venerdì 31 ottobre 2008

Il drammatico impatto della zootecnia sull'ambiente marino

Da anni le organizzazioni ambientaliste e i biologi marini stanno mettendo in guardia per l'eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche. I più minacciati sono tonni e squali ma molti altri pesci non è che se la passino poi così bene.
Il mercato giapponese del tonno e quello cinese delle pinne di pescecane sono gli esempi più additati al riguardo: alcune specie di tonno, come il tonno rosso, sono sull'orlo dell'estinzione o quasi. Per quanto riguarda gli squali la cosa è ancora peggiore, sia perchè quelli grandi hanno un tasso di riproduzione molto basso (e quindi trovano difficoltà a rimpiazzare le perdite), sia per la crudeltà della pesca: la loro carne vale poco e vengono ributtati in mare dopo il taglio delle pinne, morendo dopo atroci sofferenze (in compenso sembra che le pinne degli squali pescati in occidente vengano buttate via per perchè non interessano a nessuno....).
L'allarme è generale. La catena alimentare del mare aperto viaggia soprattutto in base alle dimensioni: in generale un pesce mangia quello un po' più piccolo e viene mangiato da quello un po' più grande. La pesca sta tartassando selettivamente alcune classi dimensionali (quella del tonno e quella del nasello, per esempio), per cui c'è il rischio di aprire dei vuoti dimensionali con conseguenze attualmente incalcolabili (ma probabilmente incontrollabili). I pesci di misura inferiore a quella che tende a sparire, senza la pressione dei loro naturali predatori, tenderebbero ad aumentare spropositamente, opprimendo con una pressione eccessiva quelli di cui si nutrono. Potrebbe essere una catastrofe dalla quale il mare si riprenderà con estrema difficoltà.
Può sorprendere ma anziché i cinesi o i giapponesi, il miglior cliente della pesca mondiale è la zootecnia. In pratica più di un terzo del pescato viene usato (o, meglio, come si legge nell'ultimo numero della rivista Annual Review of Environment and Resources “buttato via”) così. Lo dicono, fra gli altri, Daniel Pauly e Jaqueline Alder, due dei massimi esperti del settore.
Non molti hanno la percezione della quantità enorme di farina di pesce consumata in un anno dalla zootecnia.
Si parla del 37% del pescato complessivo, oltre 30 milioni di tonnellate all'anno, che per il 90% viene convertito in farina di pesce e olio di pesce. Il mangime va per il 46% nell'acquacultura (e fin qui una logica,volendo, ci sarebbe...), il 24% alla suinicultura mentre il settore avicolo ne assorbe un altro 22%. Complessivamente suini e pollame sono i destinatari di una quantità di pesce doppia di quella che va al tanto additato mercato giapponese!
Si tratta soprattutto di pesce di pezzatura medio-piccola, come sardine, acciughe e aringhe, molto nutrienti, che vengono trasformati in farina di pesce e olio di pesce.
I pesci di queste dimensioni e di così alto potere nutritivo sono per gli animali marini più grossi la principale fonte di cibo e infatti sono anche soprannominati collettivamente “pesci-foraggio”, indipendentemente dalla loro posizione nella classificazione zoologica dei pesci.
Uno sfruttamento eccessivo di queste specie avrebbe delle conseguenze spiacevoli: sono il nutrimento di base per una vasta gamma di animali, da pesci più grandi a cetacei, pinnipedi e uccelli marini. Puntualizzo che per “cetacei” intendo quelli di piccole dimensioni (delfini e, al limite, orche). Non comprendo nel novero le balene, piaccia o non piaccia alle nazioni favorevoli alla loro caccia, che volevano dimostrare il contrario per avere una scusa migliore per aumentare i quantitativi di pescato autorizzati: gli studi più recenti, da loro sollecitati, dimostrano proprio il contrario, e cioè che le grandi balene hanno uno scarsissimo impatto sulle quantità di pesci-foraggio.
A scala umana ci sono due risvolti: sono risorse che potrebbero risolvere grossi problemi alimentari in realtà dove la fame la fa da padrona (per questo Alder e Pauly usano il termine “buttare via”), la seconda è che spesso questi pesci sono la base dell'alimentazione delle popolazioni che vivono lungo le coste e che si troverebbero in grosse difficoltà se questi pesci dovessero eccessivamente diminuire di numero per il loro sfruttamento intensivo, anche se non occorre arrivare alla riduzione del numero di pesci-foraggio per provocare problemi alle popolazioni rivierasche di nazioni meno ricche: è chiaro che, nonostante la grande estensione delle acque territoriali e quindi delle zone esclusive di pesca, il prezzo che i pescatori locali possono spuntare nei mercati che hanno bisogno di farina di pesce è più alto di quello che possono ricavare in patria...
Ma perchè la farina di pesce ha questo successo? Perchè costa poco, è molto nutriente e di facile stoccaggio. Molto semplicemente.
Il mondo scientifico si sta muovendo per cercare delle soluzioni alternative. E' evidente che sarebbe auspicabile un ritorno a mangimi provenienti dall'agricoltura. Non è semplice, dato che il quantitativo da ricavare sarebbe enorme e va trovato lo spazio per farlo, impresa non semplice visto che si dovrebbero aggiungere coltivazioni a quelli già esistenti e che in futuro potrebbero richiedere spazio pure le coltivazioni per i biocarburanti
Da ultimo vorrei annotare, sempre a proposito della pesca alla balena, delle voci che mi sono arrivate. Non ho la più pallida idea se siano vere o false e quindi le riporto con il marchio “attendibilità ingnota” e non mi assumo nessuna responsabilità in materia: parrebbe che le ultime campagne di pesca alla balena abbiano prodotto troppa carne. Rimanendo invenduta dovrebbe essere finita nelle scatole di cibo per animali prodotte in estremo oriente....

