mercoledì 26 novembre 2008

Alcuni antichi americani erano europei?


Prove linguistiche, genetiche, geografiche e di altro tipo continuano a confermare per il popola- mento delle Americhe lo schema tradizionalmente accettato delle “tre ondate” di migrazione. Sulle date, invece, c'è una profonda incertezza: la cronologia ricavata dai dati genetici è compatibile con migrazioni avvenute durante fasi in cui i ghiacci si erano un po' ritirati, ma da un pounto di vista archeologico si sa ancora veramente poco.
Riassumendolo in breve e senza addentrarsi in particolari, con la terza migrazione sono arrivati gli Inuit dell'Alaska e delle Aleutine, con la seconda i Na-dene (Apaches, Navajos e gli abitanti della costa pacifica a nord della California) e con la prima tutti gli altri, gli Amerindi propriamente detti.

ALCUNE CARATTERISTICHE “STRANE” DEL POPOLAMENTO DEL NORDAMERICA. Qualche anno fa fu scoperto a Kennewick, una località dello stato americano di Washington uno scheletro vecchio di 9000 anni che presentava delle caratteristiche un po' strane: le fattezze del volto sono caucasoidi e non amerinde e il suo DNA mitocondriale contiene l'aploguppo X, tipicamente euroasiatico. Cominciamo a dire subito che “caucasoide” non significa molto: ordinariamente con questo termine si intende un europeo, un nordafricano o un mediorientale, in contrasto con altri “tipi” come il negroide o l'orientale (il tipico aspetto degli asiatici nordorientali). In realtà caucasoide significa tutto e nulla: probabilmente erano somaticamente caucasoidi i primi uomini anatomicamente moderni usciti dall'Africa e quindi, semmai, sono gli orientali che si sono successivamente differenziati a partire da antenati caucasoidi. La stessa cosa è successa nelle Americhe, dove i primi nativi assomigliavano davvero poco ai loro discendenti attuali.
Ammettendo che l'uomo di Kennewick fosse un Na-Dene, potrebbe essere valida l'ipotesi che i Na-dene (e a maggior ragione gli amerindi che li avevano preceduti lungo la via dello Stretto di Bering) siano migrati dalla Siberia prima che nei popoli rimasti là si fissasse quella importante caratteristica che sono gli occhi a mandorla. Iin effetti se si eccettuano gli Inuit, pur venendo tutti dall'Asia (con la eventuale eccezione – vedremo – degli europei solutreani) nessun nativo americano è caratterizzato dagli occhi a mandorla
La presenza dell'aplogruppo X pone altri interrogativi. Fino ad allora era stato notato solo in Europa ed in Medio Oriente. La sua è comunque una distribuzione strana: gli aplogruppi hanno solitamente una elevata frequenza in una zona geograficamente ben delimitata. Invece X è debomente presente in molte aree: medio oriente (con particolare frequenza fra i drusi del Libano), nordafrica, Italia, Isole Orcadi, paesi nordici a lingue uraliche (ma solo Finlandia ed Estonia: è molto più raro nei popoli geneticamente e linguisticamente a loro connessi nelle steppe russe). Ed è sempre in percentuali inferiori al 5%, tranne che nei drusi, nelle Orcadi e in Georgia. Fra i nativi americani lo troviamo fra Na-dene e Algonchini (gli Amerindi del nordest, tra Canada e USA settentrionali),sia in popolazioni viventi che in sepolture. La percentule è tipicamente il 3 %, con alcuni picchi oltre il 10% in alcune tribù. In Sudamerica è presente negli Yanomami.
L'aploguppo X americano fu facilmente correlarlo a incroci con bianchi dopo la venuta degli europei (a cominciare dai Vichinghi nel IX secolo), ma la distanza genetica tra il tipo nordamericano e quello europeo è troppo alta per dare validità all'idea. Contemporaneamente era stata notata un'altra stranezza: le punte delle lance della cultura Clovis, la più antica documentata in Nordamerica, sono simili a quelle che venivano fabbricate in Francia dai Solutreani qualche migliaio di anni prima. Punte del genere si trovano soltanto in Francia, penisola iberica e Nordamerica.

STANFORD E BRADLEY L'IPOTESI SOLUTREANA: ALCUNI ANTICHI AMERICANI PROVENIVANO DA OCCIDENTE? In quegli anni l'aplogruppo X non era documentato in Asia settentrionale e quindi nel 1999 due ricercatori dello Smithsonian Institute, Dennis Stanford e Bruce Bradley, unirono le due cose, ipotizzando che dei solutreani fossero arrivati in Nordamerica dall'Europa lungo la banchisa polare, cacciando foche e vivendo come gli attuali Inuit. All'epoca , cone si vede dalla carta edita dalla National Geographic Society, l'Atlantico settentrionale era coperto di ghiacci come adesso l'Artico: la calotta polare in Europa, oltre alla Scandinavia, copriva pure la Gran Bretagna, arrivando quasi alle attuali coste tedesche, mentre in America si estendeva almeno fino alla latitudine di New York. Quindi era teoricamente possibile attraversarlo. Contro questa ipotesi, detta “ipotesi solutreana” ci sono due obiezioni principali: la differenza di età fra la cultura solutreana, attiva tra 22000 e 16500 anni fa, mentre le tracce più antiche dei Clovis sono di appena 13.500 anni fa, e il fatto che i Solutreani (e i loro successori Magdaleniani) fossero degli abilissimi pittori (le testimonianze di arte rupestre e nelle grotte in Francia sono vastissime), mentre non ci sono tracce di arte nel periodo Clovis. La prima obiezione ha in se una sua validità, la seconda chiaramente no: l'ambiente tipico della traversata atlantica sui ghiacci non consentiva certo questa attività, e ne potrebbe essere stato perso il ricordo. Se l'ipotesi di Stanford continua ad essere valida a proposito delle punte, potrebbe però cadere come spiegazione della presenza dell'Aplogruppo X, che è stato recentemente rinvenuto in popolazioni dell'Asia settentrionale.

