiche sono di nuovo peggiorate. 

Poi all'inizio del XIV secolo è arrivata la "Piccola Era Glaciale": un periodo molto freddo e molto umido, in cui i ghiacciai alpini sono avanzati moltissimo. La fase più acuta è stata alla metà del XVIII secolo. Poi le temperature sono risalite e la Piccola Era Glaciale si è conclusa verso il 1850. Da allora, fatto salvo un piccolo intervallo tra il 1950 e il 1975, le temperature stanno risalendo ai livelli più alti degli ultimi 5000 anni. Ma oggi probabilmente oltre alla Natura e alla circolazione termoalina c'è lo zampino di qualcun altro....

giovedì 13 gennaio 2011

Considerazioni sulla lettera di un lettore: piccola era glaciale e le notizie lette su internet

Un lettore qualche settimana fa mi ha scritto una lettera in cui chiedeva alcune spiegazioni. Gli ho risposto brevemente promettendogli una risposta più articolata. Eccola

Caro Aldo, vorrei discutere con lei, in qualità di vulcanologo, di un argomento della quale non so cosa ne pensi ma ho come il sospetto che El Nino abbia una forte correlazione con l'attività geotermica oltre quella del Sole.
Bufale? Non credo.
Le spiego il perchè:

Curiosamente El Nino ha inizio in una zona della quale si incrociano tre placche tettoniche (Pacifica ad ovest; Nazca a sud; Cocos a nord). Si tratta di un'area di intenso vulcanismo sottomarino, in quanto l'incrocio di una o più placche sproffondando l'una sotto si essa causa la formazione di catene montuose e anche episodi di attività vulcanica,come ne un lampante esempio la Cintura di Fuoco del Pacifico.
Come confermato dai dati certi la Piccola Era Glaciale è cominciata nel 1300 e conclusa ufficialmente nel 1850, come c'è scritto su wikipedia

In quell'occasione si registrò una drastica diminuzione dell'attività solare,un rallentamento della Corrente Nord Atlantica,e un aumento dell'attività vulcanica,come ufficialmente riconosciuto.
Se l'attività solare era più debole ciò significava che El Nino avrebbe dovuto indebolirsi se connesso solo ad essa ed invece no,forti episodi di El Nino hanno continuato a verificarsi anche durante i Minimi più forti quali Maunder ecc.
1567-1568: forte episodio del El Nino;
1630-1631: forte episodio del El Nino;
1631, Etiopia, ricostruzione di una serie di terremoti distribuiti su diversi mesi che portano alla distruzione di diverse città e a numerosissime vittime (le cifre esatte oscillano da 5.000 nello Yemen a 50 nella città di Waraba), avviene anche un'eruzione vulcanica visibile anche dalle frontiere dell'Egitto;
1641: forte episodio del El Nino;
1661: si registra un episodio molto forte del El Nino;
694-1695: si registra un episodio di El Nino molto forte;
1715-1716, forte episodio del El Nino;
1782-1784, episodio Molto Forte del El Nino;
1790-1793, episodio Molto Forte del El Nino;
1803-1804, forte episodio del El Nino;
1827-1828, episodio forte del El Nino;
1832-1833, episodio forte del El Nino;
1844-1846, episodio molto forte del El Nino;
Se l'attività solare era debole,ma durante la Piccola ERa Glaciale si è verificato un aumento dell'attività vulcanica,possibile che incrementando quella sottomarina abbia contribuitoa generare quegli intensi episodi di El Nino?

Analizziamo ora quanto ci dice Alex. Innanzitutto smentisco di essere un vulcanologo, anche se in fatto di vulcani ho la presunzione di saperne molto di più dell'italiano medio.
El Nino ha inizio in una zona della quale si incrociano tre placche tettoniche. Questa è un'area di intenso vulcanismo sottomarino, in quanto l'incrocio di una o più placche sprofondando l'una sotto si essa causa la formazione di catene montuose e anche episodi di attività vulcanica, come ne è un lampante esempio la Cintura di Fuoco del Pacifico.

Di giunzioni triple ce ne sono davvero tante, come anche di sistemi arco – fossa e quindi sinceramente non riesco a vedere un nesso, non essendo nessun altra giunzione tripla collegabile all'origine di particolari fenomeni meteorologici... volendo da quelle parti ci sarebbe anche il punto caldo delle Galapagos, ma – al solito – non è l'unico punto caldo sulla superficie terrestre.
Direi quindi che la presenza più importante in quest'area ai fini climatici sia l'Equatore.
Non si può escludere invece che la cordigliera andina abbia una qualche funzione nella situazione meteo: che la distribuzione delle masse continentali e delle catene montuose abbia influenze sul clima è cosa assodata, basta vedere i deserti a nord dell'Himalaya causati proprio dalla presenza della grande catena montuosa. Ma torniamo alla ENSO (El Nino Southern Oscillation): El Nino e la Nina sono fenomeni che non ho mai approfondito (bisogna che lo faccia prima o poi). Da quanto ne so il loro motore fondamentale sta nelle variazioni di temperatura delle acque del Pacifico e non riesco proprio a trovare meccanismi diversi da quello dell'energia del Sole per alimentarle: terremoti o vulcani che scaldano o raffreddano le acque di un oceano intero è una cosa da fantascienza.

