martedì 30 marzo 2010

Gli USA e le scorie nucleari: un problema ancora da risolvere

Mi riallaccio al post che ho scritto poco tempo fa sul caso di Yucca Mountain, il sito Usa prescelto come deposito delle scorie nucleari, perchè ci sono delle novità.

Come ho già detto, non sarei “pregiudizialmente contrario” al nucleare, ma solo ed esclusivamente se si trova soluzione al problema delle scorie. In effetti le ricerche sono tese a trovare la “nuova generazione” di impianti nucleari che andrebbe definita così: nuovi reattori che sfruttino un combustibile diverso per il quale venga approntata una nuova filiera con il risultato di avere scorie meno pericolose e, soprattutto, riprocessabili e che non costringano a stoccare materiale che rimane altamente radioattivo per centinaia di migliaia di anni.

Innanzitutto Barack Obama ha dichiarato di voler ricominciare la costruzione di centrali nucleari, spiazzando un po' gli antinuclearisti italiani, che non l'hanno presa molto bene.
C'è però una significativa differenza fra il caso americano e la nostra italietta nella quale si parla di nucleare senza accennare da parte dei proponenti al problema delle scorie. In USA la questione è fondamentale e addirittura è l'unico punto in cui nuclearisti e antinuclearisti di oltreoceano sono completamente d'accordo fra di loro, il che è tutto dire...

Veniamo al punto. Obama avrebbe anche deciso di chiudere definitivamente il progetto Yucca Mountain che nel caso è stato veramente uno spreco colossale di risorse (10 miliardi di $ fino ad oggi, più altri 200 mln previsti per il 2010). Le perplessità sulla reale sicurezza geologica dell'area probabilmente sono state prese in considerazione più della “naturale” opposizione degli abitanti “vicini” (le virgolette sono d'obbligo, confrontandoci con la nostra situazione: il luogo “civile” più vicino è Beatty, 1500 abitanti a quasi 50 km di distanza. Segue Indian Springs, 1300 abitanti, che dista circa il doppio. Las Vegas è a 150 km...).

La questione delle scorie rimane aperta e l'amministrazione presidenziale ha annunciato che se ne occuperà un comitato di cui faranno parte addirittura figure storiche sia democratiche che repubblicane del National Security Counsil, il consiglio per la sicurezza nazionale, il principale organo utilizzato dal Presidente per esaminare la sicurezza nazionale e le principali questioni di politica estera.
Il livello dei componenti della commissione è quindi una significativa dimostrazione di quale importanza viene data al problema dall'amministrazione americana. Le conclusioni dovrebbero arrivare entro l'autunno 2011.

Intanto sembra che al Congresso verrò presentata una mozione bi-partizan in cui verrà chiesto di continuare per adesso i lavori a Yucca Mountain.

Il problema da risolvere è che in questo momento ci sono 90.000 tonnellate di scorie sparse per il Paese (che aumentano al ritmo di 2.000 ogni anno) e tenere tutti questi siti aperti non è più una opzione percorribile.

Oltretutto i fusti in cui viene stoccato il materiale sono garantiti per 90 anni e quindi in qualche modo o la loro sicurezza verrà estesa o fra qualche decina di anni si porrà il problema di cosa farne.

Complessivamente in tutto i siti con depositi di scorie radioattive negli USA sono un centinaio, di cui una buona parte è a Hartford, nello stato di Washington, dove più che per il civile c'è stata una grande attività per la produzione di armi nucleari. Lì le scorie sono state sepolte nel terreno con un sistema di smaltimento poco sicuro: erano stati immersi nel petrolio, mentre adesso è prevista la loro vetrificazione. Pertanto dovranno essere riprocessate pure scorie vecchie di 50 anni e oltre.

Per dare un'idea delle dimensioni di quest'area, la sua superficie è 1500 kmq (per un raffronto, l'Isola d'Elba è 225 Kmq...)

Nel caso, altamente probabile, che il progetto Yucca Mountain venga fermato, si aprirà il dibattito su un suo uso, anche perchè ci sono migliaia di posti di lavoro in ballo. E la cosa, in pieno deserto, non è facile....

per quanto riguarda l'Italia, appare quindi sempre più urgente capire quale sarà il destino delle scorie provenienti dalle nuove centrali da costruire, quante ce ne sono di vecchie e dove sono andate quelle che non sono più nei vecchi siti provvisori di stoccaggio (ma in Italia spesso “provvisorio” diventa “definitivo”). Spero che evitino di farlo in una miniera di sale in Sicilia:i tedeschi lo hanno fatto, ma bisogna considerare sia lo spessore molto maggiore delle evaporiti permiane dello Zechstein sia la calma piatta della tettonica della zona.


Da ultimo do una notizia che mi aveva sconvolto quando l'ho saputa: una persona sicuramente attendibile mi ha detto che aveva sentito parlare del progetto di un sito di stoccaggio di scorie nucleari in una miniera di sale in Sicilia. Ne conclusi che probabilmente qualcuno aveva visto i siti di stoccaggio tedeschi nelle evaporiti permiane dello Zechstein, che però sono molto più spesse e soprattutto in una zona tettonicamente molto calma.

Ho effettuato delle sommarie ricerche in rete e gira la voce che, purtroppo, non solo hanno intenzione di farlo, ma, lo avrebbero già fatto da almeno una quindicina d'anni, perlomeno nella miniera di Pasquasia (Enna)
Ne parlano siti autorevoli, ma tutto quello che scrivo qui viene scritto con il beneficio del dubbio visto che le autorità negano il tutto

In questa zona nel 1992 sarebbe stata chiusa improvvisamente una importante miniera di zolfo per crearvici una discarica di scorie radioattive di basso e medio livello. Si mormora pure di un incidente con dispersione di Cesio.
In una pubblicazione la Provincia di Enna smentisce tutto. Però basterebbe una visita al sito per chiudere il cerchio, visita che sembra sia stata impedita.

Se il condizionale si trasformasse in un indicativo non avrei parole...
spero non sia vero...

lunedì 29 marzo 2010

Finalmente alla ribalta il più grande fra i vulcani sommersi nel Tirreno, il Monte Marsili

Oggi è una grande giornata per la vulcanologia italiana: finalmente il grande pubblico, apparentemente distratto dalle vicende elettorali, ha scoperto l'esistenza del Monte Marsili, il vulcano gigante del Tirreno sudorientale. Tanti sono i siti che oggi ne parlano, spesso con un copia - incolla dell'intervista di Enzo Boschi sul Corriere della Sera, che ho trovato grazie alla segnalazione di un lettore, PiT e che ha scatenato il putiferio. 

In realtà, salvo poche cose, Boschi descrive fatti che erano stati già appurati nel 2006, ma la novità è che stavolta proclama davvero a sua volta la necessità di un'attento monitoraggio del vulcano. Resta comunque ampiamente giustificata la richiesta di attenzione.
Io avevo già parlato del monte Marsili due anni fa in questo post, nel quale segnalavo la necessità di un servizio di sorveglianza di base anche su questo vulcano, per il potenziale rischio tsunami che gli si può associare, visto che l'unica volta che l'INGV lo ha monitorato dava come minimo segni di grande vitalità.
La cosa giunge nuova: solo nello scorso novembre il Dr. Boris Behncke della sede INGV di Catania, è stato ospitato da Erik Kemetti nel suo eccellente blog Eruptions, dove ha risposto a numerose domande sui vulcani italiani.
La mia domanda era sul perchè questo vulcano era così sconosciuto (lo stesso Behncke cita appena 3 lavori in materia). Riassumendo le sue parole lo scienziato gentilmente mi rispose che non era vero che il Marsili era ignorato, anche se era d'accordo sul fatto che ha ricevuto fino ad oggi poca attenzione e che comunque dalla missione del 2006 (quella citata nel mio post precedente, ndr) si vedeva che il vulcano, se non in eruzione, era quantomeno da considerarsi attivo.
Però, scopo dell'INGV è sorvegliare il rischio vulcanico a scopi di protezione civile (che garantisce una grossa quota dei finanziamenti dell'istituto).  E tra tutti i vulcani davvero pericolosi in Italia (niente a che vedere con esempi mostruosi come Vesuvio, Campi Flegrei, Vulcano, e forse anche i Colli Albani), non si può considerare il Marsil una priorità, anche se lo trovava un interessantissimo oggetto di studio.
Troverete qui tutte le domande e le risposte di Behncke

Questo solo a novembre scorso. Adesso la situazione è cambiata.Vediamo perchè.

L'INGV ha integralmente costruito in casa un nuovo sismometro a banda larga adatto a lavorare sul fondo marino, a cui è stato collegato anche un idrofono. Volevo già parlare di questo strumento perchè la tanto bistrattata comunità scientifica italiana è pur sempre capace di fare cose davvero egregie, purtroppo poco pubblicizzate, specialmente se non sfondano in televisione.

A luglio lo strumento è stato provato sul fondo del Tirreno, a oltre 3000 metri di profondità, e poi è stato posto in cima al Marsili, a quota -790. Come nel 2006 il vulcano ha dato segni di vitalità notevoli che purtroppo per la loro debolezza non sono rilevabili dalle troppo distanti stazioni a terra.