I NA-DENE E LA SIBERIA Tra i nativi americani e l'Asia ci sono molti legami. I Na-dene, in particolare, dovrebbero provenire dalla zona degli Altai, con la quale condividono svariate cose. Legami genetici, con la comune presenza degli aplogruppi A, C e D del DNA mitocondriale (il B è esclusivo delle Americhe e con una distribuzione a macchia di leopardo); legami linguistici: gli idiomi della ormai praticamente estinta famiglia siberiana sono al centro dell'ipotesi “sino-dene-caucasica”, quella che propone un'origine comune per le tre grandi famiglie linguistiche sinotibetana, na-dene e caucasica.
Si evidenziano anche connessioni di tipo culturale. Mi riferisco al Sasquatch (o Bigfoot), l'uomo gigante dei boschi della costa pacifica nordamericana, un mito limitato ai soli Na-dene della costa (e assente in quelli meridionali, Navajos e Apaches, che invece mostrano la presenza dell'aplogruppo X). Questa creatura è straordinariamente simile allo Yeti e all'Almas (per inciso anche una parte dei Tibetani potrebbe avere la stessa origine altaica). Ci sono altri rituali paragonabili, come per esempio la “danza dei bastoni”
Se l'aplogruppo X fosse venuto in America dalla Siberia con i Na-dene, la sua presenza nelle areea nordorientali del continente tra le popolazioni amerinde si spiegherebe con gli evidenti segni di mescolanza fra Na-dene e amerindi settentrionali (specialmente gli algonchini), tantochè per alcuni geni qusti ultimi sono più vicini ai Na-dene che agli altri amerindi. Ma se fosse valida l'ipotesi solutreana, sarebbe il contrario, e cioè sarebbero stati gli amerindi del nordovest a contaminare i Na-dene. Il che si adatterebbe meglio all'alta frequenza (relativamente parlando...) di X in alcune tribù amerinde come i Sioux. Il tutto sarebbe avvnuto prima della migrazione verso sud di Apache e Navajos, che è molto recente, dopo il 1300 DC.

LA GENETICA DELL'APLOGRUPPO X. Non si sa di preciso quando questo aplogruppo si sia originato: proprio a causa della sua rarità ci sono molte incertezze nel calcolo e il valore medio (26.000 anni fa) oscilla attorno a una forbice di parecchie migliaia di anni. Dovrebbe essere comparso in Medio Oriente, per poi suddividersi qualche migliao di anni dopo nei sottogruppi X1 (tipico ed esclusivo dei Paesi Arabi) e X2, che si trova invece sparso per Europa, paesi arabi, Asia settentrionale e Americhe. I dati sono stati elaborati nel 2003 da un vasto gruppo di ricercatori di molte nazionalità e non sono riuscito a trovare dati più recenti. Da questo lavoro comunque sembrerebbe che l'aplogruppo presente negli Altai (X2e) non ha relazioni particolari con X2a (quello presente in America) e che sia giunto in zona molto recentemente dal Caucaso, sicuramente dopo la migrazione dei Na-Dene. X2a, peraltro, appare differenziatosi precocemente in una zona del Vicino Oriente.

L'IPOTESI SOLUTREANA E' ANCORA VALIDA? Tutto sommato, con questi dati, l'ipotesi di Stanford è plausibile, anche se molto audace: l'aplogruppo X2 si sarebbe diffuso nell'Europa occcidentale provenendo dal Nordafrica durante il progressivo miglioramento climatico che ha avuto luogo da 18,000 anni fa in poi. Da qui sarebbe passato in Nordamerica valicando l'Atlantico sulla calotta glaciale con i solutreani.
Magari questi uomini, arrivando in America, erano rimasti lungo le coste ma poi, con il ritirarsi dei ghiacci, si sono addentrati nel continente seguendo le loro prede. Forse il segreto è sepolto nel mare a largo degli Stati Uniti occidentali, in zone adesso sommerse ma che 15.000 anni fa, con il livello marino più basso, erano emerse. Comunque questa migrazione, se c'è davvero stata, ha avuto pesanti conseguenze culturali, ma scarse genetiche: è chiarissima la provenienza dall'Asia degli aplogruppi A, C e D che sono posseduti dalla stragrande maggioranza dei nativi di tutto il continente americano. E non ci sono tracce di altri aplogruppi europei (e questo, forse, è il dubbio più grande).
Quindi è possibile che per la terza volta prima dell'umanità “moderna” le Americhe siano state raggiunte da forme di vita del vecchio mondo passando dall'Atlantico, come avvenne tra 40 e 25 milioni di anni fa, quando in qualche modo fortunoso primati e roditori raggiunsero il Sudamerica partendo dall'Africa.

giovedì 20 novembre 2008

un anno di "Scienzeedintorni": intervista all'autore sull'Ornitorinco

Un anno è passato da quando il 22 novembre 2007 ho pubblicato "la Commissione Europea contro il creazionismo e l'Intelligent Design", il primo post di “scienzeedintorni”.
Devo dire che il bilancio di un annpo di blog è superiore alle attese: ho avuto diverse soddisfazioni (articoli pubblicati su giornali, link su altri siti, molte e-mail ricevute al mio indirizzo, ben più numerose dei commenti on-line e che mi hanno spesso segnalato cose molto interessanti). Sono contento soprattutto per le persone che ho avuto il piacere di conoscere.
Vorrei ringraziare tutti quelli che mi hanno scritto, nessuno escluso, ma permettetemi di farlo in particolare a Ignazio Burgio, Alessandro Nardelli, Nicola Cosanni, Elizabeth Hamel e Francesco Saliola (l'unica persona che conoscevo di già). E a tutti gli amici che mi hanno sempre esortato a continuare, persino a fare la versione inglese (e il tempo a disposizione dove lo trovo????)
Un'altra cosa che mi ha fatto un immenso piacere è stata quando ho incontrato per caso degli studenti liceali che sono lettori di scienzeedintorni. Ma credo che la cosa la cosa più bella, una esperienza simpatica e molto divertente, è stata quando mi ha scritto Tamara Di Giandomenico, una studentessa dell'Università di Teramo: doveva, per un esame, intervistare una persona esperta sull'ornitorinco, intervista che sarebbe poi andata in onda su “Radio Frequenza”, che è la radio di quella'università. E la Tamara ha scelto me! Ne è nata questa intervista, che ho sbobinato e riporto sul blog, per commemorare (che parolone....) un anno di “Scienzeedintorni”.

L’ornitorinco: l’anello che congiunge rettili, uccelli e mammiferi. Di questo parleremo tra poco a... “le parole della scienza”