Che i cicli solari possano influenzare la ENSO mi appare cosa normale: alla fine il motore di questi fenomeni è il calore e probabilmente in un periodo in cui la radiazione solare è più forte ci potranno essere più episodi del genere rispetto a una fase di stanca della nostra stella come durante la piccola era glaciale, ma non vedo proprio un nesso con la tettonica a zolle se non appunto le complicazioni nella circolazione delle masse d'aria indotte dalla presenza o meno di catene montuose e di masse continentali. Anche durante la piccola era glaciale, epoca in cui il ciclo solare era pur sempre attivo, sia pure in fase più debole, tutti gli episodi di El Nino documentati (dal 1610, quindi prima del momento più acuto della crisi) sono chiaramente correlabili con i massimi solari. A qualche parte avevo i grafici che lo provsavano ma ora non riesco a trovarli... mea culpa...

Come confermato dai dati certi la Piccola Era Glaciale è cominciata nel 1300 e conclusa ufficialmente nel 1850.
In quell'occasione si registrò una drastica diminuzione dell'attività solare,un rallentamento della Corrente Nord Atlantica ,e un aumento dell'attività vulcanica, come ufficialmente riconosciuto.

Mi chiedo “da chi” sia ufficialmente riconosciuto che ci sia stato un aumento dell'attività vulcanica. Non certo dai database sulla attività vulcanica che comunque hanno diverse lacune in quanto, come ho già avuto occasione di dire altre volte, non si sa nemmeno quanti vulcani siano attivi per esempio nella zona andina. Andando poi a fondo si capisce che è la solita wikipediata: si fa semplicemente riferimento ad un articolo pubblicato su Science 30 anni fa. Sono andato in biblioteca a cercarlo e vi viene presentata una modellizzazione numerica fatta con software, hardware e conoscenze dell'epoca. (EDIT: LA PAGINA NEL FRATTEMPO È CAMBIATA E NON PORTA PIÙ QUESTA VERSIONE) Tra le varie simulazioni eseguite il trend della distribuzione delle variazioni di temperatura si spiega meglio tramite la presenza di ceneri vulcaniche in atmosfera che in base ad altri fenomeni, come la minore radiazione solare. Già questa conclusione dimostra che il modello utilizzato non era, diciamo così, perfetto.
Tra l'altro una o più eruzioni contemporanee, per riuscire a influenzare il clima per 500 anni, devono essere tante e si devono ripetere a ritmo incessante, con la formazione di caldere di grandi dimensioni: non ci sono proprio evidenze di questo.
In realtà la piccola era glaciale tra il XIV e il XIX secolo DC ha avuto caratteristiche simili a quella avvenuta tra il IX e il IV secolo AC. Quella invece tra il VI e il IX secolo BC potrebbe essere stata un po' diversa.

E veniamo all'ultima piccola era glaciale, che cominciò nel 1315, con 5 anni particolarmente piovosi.
Su quanto detto dal lettore non capisco il riferimento alla “corrente nordatlantica”: sarà la corrente del Golfo oppure tutto il sistema della circolazione termoalina? Di fatto la piccola era glaciale ha comportato un grave peggioramento climatico nei mari a largo dell'Europa, soprattutto a causa dell'aumento delle tempeste. Ma questo non comporta modificazioni delle correnti, fenomeno comunque da non escludere nel periodo.

Dopodichè la pagina di wikipedia resta sul vago sulle cause, quindi non è così categorica come vorrebbe il lettore (la pagina l'ho salvata prima che venga eventualmente cambiata e la tengo a disposizione di chiunque la volesse).

Quanto alla attività sismica, trovo abbastanza singolare focalizzare l'attenzione su una serie di terremoti particolarmente violenti tra Etiopia e Yemen, zona in cui c'è, per la cronaca, una giunzione tripla proprio dentro il golfo di Aden. Tra l'altro nell'Afar si registrano eruzioni vulcaniche quasi tutti gli anni. Inoltre per osservare una oscillazione nel tasso di attività sismica ci sono ben altre zone da prendere in considerazione, quali la cintura di fuoco e il complesso sistema che va dall'Indonesia alla Nuova Zelanda.