lunedì 27 ottobre 2008

In Italia le orme più antiche del genere Homo!


In natura non c'è forza più capace di trasformare in tempi brevissimi un territorio come quella vulcanica: un vulcano che esplode – e per fortuna a scala umana non succede molto spesso – oltre al carico di vite umane, fa tabula rasa di quello che c'era intorno e i suoi effetti sul clima si risentono a scala globale. Anche se non esplode, un vulcano può emettere tanta di quella cenere da far crollare i tetti o provocare alluvioni (adesso è successo a Chaiten). Altre volte, come ricordano tristemente a Sarno, i depositi vulcanici non ancora solidificati possono provocare danni immensi, se la pioggia li liquefa, a distanza di centinaia di anni dalla loro deposizione.
Ci sono poi fondatissimi presupposti che una attività vulcanica particolare sia la causa delle principali estinzioni di massa: guarda caso sono sempre avvenute in coincidenza con le eruzioni dei cosiddetti “trappi”, gigantesche coltri laviche che hanno sepolto intere regioni sotto centinaia di metri di lave basaltiche. A questo proposito annotiamo la contemporaneità con la più recente estinzione di massa, quella della fine dell'era mesozoica di un ciclo di eruzioni del genere nell'India meridionale: i trappi del Deccan hanno un volume di centinaia di migliaia di kilometri cubici di lava e non abbiamo la più pallida idea di quanti gas siano stati emessi all'epoca in atmosfera. C'è quindi la fondata possibilità che queste e non l'asteroide dello Yucatan abbiano provocato la fine dei dinosauri.
Però se non ci fossero le eruzioni non ci sarebbe neanche il loro “motore”, la dinamica terrestre, per cui non ci sarebbe neanche la vita sulla terra. E notoriamente il suolo nelle aree circostanti è più fertile. Quindi i vulcani rappresentano, assieme ai terremoti, un po' come un “pedaggio” che la vita paga sulla Terra per esistere,
Nel contempo sono molto utili per chi ha da studiare il passato del nostro pianeta, anche molto recente: i livelli vulcanici (ceneri, tufi, anche lave) sono spesso databili grazie al decadimento radioattivo di alcuni isotopi che vi sono contenuti e forniscono una scala “assoluta” del tempo rispetto a quella “relativa”, stabilita dalla successione degli strati e dalla loro età relativa desunta dallo studio stratigrafico. In soldoni, si riesce a datare con una eccellente precisione i limiti fra un periodo geologico ed un altro.
C'è poi un altro capitole: i vulcani hanno permesso la conservazione di tracce di vita di cui altrimenti si saprebbe poco, se non nulla
L'esempio più classico è Pompei: senza mancare di rispetto per chi ci è morto, specialmente di coloro di cui sono rimasti i calchi, come avremmo potuto avere oggi una “fotografia” precisa di una città del tempo di Roma Classica se il Vesuvio non fosse esploso nel 79DC?
Nelle ricostruzioni paleocimatiche le differenze nello spessore dello stesso tufo fra una zona e l'altra mostrano l'esatta circolazione dei venti al momento dell'eruzione.
I vulcani hanno aiutato molto anche i paleontologi: nei tufi dei vulcani andini si trovano fossili che hanno agevolato non di poco la ricostruzione della fauna tipica del Sudamerica prima dell'irruzione delle faune nordamericane, all'epoca del “grande interscambio Americano”, quando i due continenti si unirono con la formazione dell'istmo di Panama
La paleontologia umana e l'antropologia sono in debito con i vulcani per altre impronte: a Laetoli, in Tanzania, sulle ceneri dell'eruzione di uno dei vulcani della Rift-Valley di 3 milioni e mezzo di anni fa, sono impresse, assieme a quelle di una variegata fauna, le più antiche impronte di ominidi bipedi della storia. Quello che forse non tutti sanno è che se quelle africane sono le impronte più antiche di un ominide bipede, quelle più antiche sicuramente ascrivibili al genere Homo sono italiane!
Le scoprì sul vulcano di Roccamonfina Adolfo Panarello, un personaggio davvero geniale che studia da anni il territorio a cavallo tra Lazio e Campania. Per la verità le “ciampate del diavolo” erano già note: la leggenda voleva che erano state impresse dal diavolo in persona che camminò sulla cenere rovente. Ma dobbiamo al Dottor Panarello l'intuizione di cosa fossero davvero, che ci descrive la sua scoperta in una pubblicazione regolarmente scaricabile dal suo sito.
Dopo aver scartato tutte le altre ipotesi, lui e il suo amico Marco De Angelis hanno fatto l'unica cosa che una persona seria potesse fare: anziché farsi pubblicità in televisione, cercarono di contattare degli esperti e quindi, pur rimanendo fra i protagonisti della vicenda, hanno fermamente voluto una conferma da parte della comunità scientifica. Di sicuro hanno avuto molto coraggio: come ammette lo stesso Panarello, avevano paura – anzi erano quasi certi – di non essere creduti: in fondo è quasi impensabile che ci sia una cosa del genere in un luogo abitato da tanto tempo – dove nessuno si è mai accorto della sua origine – e non in un deserto dell'Asia centrale o in una savana africana.
Per fortuna non solo sono stati credudi, ma a Roccamonfina c'è stata una processione di studiosi, anche non italiani, di varie discipline: geologi, geochimici, vulcanologi, paleontologi, antropologi etc etc.
Il Roccamonfina è un vulcano posto nella Campania Settentrionale, quasi al confine con il Lazio. Attulmente spento, inziò la sua attività 630.000 anni fa, molto intensa fino a 200.00 anni fa, dopodichè si registrano davvero pochi eventi degni di nota, l'ultimo dei quali è datato a circa 50.000 anni fa.
Un bel giorno, poco tempo dopo che una eruzione aveva sparso una bella coltre di cenere sulla zona, un gruppo di ominidi del genere Homo ha camminato su un versante particolarmente scosceso, tanto che nella roccia sono impressi anche orme di mani, evidentemente messe in terra per appoggiarsi e addirittura – parrebbe – di un'anca. Oltre a quelle umane ce ne sono altre, ancora non studiate e qualcuno sta pensando a scavi in località limitrofe per vedere se ci siano, sepolte, altre piste.
A quale Homo appartengono queste impronte? Non di sicuro all' Homo Sapiens geneticamente moderno ed è escluso che siano quindi antenate degli europei moderni, come invece lo è il molto posteriore scheletro di Paglicci. Certamente ritrovare dei maufatti litici associati a queste tracce sarebbe importante. La datazione più precisa è di 345.000 anni fa (con una forbice di 6.000 anni in più o in meno). E' stata ottenuta recentemente da una equipe francese e mi è stata personalmente comunicata dal Dottor Panarello che ringrazio per l'attenzione. Quindi si può pensare a Homo Eidelbergensis o a Homo Neandertalensis.
L'importante ora sarebbe che queste orme vengano conservate con la cura che meritano: pensare che proprio in Italia ci sia una testimonianza così importante dovrebbe farci inorgoglire, ma purtroppo bisogna anche stare attenti ai danni che nella fragile roccia potranno fare il tempo, i vandali e dei malintenzionati collezionisti. Per fortuna sono collocate nel Parco Regionale Roccamonfina e Foce del Garigliano, dal cui sito è tratta la fotografia che introduce questo post. E questo ci garantisce una certa tranquillità, al contrario del sito di Laetoli a cui sembra che il tempo stia provocando dei danni.

sabato 18 ottobre 2008

Le lucertole di Pod Mrcaru: un caso sorprendente (ma non troppo) di come le vita si evolve anche molto velocemente