Becco vagamente simile a quello di un papero (ma contrariamente a quanto si pensa è una somiglianza casuale), veleno come i serpenti, depone uova come un uccello, ma allatta come un mammifero. Salve a tutti sono Tamara, una studentessa del terzo anno di “tutela e benessere animale” ed oggi vi parlerò dell’ornitorinco, un animale che vive in Australia e in Tasmania e appartenente come le sue cugine, le echidne, all’ordine dei monotremi. Questo singolare animale fu scoperto alla fine del ‘700 quando degli Europei inviarono in Gran Bretagna una pelle, trovata lungo un fiume, per essere esaminata, ma all’epoca si pensò ad uno scherzo di un imbalsamatore asiatico... Così, solo nel 1939, quando la rivista National Geographic pubblicò un articolo sull'ornitorinco il mondo venne a conoscenza di questo animale. Le sue particolarità, però, erano note da tempo tanto da far nascere leggende come quella degli Aborigeni secondo la quale l’ornitorinco sarebbe un incrocio avvenuto molto tempo fa tra una anatra solitaria ed un topo d’acqua. I due animali si innamorarono e dalla loro unione nacquero due cuccioli palmati, con quattro zampe, becco e pelliccia. Ma … perché tanta attenzione attorno a questo animale? Forse a causa delle sue caratteristiche fisiche? Beh, in effetti particolare lo è: provate ad immaginarlo! Ha il becco che assomiglia esternamente a quello delle papere ma al suo interno è posto un elettrolocalizzatore per individuare le sue prede, come gamberetti e vermi d’acqua. Il corpo è ricoperto di pelo, le zampe sono palmate e sono spostate lateralmente al corpo come quelle di un coccodrillo ed ha la coda che contiene una riserva di grasso uguale a quella di un castoro. Maschi e femmine sono facilmente distinguibili: i maschi (più grandi delle femmine) hanno uno sperone vicino alle zampe posteriori da cui iniettano veleno, non letale per l’uomo, ma che provoca iperalgesia che dura giorni o anche mesi e ha un forte potere urticante. Le femmine depongono due uova che si schiudono dopo 10 giorni, dando vita a piccoli privi di pelo e con 4 denti molari che cadono durante la crescita. Dopo la schiusa i piccoli sono allattati dalla madre. Tutt’oggi l’ornitorinco è oggetto di studio. Gli ultimi sono stati condotti dall’Europea Molecular Biology Laboratory e dal Medical Research Council che hanno riscontrato un’ulteriore particolarità: il genoma di questo animale è un “copia-incolla” di sequenze appartenenti a rettili, uccelli e mammiferi. Tutti questi studi sull'ornitorinco sono dovuti proprio al fatto che si pensa che in esso si racchiuda il segreto di come dai rettili, decine di milioni di anni fa siano nati e si siano evoluti animali così diversi come uccelli e mammiferi.
Tra poco avremo in collegamento telefonico un esperto che ci aiuterà a capire meglio il mondo dell'ornitorinco: il dott. Aldo Piombino, che più volte nel suo blog “scienzeedintorni” si è occupato di questo singolare essere vivente
Dottor Piombino, Perchè tanta attenzione attorno all'ornitorinco?

Ci sono 5 classi di vertebrati (o 6 se scindiamo dai pesci ossei quelli cartilaginei) e sono classi abbastanza rigide, nel senso che ognuna ha quello schema preciso anatomico, biologico e fisiologico preciso nonostante le grandi differenze in dimensioni e stile di vita delle creature che ne fanno parte. Se vediamo un animale capiamo immediatamente se è un pesce, un anfibio, un uccello un rettile o un mammifero (placentato o marsupiale). Invece l'ornitorinco è un caso diverso: ha il pelo, ha una temperatura costante, produce latte (però non ha delle vere mammelle), i denti visibili solo nei neonati e in qualche fossile, sono diversi fra loro e un solo arco aortico. Questi sono caratteri tipiche di un mammifero. Ma se vediamo altre caratteristiche... è un rettile, perchè la visione a colori e l'apparato escretore – riproduttivo unico, la cloaca

Quindi come la gallina: ha un solo orifizio da cui escono anche le uova...
Sì. E non è certo una caratteristica da mammifero, ma da rettile. E le ultime scoperte fanno vedere un genoma addirittura molto più rettiliano di quello che si poteva pensare. Quindi si potrebbe dire tranquillamente che l'ornitorinco sia anche un rettile.

Quindi studiare il genoma dell'ornitorinco è stato molto importante?
Si. Perchè come ho detto era chiaro che fosse un misto di caratteristiche rettiliane e mammaliane, e quindi andava studiato per quello. Ancora una volta si è dimostrato che i dati geologici e paleontologici concordano con quelli biologici sull'evoluzione della vita. In particolare si è visto che nel genoma dell'ornitorinco ci sono ancora alcune codifiche per la formazione del tuorlo delle uova (e non poteva essere altrimenti....) ma già quelle per la sintesi del latte. Questo è molto importante perchè ci consente anche di dire che il latte è apparso prima di 170 milioni di anni, prima della la divergenza fra gli antenati dei monotremi e quelli degli altri mammiferi.

Che relazioni ci sono tra il veleno dei serpenti e quello dell'ornitorinco?
Ecco, questa è una cosa interessante: perchè le proteine coinvolte sono più o meno le stesse. E come se ci fosse stata una evoluzione convergente nel DNA, come è accaduto spesso nella morfologia dei corpi: pensiamo ad esempio alla forma così simile in squali, delfini e ittiosauri. Ecco, è come se anche nella genetica assistiamo a fenomeni simili cose simili sono venute fuori da percorsi diversi

Qundi sembra che elencare in poco tempo tutti gli aspetti dell'ornitorinco intermedi fra rettili e mammiferi è difficile...
Ma, direi che è impossibile. Perchè ogni aspetto genetico, anatomico e fisiologico di questo animale è un misto, una via di mezzo fra un rettile e un mammifero... tutto tranne il cosiddetto becco dove c'è un apparato di ecolocalizzazione unico al mondo e che è una caratteristica tipica di questo animale.

Siamo stati fortunati ad avere l'ornitorinco vivo e vegeto per poterlo studiare...
Eh, si! Perchè se anziché essere un animale vivo ne trovavo uno scheletro in rocce del triassico, probabilmente lo inserivo fra i cinodonti o fra i terapsidi, quei rettili mammaliani che sono considerati gli antenati dei mammiferi.

Oltre all'0rnitorinco ci sono altri esempi simili in natura?
Mah, qualche esempio c'è soprattutto fra i fossili: prendiamo il Tiktaalik, che è stato ritrovato qualche anno fa in Groenlandia, era un pesce di 365 milioni di anni fa che aveva le pinne anteriori che si potevano sollevare e quindi poteva sollevare il corpo e aveva pure un accenno di collo, una via di mezzo quindi fra un pesce e un tetrapode. Un altro animale a cui penso è il pakicethus: un animale intermedio fra gli odierni cetacei marini e i loro antenati terrestri

Abbiamo detto che le femmine allattano i piccoli ma come fanno essendo prive di capezzoli?
Il latte esce da questa ghiandola, va sul pelo, e i piccoli leccano il pelo.

Considerando che l'ornitorinco è un animale molto particolare, anche il latte ha delle particolarità o è molto simile a quello degli altri mammiferi?
Purtroppo ne sappiamo poco, perchè è un animale che è difficilmente osservabile in natura: anche anche zoologi esperti fanno veramente fatica persino a vederli. Figuriamoci ad arrivare ai nidi e prendere un campione il latte.... Si pensa che il latte sia buono: la lattazione nei monotremi è meno sofisticata di quella dei marsupiali, ma sicuramente lo è di più di quella dei placentati, perchè il piccolo deve svilupparsi di più del piccolo dei placentati.