In futuro di questi strumenti ne saranno costruiti altri, permanentemente posati sul fondo marino e che trasmetteranno a terra i dati in continuo tramite delle boe trasmettitrici. Sicuramente uno sarà destinato proprio al Marsili.
E veniamo a ieri quando Enzo Boschi, storica figura della sismologia italiana, ha rilasciato una intervista al Corriere della Sera dove segnala diversi problemi che possono venire dal vulcano, sotto il quale è stata definita la presenza di una camera magmatica di rispettabili dimensioni (4 X 2 Km). Non sono tanto i magmi a preoccupare, quanto le precarie condizioni delle pareti dell'edificio, sempre strutturalmente deboli di suo in un vulcano e nel caso pure minacciate dalle tante emissioni idrotermali. Fra i dati della campagna di osservazioni ci sarebbero proprio anche forti segnali di due eventi franosi.

Inutile dire che il rischio frane è direttamente correlato al rischio tsunami. Tutte le isole vulcaniche presentano questo rischio e non solo durante le eruzioni. Anche una grossa parte dell'Etna è franata provocando un violento maremoto parecchi millenni fa. Alcuni massi in posizione strana in Alaska sono stati addebitati a frane avvenute nelle Hawaii.

Poi Boschi prosegue, contraddicendo Behncke (e la realtà dei fatti) quando afferma che il Marsili è da anni un sorvegliato speciale. Non è del tutto vero, anche se, comunque, sapendolo attivo, hanno approfittato per collaudare il sismografo proprio lì, azione che condivido totalmente.

La conclusione è che sono perfettamente d'accordo con Enzo Boschi: il Marsili va monitorato con attenzione, cosa che io sostengo da un bel pezzo: sismicità, analisi delle emissioni, topografia delle vene, flusso di calore.... Certamente la cosa più difficile è capire se da qualche parte ci sia una parete che sta per franare. Però è una cosa urgente. Le probabilità che avvenga un disastro sono estremamente scarse, ma è sempre meglio prepararsi

Comunque non capisco perchè Boschi abbia aspettato tanti mesi a fare queste dichiarazioni, visto che a novembre Behncke aveva escluso la necessità di monitorarl.
Se però questo passo servirà a trovare i soldi per monitorarlo... ben venga!

Aspetto la pagina sul Marsili sul sito dell'INGV!

giovedì 25 marzo 2010

Le grandi estinzioni di massa spiegate con gli espandimenti basaltici

Mi riallaccio al post che avevo scritto giusto un anno fa sull'argomento perchè della vicenda se n'è parlato parecchio negli ultimi giorni.
Le estinzioni di massa hanno sempre messo a dura prova geologi e biologi ed è sempre stata motivo di scontro fra diverse ipotesi e persino negata da alcuni creazionisti che addirittura sostengono che il biblico racconto di Giona si riferisca ad un diplodoco. Il problema fondamentale è che accadimenti simili non possono essere spiegati con il principio dell'attualismo, nel senso che in quei momenti ci sono stati dei fenomeni particolari, non comuni nella storia del nostro pianeta.

ASTEROIDE O VULCANISMO? SI RIAPRE LA QUERELLE. L'estinzione più studiata e dibattuta (anche se non la più violenta) è quella della fine del cretaceo, che ha permesso ai mammiferi di passare al vertice della catena biologica scalzando i dinosauri.
Per spiegarla è stato evocato tutto, dalla mano di Dio a malattie, variazioni climatiche etc etc. Alla fine la competizione darwiniana su queste idee ne ha lasciate in piedi solo due, le “più adatte” a spiegare i motivi della catastrofe: l'asteroide e le eruzioni del Deccan, avvenimenti entrambi che si sono svolti proprio in quel particolare momento
Purtroppo il dibattito è un po' viziato dai preconcetti di chi “crede” (nel pieno senso della parola!) ad una ipotesi piuttosto che all'altra, e non mi riferisco soltanto agli Alvarez, i primi ideatori della teoria dell'asteroide. Come dice anche un mio amico molti “credono” nell'una o nell'altra ipotesi, rifiutando persino di considerare attendibili le possibili prove del campo avverso.
Si comincia con un articolo su Science in cui un pool internazionale di ricercatori in base a dati geochimici, paleontologici e geofisici conferma che la caduta dell'asteroide ha provocato il disastro.
A questi rispondono altri ricercatori capitanati da Michael Prauss dell'Università di Berlino, secondo i quali nei sedimenti texani che hanno esaminato si evidenziano grossi cambiamenti climatici preesistenti all'impatto dell'asteroide. Quanto alla causa, la indicano nelle eruzioni basaltiche che all'epoca stavano formando i trappi del Deccan'.

I PROBLEMI DELLE DUE IPOTESI. L'impatto è sicuramente anteriore al K/T e nessuno può dubitare che il cratere ci sia e abbia un'età quantomeno vicina a quella dell'evento. Ma i sostenitori di questa ipotesi devono affrontare alcune questioni:
- alcune ricerche dimostrerebbero che l'impatto di Chuxchub (si scrive così???) sia avvenuto un po' prima dell'estinzione (c'è chi parla di 300.000 anni prima). Il che è un ostacolo notevoli per chi sostiene una catastrofe biologica immediatamente posteriore allo schianto.

- la fine del Cretaceo è stato un periodo piuttosto difficile per la vita, in particolare per quella marina: il livello dei mari si è innalzato e si sono formati una serie di bacini marini poco profondi in cui la circolazione delle acque era molto difficile, come l'odierno Adriatico. Questo ha avuto delle grosse ripercussioni su tutta la catena biologica delle piattaforme continentali, colpendo per esempio le ammoniti, in grave difficoltà di suo nel Cretaceo Superiore e sicuramente ha diminuito l'area a disposizione degli animali terrestri, segnatamente quella delle zone umide vicine al mare, notoriamente fra le più ricche di vita, almeno prima della colonizzazione umana e delle bonifiche.

- a Gubbio, come avevo già segnalato, nella famosa serie del Bottaccione ci sono due livelli di sedimenti simili a quello corrispondente al K/T e che sono correlati a due AOE (eventi anossici oceanici). 
Entrambi sono coevi a due piccoli picchi di estinzione di specie, cioè a delle estinzioni di massa “minori”, sempre avvenuti nel cretaceo e per la precisione nell'aptiano (“livello Selli”), e al limite cenomaniano – turoniano (“livello Bonarelli”). Sono stati attribuiti a fasi in cui un forte vulcanismo ha pesantemente alterato la composizione dell'atmosfera. Possibile allora che il livello simile, corrispondente al K/T, abbia un'origine diversa?

- Passiamo agli animali: come fa notare sotto pseudonimo un noto geologo su paleofox gli anfibi sono passati indenni e gli Aracnidi, che sono in cima alla piramide alimentare nel "microcosmo", pure. Vista la sensibilità al problema dell'acidità delle acque e degli UV tipica degli anfibi la cosa appare quantomeno contrastante.
Come gli anfibi, sono sopravvissuti coccodrilli e tartarughe acquatiche. Quindi sembra che gli ambienti umidi di fiume siano stati risparmiati, nonostante le piogge acide che sarebbero state innescate dall'impatto.

I sostenitori dell'origine vulcanica devono invece confrontarsi con le sferule e con l'anomalia nell'iridio presenti nei sedimenti dell'epoca. C'è chi sostiene che entrambi i fenomeni possono essere spiegati dalle eruzioni e addirittura i ricercatori canadesi Turgeon e Creaser hanno trovato l'anomalia dell'iridio anche nel “livello Bonarelli”. Quanto alle sferule, le stesse sono eruttate attualmente dal vulcano Piton de la Furnace, un vulcano nell'Oceano Indiano posto dove ora la zolla indiana sta passando sopra al punto del mantello terrestre in cui è situato il pennacchio caldo che 65 milioni di anni fa dette origine ai trappi (all'epoca la crosta dell'India passava proprio sopra quel punto). 
Alti valori di iridio sono stati misurati pure nelle lave del Kilauea, nelle Hawaii, il cui vulcanismo ha un meccanismo di formazione simile a quello dei Trappi.
Poi, aggiungo, siccome il meteorite è cascato davvero, potrebbero anche provenire da quello senza che però sia stato proprio lui ainnescare il disastro.

CONFRONTO FRA LE VARIE ESTINZIONI DI MASSA ALLA RICERCA DI UN DENOMINATORE COMUNE. Per capire l'origine delle estinzioni di massa occorre confrontarle fra loro e capire se c'è un unico comun denominatore. Ed è stato trovato: la formazione contemporanea agli eventi dei LIP (large igneous provinces), espandimenti basaltici improvvisi o quasi come appunto quelli del Deccan,

Nel Permiano medio ci sono tracce di una estinzione generalizzata (estinzione guadalupiana). Contemporaneamente si nota la deposizione di una forte copertura basaltica in quella che oggi è la Cina meridionale, che ha formato la cosiddetta Emei Shan flood basalt province. Queste eruzioni sarebbero avvenute in un mare poco profondo.