Nel 1971 dei ricercatori, capeggiati dall'israeliano Eviatar Nevo hanno immesso a Pod Mrcaru, un'isoletta (0.03 km2) della costa croata, 5 coppie della “classica” lucertola italiana Podarcis Sicula (illustrata nella foto estratta da wikipedia), provenienti dalla vicina isola di Pod Kopiste (0.09 km2). Solo dopo 30 anni altri ricercatori sono tornati sull'isola e hanno trovato una sorpresa: in un articolo pubblicato dalla rivista PNAS, Proceedings of the National Academy of Sciences da un team di biologi europei e americani si legge che non solo le 5 coppie hanno avuto una nutritissima discendenza (e la densità di popolazione è maggiore rispetto a quella dell'isola di provenienza), ma probabilmente bisogna ascrivere alla Podarcis Sicula la colpa dell'estinzione della lucertola precedentemente endemica dell'isola, la Podarcis Melisellensis.
Questo di per se è sicuramente interessante, ma c'è di più. Dopo 36 anni e 30 generazioni le lucertole hanno cambiato la dieta, passando da una insettivora ad una molto più erbivora: non ci sono differenze alimentari fra i sessi e le piante contribuiscono alla dieta per il 34% in primavera e per il 61% in estate. La popolazione da cui sono state tratte invece si nutre pochissimo di piante (non più del 4% della dieta).
Il cambio di dieta è associato ad alcuni cambiamenti nell'anatomia degli animali. Il più appariscente è una testa più grande, che consente un morso più forte per poter strappare pezzi più piccoli di foglie e di altre parti delle piante ricche di cellulosa. Tra il piccolo e il grande intestino, queste lucertole hanno sviluppato la valvola ileo-cecale, grazie a cui aumenta la permanenza del cibo nel condotto, permettendo ai nematodi che vi vivono (assenti nella popolazione originaria) di trattare meglio la cellulosa. Inoltre la popolazione di Pod Mrcaru ha gambe più corte e prestazioni velocistiche minori, probabilmente perchè la maggiore copertura vegetale del nuovo territorio consente di nascondersi più facilmente (e inoltre di predatori non se ne vedono).
Nonostante le evidenti differenze, non possiamo parlare di una nuova specie: da un punto divista genetico questa popolazione non è ancora distinguibile da quella originaria.
Cosa ha permesso un'evoluzione così rapida? E, soprattutto, è un fenomeno strano e raro di cui sorprendersi?
Si conosce l'inizio della storia e la situazione attuale ma non abbiamo “fotografie” tra il 1971 e il 2004, quindi non possiamo sapere come e quando sono avvenuti il cambio di alimentazione, la comparsa delle varie modificazioni e l'estinzione della Podarcis Melisellensis.
Lucertole erbivore sono note dall'inizio del cretaceo (Kuwajimalla kagaensis - rinvenuta in Giappone) e in generale sono tutte caratterizzate da un cranio più grande rispetto alle loro parenti più strette dalla dieta prettamente insettivora. Un altro parametro che lega a Pod Mrcaru l'alimentazione all'incremento delle dimensioni della testa è che è stato maggiore nelle femmine, che partivano da teste più piccole.
E' evidente che nel caso della testa siano state seguite delle “regole evolutive”, o, meglio, tutte le lucertole erbivore manifestano una “evoluzione convergente” che dimostra l'utilità di questa forma.
Per quanto riguarda la valvola ileo-cecale, ne sono dotati solo il 5% degli squamati. La cosa messa così appare quantomeno strana: una struttura che qualche volta c'è e spesso no, e che in questo caso “ricomparirebbe”. Ho indagato un po' (ammetto di essere piuttosto ignorante in materia) e ho visto che anche l'uomo ne è dotato (separa l'intestino cieco). Quindi si tratta di un organo evidentemente atrofizzato o quasi nel restante 95% degli squamati (o forse attivo in uno stadio molto giovanile). A Pod Mrcaru le lucertole hanno semplicemente riesumato un qualcosa che c'era già anche se non funzionava. Al solito una mutazione genetica si è dimostrata estrememente utile ed è riuscita a fissarsi nella popolazione.