E la sintesi del latte come fa a coesistere con la produzione delle uova con il tuorlo? Di solito queste due caratteristiche sono di due specie molto diverse fra di loro.
Sì, coesiste! E questo è molto interessante, anche per i risvolti di tutti i geni che sono coinvolti nella riproduzione. I rettili hanno dei geni che codificano per la vitellogenina, la proteina essenziale che sovrintende al trasporto dei nutrienti nel tuorlo dell'uovo. Anche qui si vede come l'ornitorinco stia nel guado fra rettili e mammiferi: i rettili hanno 3 geni per codificarla,. Di questi geni esistono ancora nel DNA di placentati e marsupiali residui disattivati. Le date di disattivazione oscillano dai 200 ai 70 milioni di anni. Di questi geni, uno sicuramente è stato disattivato prima della separazione fra marsupiali e placentati. Gli altri lo sono stati indipendentemente dalle due linee. Si pensa che la prima disattivazione sia avvenuta poco dopo l'inizio della produzione di latte: è proprio la lattazione che ha permesso agli antenati dei mammiferi di cominciare a diminuire l'importanza del tuorlo dell'uovo (e, quindi, della vitellogenina)

E' un esempio di una grave malformazione genetica trasmessa alla discendenza...
Sì, chiaramente è stata una malformazione genetica quando si è verificata, certo! Ma questa malformazione in un animale che produce latte incide poco. Invece una mancanza di vitellogenina impedisce a una femmina di rettile o di uccello di produrre uova che si possono sviluppare correttamente e quindi di riprodursi. E pertanto non può essere trasmessa alla prole. Come nello stesso modo una femmina di mammifero: se non ha i geni per produrre la caseina il piccolo morirebbe

Allora le uova dell'ornitorinco hanno ancora il tuorlo?
Nell'ornitorinco di questi geni ce n'è ancora attivo uno solo (e un'altro fu disattivato solo 40 milioni di anni fa). E che ce n'è uno solo dovrebbe essere uno dei motivi per cui le sue uova sono più piccole di quelle di rettili o uccelli delle stesse dimensioni.

La produzione del latte invece è associata a geni tipicamente mammaliani
Certo: l'ornitorinco ha come gli altri mammiferi i geni che codificano per la caseina, necessari per la produzione del latte. In effetti pare che ci sia un rapporto fra l'aumento dell'importanza della caseina e la progressiva disattivazione dei geni che codificano per la vitellogenina e sicuramente la caseina è apparsa prima della divergenza fra i monotremi e gli altri mammiferi e quindi prima di 170 milioni di anni fa.

E i cromosomi sessuali così simili a quelli degli uccelli?
Che la struttura dei suoi gameti fosse più simile a quella dei gameti rettiliani e aviani era già noto almeno 10 anni fa e gli ultimi dati lo hanno confermato. Probabilmente saranno simili anche a quelli dei coccodrilli, i parenti più stretti degli uccelli fra gli animali viventi. E a quelli degli altri rettili... Teniamo conto che gli antenati dei mammiferi (sinapsidi) si sono separati dagli antenati di rettili ed uccelli (i diapsidi) molto precocemente, oltre 100 milioni di anni prima della divergenza fra i monotremi e gli altri mammiferi, Evidentemente dopo questa divergenza i placentati hanno modificato il genoma molto velocemente, almeno in certi settori.

Al giorno d'oggi, nonostante i progressi scientifici, una buona parte delle persone rifiuta ancora l'evoluzionismo e crede al racconto biblico, alla immutabilità delle specie animali e vegetali, create da Dio così come sono. L'ornitorinco cosa può dire al proposito?
Come ho detto prima, tutte le varie classi di vertebrati hanno delle caratteristiche abbastanza fisse, mentre l'ornitorinco è un pochino diverso. Se fossi un creazionista non capirei perchè Dio, dopo aver fatto tutte queste cose così rigide, ti fa un animale come l'ornitorinco che è una via di mezzo tra rettili e mammiferi. E infatti, ecco, l'ornitorinco fra gli animali che vivono adesso è quello più adatto per spiegare che l'evoluzione della specie non è una teoria, ma la realtà dei fatti.

Bene ringraziamo il dott. ALDO PIOMBINO per il suo intervento e ci avviamo alla chiusura di questa puntata

Che strano animale è l'ornitorinco: catalizza l'attenzione di studiosi e profani. Grazie al suo aspetto originale conquista la simpatia dei bambini (non a caso lo vediamo citato anche nel cartoon “L'era glaciale 2” e a ruba vanno i suoi peluche. Ma se tanta bizzarria fosse soltanto un modo per raccontarci il nostro passato? Magari il suo mesaggio è proprio questo: spiegarci l'origine delle moderne specie animali.

Prima di chiudere questo spazio vi lascio con una massima di Gandhi: l'odio verso gli animali è la sconfitta dell'intelligenza umana


Postilla finale: Tamara con la mia intervista ha preso un bel 30!