La cosiddetta “madre di tutte le estinzioni” è quella alla fine del Permiano. Negli ultimi anni è stata addebitata a un riscaldamento della Terra con l'interruzione della circolazione oceanica o alla emissione di gas dal bacino dello Zechstein, un enorme lago salato che si estendeva tra le attuali Gran Bretagna, Germania Settentrionale e Polonia le cui emissioni di gas idrogenati (cloroformio, tricoloroetilene ed altri), avrebbero avvelenato l'atmosfera; idea a prima vista fantasiosa ma venuta alla luce perchè dei depositi salini hanno davvero emesso questi gas. Però notiamo come alla fine del Permiano ci sono state le eruzioni dei Trappi siberiani, che rappresentano il più grande plateau basaltico conosciuto. Formatisi in un tempo molto ristretto, tra 248 e 250 milioni di anni fa, coprono una superficie di 25 milioni di kmq, cioè 3 volte gli Stati Uniti: è come se uno spessore di 3 metri avesse coperto tutto il globo terrestre. Sotto ai trappi ci sono dei forti spessori di evaporiti, per cui la dispersione in atmosfera di composti venefici come cloroformio e altri alogenati sarebbe stat causata dall'interazione dei magmi con le evaporiti. Quindi si spiegano così e non con rilasci dallo Zechstein i livelli ricchi in questi composti trovati nei sedimenti dell'epoca in diverse parti del mondo.

Anche l'estinzione di fine Triassico è contemporanea all'effusione di grossi espandimenti basaltici, quelli della Provincia Magmatica dell'Atlantico Centrale, precursori dell'apertura dell'Oceano Atlantico. Diffusi tra USA sudorientali, Africa Occidentale e America Meridionale, in Amazzonia i basalti si sono intrusi in una serie di evaporiti

Quanto al K/T i basalti del Deccan, è quasi certo che al di sotto vi siano evaporiti: i magmi hanno tracce di contaminazioni crustali.

Un espandimento basaltico è corrispondente anche al limite Paleocene – Eocene. Nell'occasione le coperture hanno interessato alcune zone attorno all'Atlantico Settentrionale, tra Groenlandia e Gran Bretagna, probabilmente correlato alla apertura di questo braccio oceanico.
In questo caso c'è stata una forte estinzione di foraminiferi bentonici.

LE ESTINZIONI SONO COLLEGATE ALLE LIP?. Da questi dati appare chiaro che tutte le estinzioni di massa almeno dal Permiano in poi coincidono con la formazione di grossi espandimenti basaltici, che sono spesso collegati a evaporiti. Nel caso dell'Emei Shan invece i sali potrebbero direttamente essere quelli dell'acqua marina. 
E' interessante capire l'associazione fra le due condizioni. La soluzione più semplice è che gli espandimenti basaltici arrivano in superficie grazie a zone in cui la crosta è indebolita, e le zone di rift (anche molto vecchie) sono quelle più indicate da questo punto di vista. E nelle zone di rift è facile che ci siano evaporiti.

La correlazione fra espandimenti basaltici ed estinzioni sembrerebbe quindi acclarata, però i sostenitori dell'impatto meteoritico non demordono e anzi nasce una nuova linea di pensiero: un impatto particolarmente forte porterebbe alla formazione di un espandimento basaltico più o meno nella parte opposta della Terra. Un team dell'università dell'Ohio avrebbe trovato infatti un cratere molto grande in Antartide: sarebbe vecchio di 250 milioni di anni e in posizione opposta a quella della Siberia del tempo.

Però non mi pare che 65 milioni di anni fa il Deccan e lo Yucatan fossero in simili condizioni. Allora, potrebbe davvero essere un caso che il meteorite abbia colpito lo Yucatan proprio in corrispondenza o quasi di una estinzione di massa? Bisognerebbe dire che statisticamente sia difficile. Eppure è probabile che sia così.

domenica 21 marzo 2010

Le Scienze della Terra per la rivista "Le Scienze" sono una cosa minore?

Quasi due anni fa ci fu il 40° anniversario della illustre rivista italiana, nata grazie ad una intuizione di un editore intelligente come Carlo Caracciolo e pochi altri e seguita poi da altre consorelle in giro per il mondo,. Per festeggiarlo fu preparato un numero speciale nel quale erano contenuti alcuni articoli (12) "significativi" apparsi sulla rivista.
Segnalai anche io l'iniziativa con un post in cui mi avevo osservato che fra quelli prescelti  non c'era nessun articolo sulle Scienze della Terra. Eppure un articolo come "La deriva dei continenti" di John Tuzo Wilson ci sarebbe stato proprio bene (nel post feci un pò di confusione, chiamandolo "la tettonica a zolle crostali" che invece è il titolo di un articolo successivo ad opera di un altro grande scienziato quale John Fitzgerald Dewey).


Adesso ci risiamo. La rivista presenta una nuova iniziativa editoriale "Beautiful minds. Gli scienziati raccontano la storia della scienza". 20 titoli che spaziano dai geni della antica Grecia a astronomia, fisica, matematica, astrofisica, chimica, informatica, biologia.
Ancora una volta mancano le Scienze della Terra.
Personalmente trovo assolutamente ingiustificata questa assenza. Eppure se  non sono molto antiche (ma l'informatica allora?) le Scienze della Terra hanno ovviamente contribuito più di altre alla scoperta del pianeta su cui viviamo. Dalla diatriba sul significato dei fossili, agli studi di Stenone, alla lotta fra catastrofismo (che gli accoliti del vicepresidente del CNR vorrebbero riportare in auge) e gradualismo culminata con il Principio dell'Attualismo e i "Principles of Geology" di Charles Lyell, per arrivare finalmente ad una teoria unificatrice di tutti i fenomeni geologici come la tettonica a zolle ci sarebbero tantissimi spunti per parlare di grandi scienziati. O no?


Invece in questa iniziativa i lavori si raggruppano in questo modo:

- 6 su fisici (compreso uno sulla teoria delle stringhe, comprensibile solo ad una ristretta fascia di persone)
- 3 ciascuno su scienziati rinascimentali, matematici e biologi
- 2 sugli scienziati della Grecia antica
- 1 ciascuno per medicina, chimica ed informatica

Mi pare evidente che per "Le Scienze" contino solo fisica e matematica.

E questa è la e-mail che ho inviato al direttore del giornale e per conoscenza, alla Società Geologica italiana, alla Federazione delle Associazioni di Scienze della Terra, alla redazione della rivista Geoitalia e alla Società Italiana di Mineralogia e Petrografia

Caro Direttore,
leggo la vostra rivista da oltre 30 anni e molto volentieri ho parlato del quarantennale della rivista dedicandogli un post sul mio blog "Scienzeedintorni", post in cui ho ricordato l'importanza della vostra rivista nella mia formazione e perchè tutt'oggi, nonostante la enorme messe di più che autorevoli informazioni scientifiche che si trovano su internet, considero sempre necessario leggere "Le Scienze".
Nel contempo feci notare nello stesso post quella che mi sembrava essere una lacuna dell'iniziativa: la mancanza fra quelli scelti nella selezione di articoli storici apparsi nella vostra rivista di un lavoro sulle Scienze della Terra.

Adesso appare una Vostra nuova interessante iniziativa editoriale ("Beautiful minds") e noto che - come avvenne in occasione del numero dei 40 anni - le Scienze della Terra non sono assolutamente considerate. Eppure secondo me anche la Geologia e le sue sorelle hanno diritto ad essere considerate delle conquiste per l'umanità. Perchè non parlare di Charles Lyell e la affermazione dei gradualisti contro i catastrofisti? Non pensate che altri pensatori oltre a Darwin hanno combattuto, come fece anche a suo tempo Galileo, per conquistare una visione della realtà del nostro pianeta basata su quello che si vede e non su credenze e superstizioni non scientifiche?Perchè non parlare del cammino che portò 30 anni dopo il libro di Wegener alla formulazione di una "teoria unificatrice" dei vari fenomeni geologici come la Tettonica a Placche?
Non nego certo l'importanza  degli scienziati di cui parlerete nella inziativa, per carità. Annoto solo che c'è una forte disparità di trattamento fra le varie discipline scientifiche.

Sono veramente dispiaciuto per quella che mi sembra una grave lacuna e mi piacerebbe saperne i motivi.

EDIT: RISPOSTA DI MARCO CATTANEO

Oltre al commento del Presidente della Società Geologica Italiana Carlo Doglioni visibile nei commenti al post, mi ha risposto personalmente Marco Cattaneo, direttore di Le Scienze, che mi autorizza a pubblicare la sua risposta. La posto direttamente qui sopra perchè abbia lo stesso spazio della mia domanda.


Caro Carlo (Doglioni, NdR), gentile dr. Piombino,

                                                                            anzitutto permettetemi di segnalarvi che, sebbene abbia la collaborazione di "Le Scienze", l'iniziativa "Beautiful Minds" non ci ha direttamente coinvolti in fase di scelta degli argomenti. Mi era stata chiesta un'opinione, e avevo segnalato alcune mancanze, indicando tra l'altro Wegener come un possibile candidato a sostituire alcuni titoli su cui avevo parecchie perplessità. Ma il mio parere non era vincolante, ovviamente.