Parlando invece della velocità a cui sono apparse le variazioni dal fenotipo originario, è ormai acclarato che fenomeni di evoluzione rapida non sono rari e quindi possiamo sicuramente affermare che il caso croato, sia pure interessantissimo, non sia un fenomeno isolato e clamoroso come potrebbe apparentemente sembrare e avviene soprattutto quando pochi individui appartenenti ad una specie entrano in un nuovo territorio.
E' comunque noto che questo può succedere anche dove una popolazione è già diffusa: biologi e zoologi stanno incominciando a capire che spesso in natura una specie può dare origine ad un'altra che la sostituisce in un tempo molto breve. Ma non tutta la popolazione contribuisce al cambio: una piccola popolazione, che per una mutazione o altro acquisisce vantaggi sui suoi simili, li soppianta completamente perchè ha una qualche caratteristica che la rende più adatta rispetto alla massa.
La caratteristica comune fra le due situazioni è l'effetto del “collo di bottiglia” (cioè il basso numero di fondatori) che, se da un lato toglie alla discendenza la variabilità genetica tipica di una popolazione più larga, dall'altro permette di focalizzare dei caratteri particolari e, soprattutto, di rendere estremamente frequenti – se apparse quando la popolazione era ancora ristretta – variazioni che in una popolazione numerosa potrebbero avere molte difficoltà ad affermarsi pur mostrandosi vantaggiose.
Ci sono alcuni esempi “classici”: una popolazione di salmoni a cui sono bastate solo 13 generazioni per avere un isolamento riproduttivo, come ce ne sono volute una settantina al topo domestico per modificarsi pesantemente dopo la sua importazionetici in un'isola della costa gallese. Casi particolarmente noti sono quello dei passeri domestici importati in America (e che addirittura hanno sviluppato forme diverse in ambienti diversi) e quello di alcuni piccoli pesci molto colorati, che hanno cambiato colore probabilmente in risposta alla pressione di predatori.
E nella lista, concettualmente molto darwiniana, potevano forse mancare le Galapagos? No! Fra i famosi fringuelli di queste isole è stata documentata una variazione di forma e dimensioni del becco, legata alla diversa abbondanza di alcune specie vegetali (correlata all'alternanza fra anni più secchi ed anni più umidi) di cui questi uccelli si nutrono. In un caso c'è stata una quasi completa sostituzione della vecchia forma del becco in meno di 4 anni....
Sono tempi che fanno quasi impallidire le velocità a cui si sono fissate razze di animali addomesticati dall'uomo e in cui gli allevatori hanno potuto provvedere spesso ad accelerare la selezione decidendogli accoppiamenti (e dove probabilmente ha giocato molto anche l'effetto del collo di bottiglia).
Gli esempi, ovviamente, non si limitano ai vertebrati: c'è un'ampia casistica negli invertebrati, soprattutto negli insetti.
In confronto i quasi 20.000 anni che sono serviti per arrivare a Kakaban , un'isola nel mare di Celebes, all'adattamento ad acque ben meno salate di molte specie, è un tempo lunghissimo.
La rapida colonizzazione di Pod Mrcaru e tutti gli altri esempi visti sopra aiutano anche la comprensione di come pochi “fondatori” abbiano potuto produrre una sorprendente varietà a seguito di importanti “radiazioni evolutive” (come quella dei placentati in America Meridionale, quando pochi milioni di anni fa i due continenti si collegarono).
E anche di come una specie endemica di un luogo isolato, rischia di trovarsi impreparata davanti all'arrivo di un nuovo concorrente o di un nuovo predatore, come è successo a molti uccelli non volatori nelle isole dell'oceano Indiano e dell'Oceano Pacifico (a parte i casi di sterminio da parte dell'uomo) e, sempre durante il “grande interscambio americano”, alla maggior parte della fauna sudamericana del del tempo.