lunedì 17 novembre 2008

Phoenix e il ghiaccio su Marte


In questi giorni la NASA ha dichiarato conclusa la missione di Phoenix. l'ultima sonda che è stata lanciata su Marte. Mentre i vecchi rover continuano eroicamente a lavorare (ma Spirit ha di nuovo qualche problema con i rifornimenti di energia), Phoenix, che al contrario delle ultime missioni si componeva solo di un modulo destinato a restare fermo, dopo 5 mesi ha cessato i contatti con la Terra. Era previsto: l'inverno marziano non consente alle batterie della sonda di mantenere un livello minimo di operatività. Al di là di qualche critica mossa alla NASA proprio per il tipo di batterie, mai una sonda si era spinta così a nord sul Pianeta Rosso. E ovviamente a stare molto a Nord, come sulla Terra, si ottiene una quantità di energia solare molto inferiore a quella ottenibile all'equatore.
Lo scopo della missione era di trovare sul pianerta rosso traccia di acqua, la cui presenza è stata invocata molto spesso per spiegare aspetti morfologici e mineralogici della superficie marziana. Da molto tempo, grazie alle osservazioni dei satelliti americani ed europei che vi ruortano intorno, si conosce l'esistenza di acqua all'interno del pianeta, ma ancora sulla superficie non se era stata trovata. In alcune situazioni era stata vista: si sa che nelle calotte polari ce n'è come componente accessorio (per la maggior parte sono di anidrite carbonica solida). Addirittura quasi un anno fa un satellite (Mars Reconnaissance Orbiter) aveva catturato le immagini di una valanga. Ma ancora non era stata toccata cum manu da nessuno strumento sulla superficie.
Su Marte le aridissime condizioni metereologiche attuali non permettono alla poca acqua di restare allo stato liquido, se non in zone molto fredde: quando è un po' più caldo diventa immediatamente vapore (non c'è la pressione atmosferica sufficente per poter avere acqua liquida). C'era quindi la fondata speranza che, andando così a Nord, si potesse davvero trovare del ghiaccio:.
Vediamo, dopo la fine della missione, quali sono stati i risultati più importanti ottenuti da Phoenix (premettendo che ancora molti dati devono essere studuati ed interpretati).
Lanciata il 4 agosto 2007 da Cape Canaveral, la nave spaziale è arrivata su Marte il 25 maggio 2008. L'atterraggio di Phoenix è stato seguito anche visivamente, ripreso dalla sonda Mars Reconnaissance Orbiter, che orbita intorno a Marte dal 2006 e che, assieme alla sorella Mars Odissey, serve anche come ponte per le comunicazioni tra il lander e la Terra.
Phoenix, oltre ad una serie di strumenti per osservazioni meteorologiche, ne possiede altri per determinare la composizione di campioni di suolo e di roccia che il braccio robotizzato preleva dalla superficie. In aggiunta c'è una serie di macchine fotografiche che funzionano su varie frequenze nel visibile e nell'infrarosso e consentono una visione a 360 gradi
La missione parte con i migliori auspici: già 5 giorni dopo il perfetto atterraggio, dalle prime foto sembra di vedere del ghiaccio d'acqua: atterrando il lander ha mosso la polvere sul suolo marziano, scoprendo delle superfici brillanti che paiono davvero essere di questa sostanza.
Dopo qualche giorno di prove tecniche, il braccio inizia a prelevare campioni dal suolo. Le prime prove reali della presenza di ghiaccio nel suolo marziano delle alte latitudini settentrionali vengono alla luce tra il 15 e il 18 giugno: nella fossa scavata dal braccio di Phoenix il 15 c'erano delle fasce brillanti biancastre che 3 giorni dopo sono scomparse: la ovvia spiegazione è che erano composte di ghiaccio che rimane tale se rimane sepolto nel suolo, ma che evapora venendo a contatto diretto con l'atmosfera marziana. Sempre in questa data scavando il braccio ha trovato una superficie piuttosto dura che si pensa possa essere un blocchetto di ghiaccio. Nella foto vediamo il ghiaccio come era quando il braccio ha scavato la fossa, denominata “dodo”.
Alla fine gli strumenti della sonda , nei quali il braccio robotizzato di Phoenix ha immesso diverse volte del materiale, confermano anche chimicamente che si trattava davvero di ghiaccio.
Ma poi Phoenix fa altre scoperte. Il 29 agosto quella più clamorosa: su Marte nevica! Uno degli strumenti installati a bordo ha rilevato a 4 kilometri di altezza sopra il satellite la presenza di neve che poi, nella caduta, si è subito ritrasformata in vapore e quindi non è arivata fino alla superficie. Ma in quota c'era.
Ai primi di settembre altre due sorprese: i sensori notano che un po' di umidità sale dal terreno durante il giorno e vi ricade durante la notte. Succesivamente le macchine fotografiche immortalano dei piccoli tornados sulla superficie del pianeta, come quelli che si formano nelle pianure degli Stati Uniti centrali.
L'attività prosegue frenetica, immettendo negli strumenti della sonda nuovi campioni di materiale e proseguendo le osservazioni atmosferiche. Ma si avvicina la fine della missione, già prolungata di qualche mese rispetto alle previsioni: l'11 ottobre arriva una tempesta di vento e polvere di forza eccezionale che oscura parzialmente il cielo. La situazione precipita e spesso la sonda va in stand-by, per tenere in servizio almeno le funzioni “vitali”.
Ormai non c'è più niente da fare: il 2 novembre la sonda invia un ultimo segnale: purtroppo alla diminuzione normale della luce dovuta all'arrivo dell'inverno, si è aggiunta una nuova tempesta estesa per ben 37.000 kilometri quadrati che portando sabbia in sospensione nell'aria, ha ulteriormente diminuito la quantità di luce disponibile per le batterie solari.
E così il 12 novembre la NASA decreta la fine dell'attività: non c'è più la possibilità da parte delle celle solari di alimentare il lander.
La missione ha comunque centrato l'obbiettivo didimostrare che nelle zone più fredde di Marte esiste davvero l'acqua sotto forma di ghiaccio.
In quanto al suolo marziano, mostra delle similitudini con quello che è esposto nella zona delle “valli secche” dell'Antartide, l'unica zona non ricoperta dal ghiaccio di questo continente. Contiene minerali di nagnesio, sodio, potassio e cloro e altri in modo tale che se questo suolo fosse sulla Terra, potrebbe benissimo essere un suolo adatto alla vita. E c'è una quasi certezza che, miliardi di anni fa, sia stato molto più umido di oggi.
Aspettiamo adesso che vengano elaborti tutti i dati che la sonda ha inviato, in particolare per capire i minerali che compongono il suolo.

lunedì 10 novembre 2008

I monti Gamburtsev: una grande catena montuosa totalmente sepolta sotto i ghiacci antartici la cui origine è ancora sconosciuta