Detto questo, sono d'accordo con molte osservazioni. Nel caso del nostro numero "extra" per i quarant'anni, fino all'ultimo avevo tenuto in considerazione un vecchio articolo sulla scoperta delle dorsali oceaniche, che chiudeva il cerchio della tettonica a placche, ma poi abbiamo rinunciando, forse privilegiando qualche Nobel in più. E forse questo è uno dei problemi delle scienze della Terra, che non c'è un Nobel (dico in senso psicologico...), quindi finiscono troppo spesso nelle retrovie. È una mia ipotesi, un'interpretazione.


In ogni caso, non stiamo trascurando la materia sulla rivista, e spero che sapremo continuare a darle l'attenzione che merita.


Un caro saluto
Marco Cattaneo

venerdì 19 marzo 2010

Il vulcanismo della Toscana

Il sottosuolo dell’area di Larderello, dove fin dall'antichità erano noti i soffioni (ora più noti come Geyser) è uno dei più studiati al mondo e la ricerca di fluidi geotermici è ovviamente il fattore scatenante di queste ricerche. Recentemente la produzione di energia geotermoelettrica si è estesa al Monte Amiata.
Apparentemente la cosa può sembrare strana, visto che i geyser sono associati ai vulcani ed in Toscana di vulcani attivi a prima vista non ce ne sono. Ma solo a prima vista, perchè la Toscana è realmente teatro di una intensa attività vulcanica da quasi 8 milioni di anni. I numerosi corpi vulcanici, sia intrusivi che effusivi, inquadrata nella PMT (Provincia Magmatica Toscana) si sono formati in questo periodo e hanno anche rivestito un ruolo particolarmente importante nella storia umana per le mineralizzazioni a loro correlate, già sfruttate in epoca etrusca. Comunque verso il 1282 a Larderello ci sarebbe stata una eruzione vulcano-freatica che avrebbe formato un cratere, ora occupato dal lago Vecchienna.<
Il Monte Amiata è per adesso l'ultimo episodio della serie ed è effettivamente molto recente, dato che la sua attività è databile fra i 300 e i 180 mila anni fa; il calore geotermico che viene sfruttato è quello della sua camera magmatica, ancora a temperatura elevata.

A Larderello i fluidi geotermici si originano da una massa magmatica che circa 3,8 milioni di anni fa si è intrusa a bassa profondità nella crosta, senza arrivare in superficie e che non si è ancora del tutto raffreddata perchè fra essa e la superficie c'è un grosso spessore di argille impermeabili che ha impedito lo scambio termico guidato dall'acqua.

E che ancora il processo che ha portato alla formazione di questi magmi non si è concluso lo dimostrano i dati sul flusso di calore dall’interno della terra, che in Toscana Meridionale raggiunge valori fra i più alti di tutto il globo terrestre. Naturalmente si tratta di un valore medio dell'area che prescinde da quelli, straordinariamente elevati, che contraddistinguono le due aree geotermiche. Questo rivela che al di sotto della parte meridionale della regione il mantello terrestre è molto più vicino alla superficie del normale (circa 25 km) e la crosta è più sottile.

Tolte Gorgona e Pianosa le altre isole dell'Arcipelago Toscano sono di origine magmatica. Capraia in particolare è quello che resta di un grande vulcano attivo quasi 7 milioni di anni fa. Giglio, Montecristo e il Monte Capanne sull'isola d'Elba sono invece magmi solidificatisi all'interno della crosta ed esumati sia per l'erosione che per il cosiddetto “denudamento tettonico”, cioè una estensione della crosta che porta alla luce zone che erano sotto all'area che si è allargata.
Alla PMT sono stati recentemente assegnati anche il Monte Vercelli, una montagna sottomarina 50 km a sud del Giglio e, nel Lazio, il Vulcano della Tolfa, i Monti Cimini qualche altro piccolo centro. Il magmatismo laziale più noto (Bolsena, Colli Albani etc etc) ha prodotti ed origine significativamente diversi da quelli toscani.

I vulcani veri e propri, cioè le manifestazioni documentate di magmatismo subaereo, oltre a Capraia e Amiata, si trovano a Radicofani (ben visibile nella foto), la Tolfa, Torre Alfina, Roccastrada e San Vincenzo. Contrariamente a quelli della provincia laziale quelli toscani non hanno proceduto alla formazione di caldere, se si eccettuano i Monti Cimini. Quindi le eruzioni non hanno avuto l'effetto di svuotare la camera magmatica (che appunto sull'Amiata è ancora calda) e provocare il crollo della crosta sovrastante.

STORIA DEI MAGMI TOSCANI: tutto comincia dopo la collisione continentale tra il blocco sardo-corso e la microplacca Adriatica che ha generato l'Appennino settentrionale. Il primo episodio assimilabile alla PMT è a Sisco, sul “dito” della Corsica ed ha un'età molto antica: quasi 15 milioni di anni. Consiste di rocce un po' strane, i lamproiti,rocce provenienti dal mantellO Non tutti gli Autori sono d'accordo, soprattutto per la differenza di età, ad includere Sisco nella PMT. Generalmente si assiste ad uno spostamento verso Est dell'attività: per esempio 7 milioni di anni fa interessava la parte tirrenica (Capraia, Montecristo, monte Vercelli); 5 milioni di anni fa era all'altezza della costa attuale e 1 milione di anni fa l'attività si è spostata tra la Valdorcia e l'alto Lazio, ben all'interno della Toscana. In pratica hanno seguito a distanza il progradare della catena, che come è noto ha interessato nell'Oligocene le zone attualmente lungo la costa tirrenica e adesso si trova lungo l'attuale spartiacque appenninico.

I PRODOTTI MAGMATICI: i magmi della PMT sono un po' strani. Una buona parte mostra buone affinità con le serie shoshonitiche o calcacaline, tipiche di un ambiente di arco magmatico come il Giappone o le Ande, magmi che si formano nella crosta. Però oltre a questi ci sono altri magmi che raccontano una storia molto diversa: quella di liquidi provenienti dalle profondità del mantello.

Ci sono prove chimiche notevoli in molti apparati che addirittura questi due magmi si siano mescolati. Al Giglio poi si vede come alcuni filoni lamproitici di provenienza mantellica siano ben posteriori alla solidificazione della massa principale, che – a parte i fenomeni di ibridazione –, è un tipico prodotto di fusione parziale piuttosto spinta di una crosta continentale profonda.

INQUADRAMENTO GEOLOGICO: e qui si va sul difficile, non essendoci ancora un accordo generale fra i vari Autori, che seguono due linee di pensiero distinte

Alcuni propendono per un semplice meccanismo di arco – fossa, legato alla subduzione della crosta adriatica sotto quella toscana. E' una soluzione tettonicamente accettabile, anche se non spiega alcune cose, in particolare la mancanza di un vero e proprio bacino di retroarco (che non può essere certo il bacino provenzale, nato ben prima) e la associazione di magmi di anatessi crustale (fusione parziale della crosta) con altri di provenienza mantellica. Lo schema è quello della figura qui accanto.

Inoltre gli ultimi profili sismici hanno evidenziato più che una subduzione della litosfera adriatica sotto quella toscana che questi due settori, di cui quello toscano a “crosta assottigliata” sono piuttosto due zone adiacenti e che la tettonica di superficie è diversa da quella profonda.



Pertanto la soluzione che va per la maggiore adesso è che l'input alla formazione dei magmi della provincia toscana l'abbia dato la risalita del mantello superiore al di sotto della Toscana Meridionale. Questi, molto caldi, hanno a loro volta fuso parti della crosta sovrastante, che quindi hanno formato i prodotti granodioritici o riolitici della maggior parte dei corpi vulcanici toscani.

LA PARTICOLARE COMPOSIZIONE DEL MANTELLO SOTTO LA TOSCANA. I magmi mantellici toscani sono sicuramente a composizione basaltica ma rispetto ai basalti alcalini normali, tipici di zone a crosta sottile che sovrastano una risalita del mantello, hanno delle differenze notevoli nel chimismo, che per certi versi ricorda quello dei magmi crustali. Il fatto viene spiegato con una semplice considerazione tettonica: il mantello toscano è stato interessato per ben due volte in tempi recenti da due piani di subduzione, quello alpino diretto verso Est, a cui si è sommato quello appenninico diretto a ovest. La presenza di questi pacchi di materiale crustale spiega quindi i motivi di questa anomala composizione

martedì 16 marzo 2010

Il Paleocene e i suoi caratteristici carnivori

La repentina scomparsa di molte specie dominanti alla fine del Cretaceo, dovuta o a meteorite dello Yucatan o (molto più probabilmente) alla eruzione dei Trappi del Deccan ha avuto grossi effetti sulla vita sulla terra e nei mari.

Come è noto è stata una estinzione piuttosto selettiva. In mare  sono scomparsi quasi tutti i grandi rettili (ittiosauri, mosasauri, plesiosauri), nonchè ammoniti e belemniti. Sulla terraferma fra gli arcosauri, scomparsi i dinosauri, resistono (almeno in parte) quelli piumati (gli uccelli), e i coccodrilli. Questi ultimi hanno approfittato del fatto che gli ambienti fluviali sono stati quelli meno intaccati dal problema e potrebbe darsi che anche le tartarughe attuali derivino da quelle che all'epoca vivevano in quegli ambienti.