Quanto al rapporto fra clima e tettonica, ci sarebbe quasi da scrivere un post al proprosito, in quanto alcuni esempi dimostrano l'esatto contrario: è il clima ad influenzare spesso la tettonica e non viceversa. Faccio alcuni esempi molto rapidi:
- secondo un recente lavoro pubblicato da Panza, Peresan e Zucco su “Terra Nova”, sarebbe osservabile in diverse parti del mondo un trend di stagionalità sismica, con terremoti meno frequenti durante l'inverno che in estate dove fra le due stagioni c'è una grande differenza nella estensione di nevi e ghiacci
- molti geofisici sostengono che la scarsa sismicità dell'Antartide sia dovuta proprio alla copertura glaciale, mentre proprio la deglaciazione sarebbe alla base di forti fenomeni sismici in Scandinavia (ne ho parlato 3 anni fa in questo post) ed è stata recentemente proposta come causa per i terremoti, anche molto forti, dell'area di New Madrid, in pieno entroterra americano (teoricamente molto stabile da un punto di vista tettonico), posta fra Illinois, Indiana, Ohio e Kentucky
- nell'area Himalayana sono stati proposti meccanismi che prevedono un controllo diretto del clima sulla tettonica, ma si tratta di questioni molto particolari con complessi legami fra precipitazioni, erosione e movimenti di blocchi crustali
- una relazione con il clima è stata anche ipotizzata per il terremoto di Haiti di un anno fa: c'è chi sostiene che il campo di sforzo lungo la faglia responsabile del sisma sia stato squilibrata a causa di una serie di uragani molto violenti avvenuti nelle ultime stagioni, che avrebbero redistribuito una ingente quantità

Purtroppo questo post è un po' figlio del famoso “vizio” dell'”ipse dixit”. Solo che nel medioevo e nel primo rinascimento ci si riferiva ad Aristotele. Poi in tempi recenti siamo passati attraverso “l'hanno detto in TV”, fino all'odierno “l'hanno detto su internet” (e specialmente su wikipedia, che può servire ad orientare ma spesso è molto imprecisa: le cose lette lì hanno sempre bisogno di una conferma).
Vorrei una maggiore attenzione nei confronti della realtà e meno voli pindarici, un rischio che corre specialmente chi come Alex è più curioso e/o entusiasta (e per questo è involontariamente quanto facilmente preda di conclusioni rapide, drastiche e sommarie, purtroppo spesso errate): sappiate pesare quello che leggete o sentite. Alex nella sua voglia di sapere (cosa bellissima, lo invito a proseguire!) non si accorge - probabilmente perchè non ha ancora le conoscenze necessarie - della evidente debolezza delle conclusioni indicate nell'articolo citato da wikipedia e trasforma in certezze delle ipotesi che la stessa wiki presenta proprio come ipotesi, usando il condizionale, sullo stesso. 
Con la chiosa finale che tutti possono sbagliare, anche Piero Angela, anche io (e quando me ne accorgo rettifico subito: mi chiedo quante volte non me ne sono accorto....).

E ricordatevi che su Internet o in TV non ci si FORMA, ma ci si INFORMA: ci si forma soltanto sui libri, come continuo imperterrito a fare io: senza i libri che ho letto negli ultimi 5 anni – per esempio – non sarei stato in grado di scrivere questo post perchè non avrei “capito” le INFORMAZIONI che ho trovato su internet. Comunque le migliori informazioni le puoi trovare non su giornali generalisti, ma su newsletter scientifiche oppure leggendo alcuni blog come per esempio per le cose di cui mi occupo io, oltre (evidentemente!) a Scienzeedintorni, ci possono essere leucophaea, olelog, eruptions, clastic detritus ed altri linkati in quei blog.

Alex, continua a studiare che fai benissimo! Accetta comunque questo consiglio: la lettura di qualche libro divulgativo scientifico è molto più utile che studiare su internet. l'importante è saper scegliere i libri. Ti consiglio per esempio quelli di "la bibilioteca di Le Scienze". Grazie a quei libri potrai "apprezzare" e "capire" meglio quello che noi blogger scriviamo. 








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martedì 11 gennaio 2011

La rapida scomparsa del metano fuoriuscito nel disastro del golfo del Messico e le conseguenze sulla paleoclimatologia

Voglio incominciare l'anno con una buona (e assolutamente sorprendente) notizia che arriva dal Golfo del Messico, dopo il disastro della Deepwater Horizon (di cui non ho voluto occuparmi "in diretta") che il 20 aprile 2010 esplose dando vita ad un lungo periodo in cui petrolio e metano in pressione si sono riversati nell'oceano, con le conseguenze che tutti conosciamo sulla fauna di quell'area, sia marina che costiera.