Come la Gallia di Cesare, anche tutta l'Antartide può essere divisa in “partes tres”, delle quali una, occidentale, è formata da rocce paleozoiche e attualmente sede di intensi fenomeni vulcanici, una, di mezzo, in cui si sviluppa una delle più grandi catene montuose del pianeta, la Catena Transantartica e una, quella orientale, che si suppone formata da un basamento continentale molto antico.
L'Antartide Occidentale, quella che si affaccia sul Pacifico, è formata da un puzzle di almeno 5 blocchi crustali di età paleozoica e mesozoica che si sono scontrati e accavallati l'uno sull'altro e quindi ha avuto una storia geologicamente complessa: più volte è stata interessata da attività tettonica di margine continentale “attivo”, cio di convergenza fra una zolla continentale e una oceanica che vi scorre sotto. Attualmente fenomeni di subduzione attiva sono ancora presenti sotto la Penisola Antartica.
La “catena transantartica” è un insieme di 3000 km di imponenti montagne tra il Mare di Weddel e quello di Ross, con vette che passano ampiamente i 4000 metri di altezza. Quindi una catena di dimensioni notevoli. L'intensa attività vulcanica sul suo margine occidentale dimostra che la sua formazione, iniziata a metà del Mesozoico, non si sia ancora conclusa. Non è una catena orogenica, frutto dello scontro fra due zolle, ma un sistema di rift paragonabile alla Rift Valley dell'Africa Orientale. Non è ancora chiaro, comunque, perchè un sistema di rift possa avere vette così alte (una buona spiegazione potrebbe essre la sua lunga durata).
L'Antartide orientale è invece comunemente considerata un nucleo stabile, formato da rocce molto antiche, come lo sono buona parte di Africa, Canada a ovest delle Montagne Rocciose, Australia e Siberia. Fra le poche rocce che emergono dal ghiaccio, sulle coste, ce ne sono anche alcune con un'età ben superiore al miliardo di anni.
Quindi si sarebbe portati a pensare all'Antartide Orientale come a una zona abbastanza omogenea, ma forse non è così. Nel 1956 dei geofisici russi individuarono una grande catena montuosa sepolta sotto il ghiaccio di questa regione, e la chiamarono con il nome di Grigorij Aleksandrovič Gamburcev (sono evidenti i problemi di translitterazione fra cirillico e inglese...), un geologo russo della prima metà del 900, pioniere delle ricerche sovietiche nel continente bianco.
I monti Gamburtsev non si vedono in superficie, essendo completamente coperti dalla calotta glaciale anche nelle loro vette più alte e sono di dimensioni rispettabili: oltre 1000 kilometri di lunghezza e una altezza massima superiore ai 3000 metri sul livello del mare. Perdono chiaramente il confronto con la Catena Transantartica, ma sono sempre notevoli: non sono tante al mondo le catene così alte o lunghe. Anzi, se guardiamo l'altezza quante passano questo valore? Poche. A memoria cito il guppo Himalaya – Pamir – Karakorum, le Alpi, il Caucaso, le Montagne Rocciose, le Ande e la Catena Transantartica.
L'Antartide cela quindi un altro segreto: oltre ai laghi al contatto fra i ghiacciai e la roccia, ai vulcani sepolti sotto il ghiaccio, agli animali ancora sconosciuti che popolano i suoi mari, spesso dotati di antigelo naturale, ecco una intera catena montuosa completamente sconosciuta.
Di questi monti si sa poco, anzi, si sa soltanto che esistono (il dibattito in questo momento è ancora fermo alla domanda basale “perchè ci sono?”....). Per spiegarle ci sarebbero diverse ipotesi, ma fino a quando non ci saranno dati certi, siamo ancora a livello puramente speculativo.
Fondamentalmente notiamo tre correnti di pensiero.
La prima è che sono formate da vulcani: l'Antartide Orientale sarebbe passata sopra un punto caldo, come, per esempio, quello delle Hawaii: per cui i magmi hanno formato una catena vulcanica via via che la zolla antartica vi passava sopra. La difficoltà maggiore è che adesso di questo pennacchio di magma del mantello non vi è traccia. Parlare poi come fa qualcuno di un vulcano unico così grosso pare veramente difficile, a meno di non pensare a qualcosa come i trappi del Deccan, l'enorme distesa di lave basaltiche che ricopre buona parte dell'India Meridionale.
Una seconda idea è che siano una catena antica, del paleozoico inferiore e che quindi l'Antartide Orientale è formata da due masse che si sono unite circa 540 milioni di anni fa. La tempistica è stata ottenuta sulla base della datazione di minerali contenuti nei sedimenti marini vicini. E' un po' difficile però spiegare come montagne così vecchie possano essere ancora così alte, dopo centinaia di milioni di anni di erosione. Poi c'è da fare un commento su queste datazioni: non solo non c'è la certezza che i sedimenti vengano proprio da lì, ma, anche ammesso che provengano davvero dalle Gamburtsev Mountains, la datazione può non essere conclusiva: se prendiamo le sabbie della Versilia e ne analizziamo l'età radiometrica dei minerali, troviamo delle date ben antecedenti a quella dei flysh come il Macigno da cui derivano per il 95%. Se poi derivassero dal basamento apuano verrebbe fuori una data ancora anteriore, nel paleozoico. Ma affermare con questi dati che l'Appennino si è formato all'epoca è ovviamente assurdo...
La terza è simile alla seconda. Quindi ancora una normale catena orogenca, ma sensibilmente più recente, forse successiva alla formazione della Catena Transantartica. La maggiore difficoltà è trovare una fase compressiva durante un periodo che nell'emisfero meridionale è stato contraddistinto dalla frammentazione del Gondwana con i vari pezzi che, allontanandosi, se ne sono andati per conto loro. In pratica l'Antartide orientale deriverebbe dall'unione di due di questi frammenti che unendosi hanno formato l'Antartide occidentale così come la vediamo oggi, lasciando le Gamburtsev Mountains come cicatrice dell'evento.
Un altro problema è l'apparente mancanza in mare di sedimenti dovuti a questo evento: non sembrano essere intervenuti nei mari prospicenti l'antartide Orientale dei cambiamenti significativi nella sedimentazione che dovrebbero invece verificarsi se si fossero innescati dei cambiamenti così drastici nel regime tettonico del continente. Il fatto che non possono essere una catena recente perchè attualmente asismica vuol dire poco: le Alpi occidentali sono una catena abbastanza recente, ma quasi completamente asismiche. Anzi, se ci fosse un diretto rapporto fra entità dei dislivelli e sismicità, in Italia Piemonte e Valdaosta dovrebbero essere la zona più sismica del territorio italiano, e invece sono quella meno sismica di tutte...
Se una delle ultime due ipotesi fosse vera dovrebbero pure esistere differenze fondamentali fra le due parti dell'Antartide orientale e tutta l'Antartide andrebbe divisa in “partes quattruor” e non tres.
Per dirimere la questione è stato lanciato un programma in cui sono coinvolte numerose nazioni, fra le quali, ovviamente, non c'è l'Italia, anche se una parte importante la svolgerà un italiano attualmente al British Antarctic Survey, il Dr. Fausto Ferraccioli. Verranno fatti dei sorvoli aerei per determinare la topografia e la composizione dei monti nella parte centrale, vicino al polo sud, in unal linea che va dalla Piattaforma di Amery alla Victoria Land, sul mare di Ross. Inoltre una rete di una ventina di sismografi a terra (e in cui altri italiani sono coinvolti) cercherà di ottenere un modello della crosta antartica.
E' allo studio anche una perforazione del ghiaccio per arrivare ad ottenere dei campioni di roccia.
La ricerca avrà dei risvolti importanti anche per la glaciologia: anche se invisibili, le Gamburtsev Mountains rappresentano uno spartiacque che regola il cammino dei ghiacciai: nella carta più o meno sono quella linea verticale che passa per il punto denominato “GaM”. E soprattuto sembra che qui si siano formati alcuni dei primi nuclei della calotta glaciale antartica più di 20 milioni di anni fa.

giovedì 6 novembre 2008

I nuovi giacimenti di petrolio scoperti in paesi poveri: un'occasione di sviluppo, a patto di non ripetere gli errori del passato