Comunque all'inizio del Paleocene la Terra era sostanzialmente priva di animali di grosse dimensioni. Le testimonianze paleontologiche dimostrano che l'inizio del Paleocene sulla terraferma si contraddistingue per l'originalità delle faune al vertice della catena alimentare: tra l'età dei teropodi e l'avvento dei mammiferi predatori in Eurasia questa "prestigiosa" nicchia ecologica è stata temporaneamente appannaggio di uccelli e coccodrilli.

Cominciamo dai mari. I pesci furono i vincitori assoluti: scomparsi animali nuotatori come ammoniti e belemniti i pesci ossei potettero differenziarsi come fecero gli squali, a loro volta liberatisi dai grandi rettili marini. Proprio nel Paleocene si sono diversificati i principali gruppi adesso esistenti di pesci ossei e di squali. Questi ultimi solo con la comparsa dei cetacei, 20 milioni di anni dopo, hanno trovato dei competitori (curiosamente, le loro forme carnivore di maggiori dimensioni risalgono proprio al periodo in cui sono comparsi i cetacei).

Ma le maggiori sorprese le abbiamo sulla terraferma. Alla fine dell'era mesozoica i mammiferi erano in generale animali di piccole dimensioni, erbivori o al più insettivori. Tra i futuri dominatori della terra e (in parte) dei mari, nessuno era ancora pronto ad assumere il ruolo dei grandi carnivori al vertice della catena alimentare, posto che attualmente ricoprono ad eccezione dei fiumi caldi dove vivono coccodrilli e affini.

I mammiferi placentati euroasiatici infatti hanno impiegato un pò di tempo per evolvere forme carnivore di una certa dimensione. Probabilmente derivano da forme insettivore: il passaggio tra un animale che si nutre di insetti ad uno che su nutre di piccole prede non presenta grosse difficoltà.

Solo in America Meridionale mammiferi carnivori erano ben presenti, ma anziché placentati erano marsupiali che si estinsero decine di milioni di anni dopo, all'arrivo nel continente dei loro più efficenti omologhi placentati nordamericani. Condividevano la posizione con gli "uccelli del terrore", le Phorusrhacidae.

Pertanto nel Paleocene inferiore e medio dei continenti settentrionali troviamo in questa nicchia ecologica forme tanto diverse quanto tipiche di questo periodo
 
E chi erano questi “cattivi” del primo Paleocene di Eurasia e Nordamerica? Coccodrilli e uccelli. I coccodrilli  divennero importanti predatori terrestri, un po' come gli attuali Varani di Komodo (che tuttora predano cervi e suini selvatici). Fra questi Sebecosuchidi e Pristochampdidi dominavano le pianure. I Sebecosuchidi erano predatori attivi. I Pristochampdidi avevano zampe robuste e moto più lunghe dei coccodrilli acquatici. quindi l'andatura era alta e avevano svilupato una attitudine alla corsa.  Secondo alcune ricerche addirittura alcune specie erano capaci di alzarsi sulle zampe posteirori

Oltre all'aver vissuto nei fiumi, è possibile che i coccodrilli debbano la loro sopravvivenza anche alla loro capacità di restare digiuni per molto tempo. Un altro fattore che li ha aiutati è stato il clima, sostanzialmente caldo, del terziario inferiore per cui la loro diffusione all'epoca era abbastanza ampia, fino alle medie latitudini. Il loro declino oltre che per la competizione sulla terraferma dei mammiferi carnivori iniziò presto anche per la progressiva diminuzione delle temperature che si è avuta dall'eocene in poi.

Si spartivano il ruolo di grandi carnivori con degli uccelli, i Diatryamidi che hanno sviluppato quindi una evoluzione convergente con le phorusracidae del Sud America: in Europa c'era il Gastornis, alto fino a 1,75 metri, mentre fra i suoi omologhi americani, anch'essi di rispettabili dimensioni, alla fine del paleocene sarebbe apparso il Diatryma, alto fino a quasi 2 metri e mezzo. 
Strettamente imparentati fra loro, i Diatryamidi si differenziarono quando l'Eurasia si divise dall'America Settentrionale. Sono ancora incerte le relazioni fra questi e gli altri uccelli, anche se taluni studiosi li collegano alle anatre, mentre le Phorusracidae sudamericane sono imparentati con le gru.

Ci sono voluti una decina di milioni di anni ai mammiferi placentati carnivori per conquistare tutti gli ambienti e arrivare a medie dimensioni. I primi furono i Creodonti, fra, cui una specie di successo fu Hyaenodon. Seguì un altro gruppo di carnivori, ungulati, e cioè i Mesoniochidi. 
I coccodrilli terrestri non riuscirono a tenere testa ai nuovi competitori e si estinsero presto. Invece i Diatryamidi sono riusciti a sopravvivere ben oltre l'inizio dell'Eocene, ma comunque non sono sopravvissuti nei periodi successivi.

venerdì 12 marzo 2010

I "miei" libri: Il racconto dell'Antenato

Con questo post inizio una serie di post per parlare dei libri che ho letto, più o meno recentemente e hanno dato un importante contributo alla mia formazione o libri che ho appena finito di leggere.

A causa della continua evoluzione delle conoscenze credo utile citare soprattutto volumi che ho letto negli ultimi 10 anni, anche se mi piacerebbe parlare di alcuni testi che da ragazzo mi hanno molto interessato.

Potrà sembrare strano, ripensandoci, ma il lungo periodo universitario alla fine è quello in cui ho letto meno, perchè probabilmente dopo aver studiato non c'era voglia di leggere libri divulgativi.

La citazione iniziale non può che essere per “Il racconto dell'antenato”, titolo originario “The Ancestor Tale”, pubblicato in Italia da Mondadori nel 2006 (l'originale inglese è del 2004).

Richard Dawkins, nato a Nairobi nel 1941 da famiglia inglese è sicuramente uno dei miei autori preferiti. Curioso come solo uno scienziato può essere è, come molti sanno, il teorico del “gene egoista”: in pratica noi (e le altre forme di vita) non siamo altro che “macchine” costruite dai nostri geni per riprodursi. Una visione un po' estremizzata ma che a me personalmente convince parecchio, visto che la selezione naturale – alla fine – opera proprio sui geni, consentendo (nella visione dawkinsiana) la riproduzione solo ai geni che hanno costruito le “macchine” più adatte

Trovo affascinante il Dawkins naturalista, per la chiarezza, la completezza e la passione con cui scrive (molto meno l'ateo razionalista, non per non esserlo a mia volta, ma perchè non sono interessato all'argomento).

L'impostazione de “il racconto dell'antenato” è semplice: il filo conduttore è un pellegrinaggio in cui, andando a ritroso con gli antenati, a poco a poco ci incontriamo con tutti gli altri viventi, a partire dagli altri Homo (unico caso di creature non attualmente viventi) e dalle scimmie antropomorfe (perchè in Italiano non c'è una denominazione più semplice, come l'inglese “apes”?). Poi vengono le altre scimmie, i lemuri i roditori e via discorrendo

Questo semplice schema si ispira ai “Racconto di Canterbury” di Geoffrey Chaucer, un classico della letteratura inglese, anzi un po' la Divina Commedia britannica. I pellegrini del capolavoro della letteratura inglese parlano delle vicende del loro ambiente sociale, in questo libro i vari animali raccontano delle storie su se stessi e su circostanze a loro connesse come

In questi racconti Dawkins cogliendo a pretesto delle caratteristiche fisiologiche o genetiche di un animale, coglie sempre l'occasione di descrivere e puntualizzare alcuni fenomeni che lo riguardano,, lo fa confrontando fra loro alcuni gruppi, parlando di alcuni organi specifici e, ovviamente, spiegando origine ed evoluzione di alcune forme di vita. Per esempio il “racconto dell'ippopotamo” tratteggia l'evoluzione dei cetacei, quello della talpa marsupiale confronta le convergenze evolutive fra marsupiali e placentati, nil “racconto dell'Artemia” parla di crostacei e pesci che vivono con il dorso in giù e il ventre in alto, in quello dell'Uccello Elefante spiega l'evoluzione dello struzzo e degli altri uccelli non volatori in relazione ai movimenti delle masse continentali tra il giurassico e l'eocene.

Il risultato che forse potrebbe far pensare a delle divagazioni in libertà, è invece logico e gradevolissimo e abbraccia oltre alla biologia anche la geologia e altre discipline scientifiche.

Con “il racconto dell'antenato” Dawkins da divulgatore scientifico ha fatto un grande passo avanti, diventando un romanziere che accompagna gli argomenti più disparati con un sanissimo humour inglese. Dopo una lunga attività di scrittore e divulgatore, contrassegnata da volumi come “il gene egoista” e “l'orologiaio cieco”, il grande biologo infatti ha raggiunto una tale maturazione letteraria da riuscire a scrivere un libro scientifico come se fosse davvero un romanzo, il romanzo della storia della vita, dall'uomo fino alle origini. Per stile, completezza e chiarezza degli argomenti e dovizia di informazioni questo libro è decisamente un capolavoro che rimarrà punto di riferimento nella storia della divulgazione scientifica. Un autentico capolavoro.