Quello che appare invece incredibile è che appena 4 mesi dopo, almeno il metano non era più un problema. Sono riuscito a leggere l'anteprima di un articolo che sta per uscire su Science e che parla di questo.

Per chi non lo sapesse preciso che è normale che nei giacimenti petroliferi ci sia anche del gas (soprattutto metano). Il giacimento interessato quindi ha rilasciato sia il liquido che il gas.

L'indagine è stata condotta per conto della NOAA, la National Oceanic and Atmospheric Administration, che è un po' la NASA dell'aria e dell'acqua da un gruppo piuttosto esteso di ricercatori delle Università di California e Texas i quali, già alla fine di agosto hanno trovato dei valori di metano nell'oceano praticamente normali

La cosa ovviamente ha molto sorpreso il team perchè soltanto a Giugno la quantità di metano presente nell'acqua era addirittura mediamente 100.000 volte superiore a quella normale. Le misure provenivano da un reticolo di oltre 200 stazioni estesa su oltre 2 milioni di kilometri quadrati di mare e quindi l'indagine è da classificare come “estremamente significativa”. Venivano raccolti dati sulla concentrazione di metano ed ossigeno disciolti nelle acque, tasso di ossidazione del metano e sulla popolazione batterica

In base alle previsioni il metano rilasciato dalla Deepwater Horizon avrebbe dovuto persistere per anni e invece non è stato così: una delle grandi paure era che si riversasse in atmosfera, cosa questa molto temuta anche per le grandi qualità di gas – serra del metano.

Invece non risulta un grande passaggio di gas dall'acqua all'aria e a questo punto c'è da capire come possa succedere che il metano “sparisca” in un tempo talmente ristretto come quello rilevato dagli studiosi. Non certo perchè viene bruciato da fenomeni di combustione... e allora?
L'unica soluzione possibile attribuisce il merito di questo pronto disinquinamento a un gruppo di batteri molto particolari, i metanofili, quelli che per il loro metabolismo usano il metano. Probabilmente presenti in massa nelle prime fasi della vita sulla Terra ora hanno una importanza molto minore. Si trovano ovunque, non solo in zone prive di ossigeno. Le acque profonde oceaniche sono uno dei loro ambienti ideali.

Quindi la spiegazione migliore del fenomeno è che la grande quantità di metano abbia innescato un boom improvviso di batteri metanofili, i quali sono stati estremamente efficienti perchè distruggere in un tempo così breve 200.000 tonnellate di gas (che hanno continuato a riversarsi in mare dal 20 aprile al 15 luglio (praticamente per 3 mesi) non era certo un “compito facile”...
In buona sostanza a giugno si era formato nell'oceano uno strato di acqua con altissime percentuali di metano. Tutto questo alla fine di agosto non c'era più, mentre era molto più elevata del normale la presenza di batteri metanofili.

Lo studio oltre ad essere una ricerca importante per capire l'evoluzione dell'inquinamento nel Golfo del Messico, è stata anche una occasione unica per capire cosa succede nel breve e nel medio termine in caso di rilascio di gas idrati dal fondo oceanico, un fenomeno molto temuto soprattutto a livello climatico per le sue implicazioni nella composizione dell'atmosfera, in particolare in quella dei cosiddetti gas – serra.

I gas idrati, considerati una potenziale fonte di idrocarburi gassosi, sono una mescolanza di acqua e idrocarburi leggeri (quindi soprattutto metano) che per formarsi hanno bisogno di temperature prossime a 0°C e di elevati valori di pressione idrostatica e concentrazione del gas. Queste caratteristiche ambientali si possono trovare soprattutto nei fondi oceanici ma anche nel permafrost, il suolo completamente ghiacciato delle zone artiche. Preoccupano i climatologi soprattutto i gas idrati contenuti nel permafrost, in quanto il riscaldamento globale in atto, molto percepito dai suoli delle alte latitudini, potrebbe rilasciare in atmosfera una considerevole quantità di metano, notoriamente uno dei gas – serra più efficienti.
Anche alcuni episodi di riscaldamento dell'ultimo milione di anni sono stati collegati ad improvvisi rilasci di metano da parte o degli oceani o del permafrost.
Vediamo dunque che secondo questa indagine le improvvise venute di gas metano dal fondo oceanico sono meno probabili come causa di rilascio in atmosfera di metano e quindi che difficilmente possono provocare ripercussioni climatiche di una certa portata. A questo punto tocca evidentemente spiegare in maniera diversa gli aumenti della concentrazione di metano associati alle fasi di alta temperatura globale, considerando quindi una maggiore importanza per il metano contenuto nel permafrost.