Non tutti sanno che dal petrolio, oltre ai carburanti, si ricavano plastiche, fertilizzanti e persino l'idrogeno (con procedementi non proprio “environmentally friendly”...).
La corsa del petrolio, diventato il vero protagonista degli scambi commerciali nel XX secolo, iniziò alla fine del XIX secolo. Al principio furono gli Stati Uniti, poi arrivarono gli “scatoloni di sabbia”, i paesi arabi. Negli anni '60 i produttori di petrolio erano essenzialmente USA, URSS, Venezuela e Paesi arabi. E l'OPEC dominava la scena mondiale. Poi è arrivata la Nigeria, che aderì all'organizzazione nel 1971. Il primo colpo al monopolio OPEC delle esportazioni arrivò con il petrolio del Mare del Nord. Fra i 15 principali paesi esportatori di petrolio vediamo diversi stati arabi, Russia, Kazakistan, Norvegia, Venezuela, Angola e Nigeria. Russia (paese non OPEC) e Arabia Saudita ne estraggono più di tutti gli altri stati messi insieme.
Il consumo di idrocarburi sta aumentando ogni anno nonostante che la domanda nei paesi occidentali aumenti debolmente, per un rallentamento della crescita economica, per l'aumento dell'efficenza energetica dei dispositivi e per un ricorso ad energie alternative nel campo della produzione di energia: paesi emergenti come Cina e India compensano ampiamente quanto sta avvenendo in occidente
E' difficile parlare dell'argomento senza fare considerazioni politiche, ma ci provo. Annoto soltanto che il petrolio è uno dei principali motivi per dispute anche accese, fino alle guerre. Due esempi molto recenti sono il conflitto in Georgia, ben descritto dal mitico Ole Nielsen nel suo Olelog e l'annosa diatriba USA – Venezuela, dove Chavez, al di là di essere un personaggio discutibile e capace di attirare contemporaneamente molte critiche ma anche molte simpatie (entrambe molto “a priori” a seconda dello schieramento politico di chi si esprime...), sta cercando di affrancarsi dal dominio delle multinazionali USA.
Se alcuni paesi esportatori sono molto ricchi, altri nonostante tutto si dibattono nella povertà, a dimostrazione che non basta al giorno d'oggi avere in una nazione le materie prime per poter essere ricchi, ma che è necessario migliorare la distribuzione della ricchezza in tutta la popolazione. In alcuni casi (come Venezuela e Nigeria) convivono standard di vita bassissimi e un debito internazionale enorme: c'è chiaramente qualcosa che non va...
L'aumento del prezzo del barile che si è registrato negli ultimi anni (adesso, complice la crisi finanziaria, ilquesto valore si è ridotto nel solo mese di ottobre di un terzo) ha cominciato a rendere conveniente lo sfruttamento di giacimenti posti in mare a profondità notevoli e, soprattutto, sta consentendo a nuove nazioni di affacciarsi (o a programmare di farlo) nel mercato mondiale dei produttori di petrolio, perchè titolari di giacimenti posti in mare aperto a notevoli profondità.
Non so se è un caso, ma nell'ultimo mese sono stato letteralmente inondato di articoli in cui si parla di questi “nuovi” stati produttori di petrolio (o che stanno per avviarne la produzione) e che, soprattutto, stanno pensando a un nuovo modello nella distribuzione delle ricche royalties sull'oro nero. Al centro dell'attenzione sono i paesi rivieraschi dell'Oceano Atlantico.
Un grande entusiasmo sta pervadendo il Ghana, che grazie alla scopera di ottimi giacimenti spera di diventare una “tigre africana”. Il presidente del piccolo stato, John Kufour, ha dichiarato, forse ottimisticamente, che il boom energetico non ha prodotto un incremento del livello di sviluppo economico e sociale dei paesi produttori. In Ghana c'è l'occasione di fare qualcosa di più.
Nella sponda americana dell'oceano Cuba sta pensando in grande. Dovrebbe cominciare la produzione in nuovi giacimenti nel 2009 (vi è coinvolta la spagnola Repsol) e le stime parlano di riserve pari a quelle degli Usa e del Messico, con il problema che sono a profondità maggiore. Attualmente lo stato caraibico ne produce molto poco e ricevequello che le serve dal Venezuela in cambio di medici di cui il paese sudamericano ha una grave carenza. Ma punta a diventare uno dei massimi esportatori: con le riserve stimate potrebbe collocarsi fra i primi 20 al mondo. Un bel colpo per l'asfittica economia locale. E' poi di questi ultimissimi giorni l'accordo fra Cuba e Brasile, per cui la compagnia di stato carioca, la Petrobras, avrà i diritti per lo sfruttamento di un gicimento molto importante, situato a meno di 200 Km dalla costa della Florida.
E proprio il Brasile sta programmando l'ingresso nel club dei perforratori a grande profondità. Le prime prospezioni sono molto, molto promettenti, anche se cominciate solo nel 2007: specialmente quello a largo della costa meridionale potrebbe essere il più grande giacimento scoperto al mondo negli ultimi 30 anni. A dimostrazione del potenziale, l'Arabia Saudita a gennaio 2008 ha chiesto allo stato carioca di aderire all'OPEC, ottenendo un cortese rifiuto.
I brasiliani hanno già costruito delle piattaforme offshore però si parla di ritardi nell'inizio della produzione dovuti soprattutto all'adeguamento della legislazione: il governo vuole fermamente evitare un “saccheggio” estero delle risorse e, soprattutto, vuole investire i proventi per ridurre la povertà endemica di una grossa fetta della sua popolazione e per migliorarne l'istruzione.
Fuori dall'area atlantica, è iniziata la produzione di petrolio della Cambogia. Lo stato del sud-est asiatico sta cercando accordi per lo sfruttamento dei giacimenti con la vicina Thailandia. Attualmente sono almno10 le compagnie petrolifere impegnate, ma i cambogiani vorrebbero poterne fare un buon uso interno, e stanno costruendo pure una raffineria. Resta il fatto che finchè non riusciranno a creare una compagnia petrolifera nazionale, sarà dura....
Le esportazioni di petrolio potrebbero raddoppiare il PIL locale, tra i più bassi del mondo. Ma anche qui bisogna vedere se il governo sarà in grado o no di far si che questa ricchezza venga adeaguatamente distribuita. In teoria le intenzioni sono buone, ma non tutte le ONG sono convinte che potrà avvenire.
Il morale della favola è che le riserve accertate di petrolio stanno realmente aumentando, ma che sarà molto costoso estrarlo: infatti nei primi anni 90, con il petrolio a meno di 20 dollari al barile, si bloccò lo sfruttamento di molti giacimenti in cui il costo di estrazione era molto alto. Quindi non è che il prezzo possa diminuire in maniera drastica e i motivi economici si sommano a quelli, gravissimi, ambientali: nessuno pensi di poter continuare a buciare combustibili fossili ai ritmi attuali
Resta comunque l'occasione per alcune nazioni piuttosto povere di provare a migliorare la vita delle popolazioni grazie al petrolio. L'importante è che non si commettano gli errori grazie ai quali paesi ricchissimi di risorse sono in realtà poverissimi.

domenica 2 novembre 2008

E se Otzi fosse un antenato di tutti noi?