La lettura de “il racconto dell'antenato” è sicuramente appassionante e appagante, perchè scritta da un grande esperto, appassionato di quello che scrive e con uno stile chiaro e brillante, anche fantasioso alle volte (attenzione: non certo in QUELLO che scrive – il rigore scientifico è sempre presente – ma COME lo scrive).

E' un libro alla portata di tutti, perchè spiega tutto ed è comprensibile per tutti, come non sempre succede con i libri scientifici, compresi altri volumi dello stesso autore che alle volte pongono qualche difficoltà anche a persone un po' addentro alla materia.

Da ultimo Dawkins si mette a parlare della Canterbury dell'evoluzione: l'origine della vita, nella quale di certezze ce ne sono molto poche. In maniera molto lucida dice la sua, con l'orgoglio di chi è sufficientemente maturo per poter dire “certe cose ancora non si sanno e su altre ci sono dei grossi dubbi”. L'unica cosa sicura è che prima delle cellule c'è stato qualcos'altro in grado di replicarsi.

Dubbi che altri, molto superbamente, non hanno e che pretendono di risolvere il tutto grazie ad un libro scritto oltre 2000 anni fa da dei contadini e pastori, che di scientifico non ha assolutamente niente.

Se volete davvero sapere come sono andate le cose, quindi, leggete “il racconto dell'antenato” e non resterete delusi (creazionisti a parte, ma questo è un caso di mente aprioristicamente e acriticamente dominata da un imprinting religioso)

Annoto da ultimo che questo volume non ha mai preso il suo posto nella libreria: è sempre rimasto sulla scrivania, a portata di mano per qualsiasi evenienza, sia perchè ogni tanto ne rileggo qualche passo a caso, sia perchè è un costante aiuto in diverse mie ricerche.

martedì 9 marzo 2010

I primi dati scientifici sul terremoto cileno

La settimana appena passata è stata decisamente molto intensa da un punto di vista sismico:
Infatti oltre alla inevitabile serie di aftershocks che stanno tempestando tutta la zona interessata dal sisma del 27 febbraio abbiamo avuto molte altre scosse che hanno fatto danni e morti.
Poche ore prima della scossa cilena (fra le cui repliche si annovera anche un “bel” 6.6), un sisma di M 7.0 ha colpito le isole Ryukyu, a sud del Giappone. Giovedì un 6.5 ha colpito le isole Vanuatu, fra Nuova Zelanda e Nuova Guinea, venerdì è stato il turno di Sumatra con un 6.5. Tutti sono avvenuti in pieno oceano e quindi sono stati poco o per niente avvertiti sulla terraferma,come quello di lunedì 8 marzo (M=6.0) alle isole Marianne. Invece sempre ieri una scossa sempre di 6.0 ha colpito la Turchia: la scarsa profondità e la vicinanza di zone abitate ha provocato decine di morti.
Intanto arrivano i primi bilanci scientifici dell'evento del 27 febbraio.

Dopo la conferma che questo è il quinto terremoto più forte mai registrato dalla sismologia, la notizia più dura per la popolazione locale è che è possibile che gli aftershocks durino per anni.
Le scosse di assestamento sono molto forti e molto numerose a causa della terribile forza della scossa principale: in generale più un terremoto è forte, più forti saranno alcune repliche e più a lungo la sequenza durerà.
Attualmente il valore della replica media sta scendendo sotto M=5 (sabato era 5.8, poi 5.5) anche se continuano a manifestarsi scosse di intensità maggiore; come si vede dalla carta è interessata tutta la zona di rottura del 27 febbraio, una stretta fascia costiera lunga 500 km da Valparaiso a Temuco.
Contrariamente ad altri casi come Haiti o Sumatra 2004 l'epicentro della scossa principale è all'interno della zona attiva, mentre nei due casi sopra citati è ad uno degli estremi della fascia dove si collocano le repliche.
Notiamo anche che la zona sismicamente attiva è anche molto ben circoscritta, tranne che nella zona a nord dove, nonostante una forte diradazione della densità delle scosse, si segnalano degli eventi.

E' anche possibile che il  massiccio riequilibrio del campo degli sforzi all'interno della crosta abbia delle conseguenze anche ad una certa distanza e quindi non si può escludere che, come conseguenza collaterale del 27 febbraio, si inneschi attività sismica in zone vicine, anche con scosse di un certo livello.

Questa potrebbe essere la soluzione per comprendere la presenza di queste scosse a nord dall'area principale, la prima delle quali, la più forte, è avvenuta appena circa 9 ore dopo il terremoto di Conception e a quasi 1000 km a nord di Valparaiso. Con una M= 6.3, a sua volta ha attivato una nuova sequenza sismica tra Cile, Argentina e Bolivia. Sono scosse molto più profonde rispetto a quella lungo la costa e la minore densità di repliche è dovuta anche alla energia molto minore di questa "scossa principale".

La carta qui sopra, che mostra le scosse registrate in Sudamerica dal 27 febbraio ad oggi, le  fa vedere entrambe. Ovviamente ad oggi non è dato sapere se ci siano o no connessioni fra le due sequenze. Avevo segnalato un altro caso possibile di collegamento fra due scosse in Indonesia pochi mesi fa. 

Per quanto concerne i movimenti cosismici, sono arrivati i dati sui valori dello spostamento orizzontale (dati GPS) e sono veramente imponenti. Li vediamo sulla cartina accanto: una grossa fetta dell'America meridionale si è spostata verso ovest. A Conception siamo a oltre 3 metri. Allontanadosi dall'epicentro i valori diminuiscono: a Valparaiso poco meno di 30 centimetri, ridotti a 23 a Santiago. A Mendoza, città posta in Argentina a poca distanza dal confine con il Cile, sono circa 10 centimetri, ma la cosa clamorosa è che persino a Buenos Aires, a oltre 1500 km di distanza, è stato registrato uno spostamento verso ovest di quasi 4 centimetri. Stranamente i minimi spostamenti registrati nel Brasile meridionale sono in direzione NW anzichè ESE.
Si nota anche un aumento locale della deformazione nella zona che è stata teatro della sequenza che si è sviluppata al confine fra Cile, Argentina e Bolivia

Per quanto riguarda i movimenti verticali non sono ancora riuscito a sapere nulla. E' probabile che la zona costiera si sia abbassata, come è teoricamente previsto nei terremoti di thrust. In effetti le immagini di zone rimaste allagate dopo lo tsunami farebbero pensare a questo, ma finchè non escono i dati reali questa rimane una semplice supposizione.

Un'altra caratteristica importante è quella delle relazioni fra l'evento del 27 febbraio e gli altri terremoti forti dell'area. Preciso che “forte” è un concetto molto relativo: dobbiamo considerare “deboli” dei terremoti che per esempio in Italia avrebbero fatto parecchia cronaca: dalle nostre parti non si raggiungono tali vette di energia, ma essendo gli ipocentri molto più superficiali finiscono per fare molti più danni. Per parlare di cose recenti, il terremoto di Haiti è stato centinaia di volte più debole, ma essendo superficiale e con una grande città costruita male vicino il bilancio è stato terrificante
Parlando della regione andina i terremoti di riferimento sono quelli avvenuti nel 1960 (il più forte mai registrato, M=9.5)), 1922 (M=8.5), 1906 (M=8.2) e 1985 (M=8.0)
La fascia interessata dall'ultimo evento è segnata in rosso. Si vede chiaramente come, specialmente nella zona più meridionale, l'area colpita in questi giorni era sede di un gap sismico importante che è stato colmato lo scorso mese di febbraio.

Da ultimo una curiosità sulle leggende metropolitane che specialmente da quando c'è Internet fioriscono e si diffondono a velocità incredibile. Avevo già letto la stessa storia a proposito di Haiti. Allora, secondo alcuni personaggi questo terremoto, quello delle Vanuatu e appunto quello di Haiti siano stati provocati dalle forze militari USA che avrebbero sviluppato un'arma micidiale, nel quadro del progetto H.A.A.R.P. (High Frequency Active Auroral Research Program - cioè  ricerche sulla attiva aurorale ad alta frequenza). Tutto questo nasconderebbe un'arma per cambiare il clima sulla terra e provocare terremoti mentre è una oganizzazione  a scopi scientifici per lo studio della ionosfera. Obbiettivamente a prima vista pare strano che queste ricerche sulla ionosfera e sulla magnetosfera siano condotte in prima persona da Esercito e Marina degli Stati Uniti.

Non mi addentro oltre alla questione....

domenica 7 marzo 2010

Il popolamento della Sardegna: dove l'archeologia conferma gli stravolgimenti proposti dalla genetica

Per la mancanza di tracce dirette fino a qualche tempo fa era opinione comune che la colonizzazione umana della Sardegna fosse avvenuta soltanto nel Neolitico Antico, quindi attorno al 6.000 AC.
Qualcuno incominciò a sospettare che le cose non stavano così: i primi dati genetici sugli abitanti di queste isole contrastavano nettamente con quelli paleontologici e/o archeologici (il confine fra paleontologia e archeologia è molto sfumato). I problemi sono stati ben sintetizzati nel 1999 in un articolo di un volume monografico sulla Corsica pubblicato da “Antropologia Contemporanea”, dove Cristofori, Ghionga e Varesi fecero notare che:
1. i dati sul DNA mitocondriale dei Corsi ipotizzavano un singolo episodio di colonizzazione della Corsica avvenuto oltre 14.000 anni fa
2. la colonizzazione della Corsica sarebbe avvenuta dopo quella della Sardegna
3. Sardi e Corsi sono più vicini ai baschi che alle popolazioni delle coste italiane, come se il popolamento fosse venuto da una costa più lontana anziché da quella limitrofa.

Il genoma dei sardi è molto diverso da quello del resto d'Italia e in molti alberi genetici gli italiani continentali risultano addirittura più vicini alle popolazioni indoeuropee medioorientali come gli iraniani che ai sardi. Tra l'altro i sardi hanno delle caratteristiche in comune con i Sami del nordeuropa, che sicuramente sono fra i pochi discendenti diretti abbastanza puri dei cacciatori - raccoglitori.

Grazie alla presenza delle ossidiane del monte Arci lungo tutte le coste tra il Lazio e i Pirenei si sapeva che tra il VI e il IV millennio AC, gli scambi commerciali fra Sardegna e continente sono confermati, ma questo chiaramente non basta a giustificare le somiglianze genetiche.
In realtà, come ho fatto notare due post fa, qualcosa di strano c'era. Presso Macomer negli anni '50 fu ritrovato un piccolo idoletto femminile in pietra basaltica, la cui tipologia si adattava bene a quella di rappresentazioni paleolitiche. A lungo rimase però l'unica traccia per cui fu ritenuto un oggetto molto recente, che però rimandava a tradizioni artistiche molto più antiche.

MOVIMENTI E POSIZIONE ATTUALE DEL MICROCONTINENTE SARDO - CORSO DAL MIOCENE AD OGGI.Il microcontinente sardo – corso si è staccato dal continente europeo nel Miocene (qui potete vedere la cronologia degli avvenimenti). La sua fauna somiglia molto spesso a quella provenzale, pur se milioni di anni di isolamento l'hanno differenziata da quella continentale anche solo per la deriva genetica. Per esempio la trota corsa è leggermente diversa da quella europea e comunque tutt'ora immettendo trote europee nei corsi d'acqua corsi le due popolazioni si incrociano fra di loro. Di esempi del genere ce ne sono diversi, in tutte le classi di animali (e vegetali).
Attualmente la deriva del blocco sardo – corso sembra essersi conclusa. La sua posizione è proprio davanti all'arcipelago toscano, da cui è separato dal Canale di Corsica, che raggiunge una profondità di oltre 500 metri
Se guardiamo la batimetria e supponiamo che la morfologia del fondo non siano molto variata nell'ultimo milione di anni, la terraferma dalla Toscana si estendeva molto più a ovest di adesso e si può arguire che durante i picchi glaciali, con il livello marino più basso di oltre 120 metri, le distanze fossero molto brevi: una decina di km tra la Corsica e la Capraia (probabilmente sempre isolata dalla Toscana ma con una distanza brevissima da compiere per arrivarci), metre più a sud, all'altezza di Pianosa, la distanza era circa doppia. Tutt'oggi è possibile dalla costa toscana vedere la Corsica se non c'è molta foschia sul mare, figuriamoci come potevano sembrare vicine Toscana e Corsica durante i massimi glaciali.

LA FAUNA PLEISTOCENICA SARDO – CORSA. L'estrema vicinanza della terraferma in alcune ristrette fasce temporali è stata un fattore determinante per l'evoluzione delle faune di queste isole: è possibile infatti che si siano verificate migrazioni dalla terraferma verso le isole. Non tutte le specie animali sono adatte: Il “profilo” giusto del migratore che attraversa uno stretto braccio di mare è quello di un bravo nuotatore che vive in branco. Per colonizzare un'isola sono sufficienti pochi esemplari a patto che sopravvivano prima alla traversata e poi a predatori e patogeni endemici della loro nuova patria. In seguito i discendenti di questa popolazione originaria svilupperanno i tipici caratteri dell'endemismo insulare in assenza di grossi predatori: riduzione di taglia e irrobustiment o degli arti (anche a scapito della velocità), una caratteristica questa finalizzata ad accedere a zone accidentate. In alcuni casi è stata pure notata una diminuzione della capacità cranica. La spiegazione fondamentale è che essendo il cibo più scarso individui dalla taglia minore sono più adatti a sopravvivere. Il cervello poi è un grosso consumatore di energia e la mancanza di stimoli da parte di predatori è sicuramente un fattore che ne permette la riduzione.
La Sardegna nella prima metà del Pleistocene era caratterizzata da una fauna denominata “Nesogorale”, fra le cui forme caratteristiche troviamo Nesogoral melonii, un ruminante, Macaca maiori, una scimmia, Sus sondaari, un maiale e Prolagus sardus, un lagomorfo. L'unico predatore degno di nota era Chasmaporthetes melei, una iena, a cui probabilmente si deve se Nesogoral non si sia miniaturizzato, né abbia perso l'attitudine alla corsa. Probabilmente questa fauna comprendeva sia elementi autoctoni, presenti al distacco del blocco sardo – corso dall'Europa, sia nuovi arrivati durante la crisi di salinità del Messiniano.
Ora succede che 300.000 anni fa, nella seconda metà del Pleistocene, nel momento di massima regressione marina durante il massimo glaciale del Mindel, questa fauna si estingue rapidamente e viene sostituita da un’altra, denominata “Tyrrenicola”. Ne fanno parte un piccolo topo (Tyrrenicola henseli), un cervo (Megaceros cazioti, di probabile derivazione da Megaceros verticornis del continente, uno sciacallo (Cynotherium sardous) e Mammuthus lamarmorai. Della vecchia fauna sopravvive solo il Prolagus sardus

A differenza della Nesogorale, con la fauna Tyrrenicola non si svilupperanno forme endemiche nane insulari (a parte Mammuthus lamarmorai, l'unico mammuth nano del bacino del Mediterraneo, alto circa 150 cm.
La repentina estinzione della fauna nana Nesogorale dell’isola può essere dovuta a diversi fattori, come mancato adattamento a condizioni climatiche più fredde (valido soprattutto per Macaca maiori: i primati e il freddo sono due concetti molto in conflitto fra loro), competizione con i nuovi venuti e introduzione di un nuovo grande predatore.
La mancata evoluzione della fauna Tyrrenicola verso forme di nanismo insulare fa propendere per questa terza ipotesi. Quindi l'ipotesi più fattibile è che ci sia stato il contemporaneo arrivo di nuove forme di vita dal continente (in generale più competitive di quelle rimaste isolate), e di un grande predatore, il quale, per il solo fatto di cacciare e nutrirsi delle due faune insulari, ha contribuito fattivamente a determinare l’estinzione della prima e impedito alla seconda di evolversi verso le forme nane già note. Che Cynotherium sardous fosse questo predatore appare sinceramente improbabile. Per cui la soluzione migliore è che fra gli elementi della nuova fauna Tyrrenicola ci fosse anche un uomo pleistocenico.

LE PIU' ANTICHE TRACCE UMANE DELLA SARDEGNA. Tracce umane, a cominciare dagli utensili, sono state ritrovate nel nord dell'isola e risalgono, guarda caso, a poco dopo il cambio faunistico. Tutti gli utensili sono piuttosto simili a quelli europei del tempo (industria clactoniana) e sono probabilmente dovuti a Homo heidelbergensis (la versione europea di erectus). Naturalmente questi non sono gli antenati degli attuali sardi. Però questo dimostra che la presenza umana in Sardegna sia molto più antica di quanto si poteva pensare anche solo 10 anni fa.
Il fossile umano più antico per adesso è una falange datata a circa 22.000 anni fa, ritrovata nella grotta Corbeddu, nei pressi di Oliena (Sardegna Centro - orientale), dove sono anche state rinvenute una mascella e un pezzo di calotta cranica datate a circa 18.000 anni fa. I pollini dell'epoca dimostrano che il clima era particolarmente freddo. 


LA SOLUZIONE DELL'ENIGMA GENETICO. C'è poi una spiegazione piuttosto precisa sulla presunta stranezza della parentela di sardi e corsi con i baschi. Abbiamo visto come l'età minima dell'espansione della attuale popolazione corsa è di oltre 14.000 anni e che discende da una popolazione della Sardegna. Non sfuggirà ai lettori più attenti che siamo a poche migliaia di anni dopo l'ultimo massimo glaciale. Quindi si può ipotizzare che proprio durante questo periodo di mare basso gli antenati degli attuali sardi e corsi abbiano attraversato il breve stretto all'epoca presente tra Corsica e Toscana, siano scesi verso sud per cercare condizioni migliori rispetto alla più fredda e impervia Corsica, e le abbiano trovate in Sardegna.
Poi con il migliorare delle condizioni climatiche durante lo stadio di Bolling - Allerod i nuovi coloni sono risaliti fino a occupare la Corsica.