In questi gioni ha fatto molto rumore un nuovo articolo sul sequenziamento del DNA mitocondriale di Otzi (o Oetzi... ancora non ho capito bene...), la mummia del Similaun scoperta casualmente nel 1991 sulle Alpi al confine fra Austria e Italia (questa scoperta è stata uno delle poche cose belle da ascrivere allo scioglimento dei ghiacciai provocato dagli odierni cambiamenti climatici).
Su Otzi c'è scritto di tutto, compreso che ci sia una maledizione contro i suoi scopritori (di cui almeno uno è morto in un incidente), fino all'ipotesi che sia morto per la caduta di un meteorite (l'autore di questa ipotesi ammette comunque che è un po' difficile provarla....). Prima o poi ne vorrei parlare, sempre per la serie “insana scienza”, un filone che mi diverte quasi quanto gli IgNobel...
Era già stato accertato da studi precedenti che il DNA mitocondriale di Otzi appartenga all'aplogruppo K (un aplogruppo è una assocazione di aplotipi diversi, cioè di particolari mutazioni in un gene correlate fra loro). Questo tutto sommato ce lo potevamo aspettare: se il K non è un aplogruppo frequentissimo in Europa (lo presenta meno del 10% della popolazione), è molto comune, guarda caso, fra i Ladini. La particolarità è che, in base all'ultimo studio di una equipe di ricercatori coordinata dal professor Franco Rollo dell'Università di Camerino, è stato visto che l'uomo dei ghiacci ha una mutazione genetica particolare, denominata aplotipo K3 che non esiste attualmente (sono documentate persone con gli aplotipi K1 e K2).
Pertanto qualcuno ha subito detto che oggi non vivono più suoi discendenti. Sbagliato. Anzi, se questo signore ne ha avuti, probabilmente è un avo di tutti noi europei. Gli studi sulla mummia hanno dimostrato che l'uomo del Similaun ha vissuto molto per gli standard dell'epoca (46 anni, – un'età sicuramente rispettabile 5000 anni fa) e che nelle ultime fasi di vita ha avuto diversi problemi. Insomma, ha svolto per gran parte della sua vita un'esistenza “tranquilla” e poi sembrerebbe come caduto in disgrazia. Quindi potrebbe aver avuto molti figli,
Lo studio è stato fatto sul DNA mitocondriale. Nelle cellule di quasi tutti gli Eucarioti (fra cui piante e animali) ci sono due DNA, quello nucleare e quello contenuto in particolari organuli interni, i mitocondri. E' più semplice di quello nucleare, registra molto bene le mutazioni e, soprattutto, si tramanda esclusivamente in linea femminile. Le due prime caratteristiche sono estremamente “comode” per i genetisti quanto la terza è discriminante e a seconda dei casi può essere un vantaggio come no. In pratica un uomo può avere anche uno sterminato numero di figli, sia maschi che fenmmine, ma il suo DNA mitocondriale non potrà mai essere ereditato dai suoi discendenti, e se una donna genera solo figli maschi il suo DNA mitocondriale finisce con loro.
Ottenere il DNA mitocondriale è più semplice ed in effetti ancora il DNA nucleare di Otzi non è stato ancora sequenziato.
L'ambiente montano in cui Oetzi ha vissuto, fatto di vallate difficilmente accessibilli, è un mondo in cui gli uomini vivevano separati in piccoli gruppi e quindi un mondo in cui è facile che in un piccolo gruppo appaia e si fissi una particolare mutazione genetica, come è altrettanto facile che si estingua, specialmente se per continuare ad esistere ha bisogno di una linea diretta. Le più deboli a questo proprosito sono proprio il DNA mitocondriale e il suo speculare maschile, il cromosoma Y del DNA nucleare, che si trasmette esclusivamente per via paterna. Otzi quindi viveva in un'ambiente, insomma, in cui si possono fissare e nel seguito perdere tante mutazioni.
Così, non è affatto detto che non abbia discendenti, ma solo che non esistono più discendenti femmine dirette in linea materna della donna nella quale si è manifestata la prima volta la mutazione che ha portato all'aplotipo K3 e che potrebbe essere vissuta ben prima di lui. Punto e basta: non si può assolutamente escludere che non ci siano discendenti in altre linee, tramite almeno un passaggio maschile. Anzi. Se ha avuto figli è molto probabile, se non sicuro, che in qualche modo discendiamo tutti da lui.
Vediamo perchè. Io sono nato nel 1960 e ho due genitori, quattro nonni, otto bisnonni etc etc.
Tenendoci larghi e supponendo di avere una generazione ogni 30 anni, questo vorrebbe dire raddoppiare il numero degli antenati ogni 30 anni. Avrei circa 8.000 antenati nel 1600. Nell'anno mille, 960 anni fa, sarebbero la bellezza di oltre 8 miliardi (per dare una indicazione di massima nel 1200 l'intera popolazione europea era di circa 50 milioni...). Il valore di 30 anni è forse troppo alto: Steve Olson in “mappe della stroria dell'uomo” lo considera di 20 anni e i numeri che ho dato sono quindi inferiori alla realtà. Quindi è altamente probabile che io, come tutti, sia un discendente di chiunque era vivo nel 1200 in Italia e ha ancora discendenti viventi. Ovviamente, discendo da una stessa persona su più linee.
Questo discorso è sempre più vero via via che andiamo indietro nel tempo. E siccome – non è un'ipotesi, ma una certezza documentabile – io, pur stando a Firenze, ho antenati veneti sia in linea paterna che materna, sono ragionevolmente convinto che Otzi, se ha avuro dei discendenti, sia sicuramente un mio antenato! Questo vale per la maggior parte degli abitanti dell'Europa, basta che negli ultimi 2000 anni abbiano un antenato, uno su miliardi teorici, che proviene dall'area delle dolomiti (in 3000 anni tutta la piccola popolazione delle Dolomiti aveva avuto il tempo di avere Otzi come antenato).
L'osservazione è suffragata dai lavori di Joseph Chang, che addirittura ha recentemente dimostrato su basi statistiche come la popolazione di 800 anni fa in un continente come l'Europa si divida grossolanamente in due categorie: quella di chi è diretto antenato di chiunque viva oggi in quell'area e quella di chi non ha attualmente discendenti. L'80% appartiene alla prima categoria.
A questo punto il dibattito verte sulla questione se Otzi abbia avuto figli o no: un articolo sempre pubblicato da Franco Rollo e altri nel 2006 parla di alcuni geni del suo DNA mitocondriale che sembra siano legati a infertilità o quantomeno a ridotta mobilità dello sperma.
Aspettiamo i prossimi studi, soprattutto quelli sul DNA nucleare, molto difficile ad ottenere, per dirimere la questione. Sarebbe bello trovare davvero un gene che ci leghi tutti a questo uomo dei ghiacciai alpini.