Questi fatti sono avvenuti in un periodo in cui la genetica degli europei era molto diversa da quella odierna: gli ultimi studi hanno dimostrato come l'Europa Occidentale sia per lo più abitata non dai discendenti degli antichi cacciatori – raccoglitori del paleolitico, ma dagli agricoltori venuti dal medio oriente dal VII millennio AC, che risalivano il continente durante il riscaldamento del continente dopo la fine della glaciazione wurmiana. Sardi e Corsi sono rimasti più o meno isolati dall'Europa almeno fino alle espansioni fenicie, cartaginesi e romane del I millennio AC e quindi, come hanno potuto fare i baschi fino a tempi recenti grazie all'autoisolamento, mantengono un quadro genetico più simile a quello degli antichi cacciatori – raccoglitori che circa 40.000 anni fa hanno strappato il continente ai neandertaliani che non a quello degli agricoltori europei .

Personalmente dopo tante letture in materia mi resta comunque un dubbio: la morfologia del mascellare di 18.000 anni fa sembra essere estranea alla variabilità dell’Homo sapiens in generale e dell’Homo sapiens sapiens europeo in particolare e può essere segno di endemismo, il risultato cioè dell’isolamento in Sardegna di un gruppo umano. Però è anche vero che trarre conclusioni da un solo reperto è cosa azzardata, tantopiù che le industrie litiche dello stesso sito sembrano relative alla fase finale del glaciale di Wurm e quindi riferibili a Homo sapiens sapiens.

IL QUESITO FINALE: UNA POPOLAZIONE DI HEIDELBERGENSIS E' ARRIVATA QUASI FINO A NOI? I nuovi venuti hanno soppiantato i vecchi abitanti. la genetica parla chiaro: la colonizzazione da parte dgli attuali abitanti è avvenuta dopo la conquista dell'Europa da parte dei Sapiens e prima dell'arrivo degli agricoltori neolitici medio - orientali. Ne consegue che gli abitanti precedenti non fossero sapiens. Chi erano costoro? I primi heidelbergensis o altri che erano migrati approfittando per esempio del massimo glaciale rissiano tra 200 e 130 mila anni fa (e quindi si tratterebbe di una popolazione di heidelbergensis relitta estintasi molto recentemente)? Neandertaliani? Sapiens discendenti dai primi Sapiens arrivati in Europa 40.000 anni fai?

L'ipotesi neandertaliani sembrerebbe esclusa: da un punto di vista "culturale", le poche industrie litiche trovate sembrano inquadrabili in tecno-tipologie paleolitiche inferiori e non in complessi "tipici" dei neandertaliani o nel Wurm più antico. Quindi l'ipotesi più semplice, ma nel contempo affascinante, è che una popolazione di Homo heidelbergensis sia sopravvissuta ai neandertaliani che nell'isola non sono mai arrivati  e che soprattutto, come a Flores, si sia estinta poche migliaia di anni fa.
Cercherò di indagare ulteriormente

giovedì 4 marzo 2010

L a classifica dei 10 terremoti più forti prima dell'evento di sabato 27 febbraio

qualche tempo fa scrissi un commento alla classifica delle 10 peggiori eruzioni vulcaniche (a cui probabilmente ne manca una di cui prima o poi parlerò). Oggi, mentre le notizie sul Cile sono sempre più drammatiche e si evidenziano i danni dello tsunami nella zona epicentrale, su “Terra Daily” è apparsa la classifica dei 20 maggiori terremoti mai registrati prima del terremoto cileno che, in base ai dati del Servizio Geologico degli Stati Uniti., si piazzerebbe in 7 o 8 posizione assoluta, dimostrando quindi la sua eccezionale violenza. Eccola.

1 - 22 maggio 1960 – Cile Centromeridionale – M 9.5
2 - 28 marzo 1964 - Prince William Sound, Alaska - M 9.2
3 - 26 dicembre 2004 – Sumatra – Isole Andamane - M 9.1
4 - 4 novembre 1952 - Kamchatka - M 9.0
5 - 13 agosto 1868 - Arica, Chile settentrionale (all'epoca era in Perù) - M 9.0
6 - 26 gennaio 1700 – Cascadia- (Washington - British Columbia, Canada) - M 9.0
7 - 31 gennaio 1906 - Off the Coast of Esmeraldas, Ecuador - M 8.8
8 - 4 febbraio 1965 - Rat Islands, Alaska - M 8.7
9 - 1 novembre 1755 - Lisbon, Portugal - M 8.7
10 - 8 luglio 1730 - Valparasio, Chile - M 8.7
11 - 28 marzo, 2005 - Northern Sumatra, Indonesia - M 8.6
12 - 9 marzo 1957 - Andreanof Islands, Alaska - M 8.6
13 - 15 agosto 1950 - Assam - Tibet - M 8.6
14 - 12 settembre 2007 - Southern Sumatra, Indonesia - M 8.5
15 - 13 ottobre 1963 - Kuril Islands, former Soviet Union - M 8.5
16 - 1 febbraio 1938 - Banda Sea, Indonesia - M 8.5
17 - 3 febbraio 1923 - Kamchatka peninsula - M 8.5
18 - 11 novembre 1922 - Chile-Argentina Border - M 8.5
19 - 15 giugno 1896 - Sanriku, Japan - M 8.5
20 - 20 ottobre 1687 - Lima, Peru - M 8.5


Essenzialmente le regioni sorgenti di questi terremoti sono lungo alcune zone di subduzione e questo è logico: solo un terremoto di thrust può sprigionare una forza del genere, dato che la faglia è suborizzontale e per muoversi deve superare l'enorme attrito di tutta la crosta sovrastante. Inoltre questa eccezionale intensità sembra riservata a scorrimenti lungo il limite fra le due placche, quella che subduce e quella sovrastante.


Le tre zone sono l'Indonesia, l'arco Pacifico Settentrionale, tra Giappone, Kurili, Kamchatka, Aleutine e Cascadia, e il margine andino. C'è poi il terremoto dell'Assam (India) del 1950, anch'esso probabilmente dovuto ad un thrust.

L 'unico evento apparentemente fuori da questo contesto è il grande terremoto di Lisbona del 1755: proprio per la sua potenza (è il nono della graduatoria) c'è chi ha avanzato l'ipotesi che sia la traccia di una incipiente subduzione nella crosta oceanica a largo di Gibilterra, al confine fra placca europea e africana,

Questa classifica lascia comunque dei grossi dubbi. Innanzitutto, come nel caso delle 10 peggiori eruzioni della storia, per la mancanza di registrazioni strumentali potrebbe essere parziale ed inoltre la Magnitudo di qualche evento potrebbe essere significativamente diversa, di qualche decimo di grado. Sembra poco, ma se si considera che un grado in più corrisponde ad un rilascio di energia 30 volte maggiore, si capisce che una modifica di pochi punti può variare decisamente la graduatoria.

La classifica poi non comprende il grande terremoto dell'Assam del 1897, probabilmente ancora più forte di quello, segnalato nella stessa zona, che ne occupa la 13a posizione: nell'occasione si crearono vere onde sul terreno, dei massi vennero lanciati in aria (quindi l'accelerazione del terreno è stata superiore alla forza di gravità) e un importante area subì un sollevamento cosismico di ben 15 metri.

Un altro problema è che la “copertura” della regione andina parte da molto più lontano rispetto alle altre due zone principali. A prima vista si noterebbe una lacuna: tra il 1687 e il 1730 passano 43 anni, un tempo compatibile con la periodicità riscontrata tra XX e XXI secolo, poi sembrerebbe esserci un intervallo di 140 anni tra il 1730 e il 1868. In realtà almeno per il Cile si segnalano un 8.5 nel 1851, un 8.3 e un 8.5 nel 1819 e nel 1822 e un'altra coppia tra il 1835 e il 1837 (8.5 e 8.0). Quindi siamo semplicemente davanti a dei terremoti meno forti o sottostimati e non a una interruzione nel registro. In Perù la sismicità sembra nettamente minore (relativamente parlando...). A proposito del 1868 alcune fonti danno due terremoti a 3 giorni di distanza l'uno dall'altro.

La copertura degli avvenimenti nel Pacifico Settentrionale comincia nel 1896 (a parte l'evento di Cascadia del 1700, noto per altri motivi e di cui mi ero già occupato qui).

Da notare che ben 5 dei 20 terremoti nella lista sono avvenuti tra le Kurili e l'Alaska in appena 12 anni, tra il 1952 e il 1965. Quanto all'Indonesia, si sa che a Sumatra di terremoti violentissimi ce ne sono stati diversi, in particolare tra il 1797 e il 1833, senza andare alle crisi attorno al 1600 e al 1300.

Ci sono poi altri “grandi assenti”, per esempio la fascia insulare tra Nuova Zelanda e Nuova Guinea (le isole Tonga, Kermadec, Samoa, Vanuatu e Fiji) e le Filippine, tutte aree di subduzione e di intensa attività sismotettonica.

Quanto alla zona in cui Africa ed Arabia si stanno incuneando nell'Eurasia, tra Mediterraneo e Himalaya, i terremoti sia pure molto forti non hanno per fortuna una energia paragonabile a quella che sprigionano gli eventi lungo la cintura di fuoco che circonda il Pacifico, dove anche le velocità relative fra le zolle sono molto superiori

E' quindi una classifica parziale e discutibile, ma nel contempo molto significativa per capire le dimensioni del sisma del 27 febbraio.