martedì 14 ottobre 2008

Come fare disinformazione in televisione con disinvoltura: Voyager e il caso delle pietre di Ica


Non è mio costume attaccare qualcuno. Ammetto di aver dichiarato guerra da tempo ad alcune categorie: creazionisti, astrologi (e chi li segue) e quelli che sono contrari alle tramvie a Firenze. In generale evito di polemizzare direttamente con qualcuno, ma quando è troppo, è troppo. Mi riferisco a Roberto Giacobbo e alla sua trasmissione disinformativa Voyager.
Dopo le mummie egizie ritrovate in Arizona (passate sicuramente per Atlantide....), nella prossima puntata si parla di nuovo delle pietre di Ica, in Perù. A questo seguiranno – nella stessa puntata – altre panzane come i cerchi nel grano in rapporto ai Maya (con la solita storia della fine della nostra era nel 2012) e un servizio su persone rapite dagli alieni.
Mi ricordo diversi anni fa un'altra trasmissione del solito ineffabile presentatore sempre sulle pietre di Ica che mi fece semplicemente rabbrividire, specialmente per il tono del presentatore, apparentemente rigoroso da un punto di vista scientifico (il termine imbonitore si adatterebbe meglio) e per le domande e le considerazioni che arrivarono da parte dei telespettatori
Il trailer su internet della prossima puntata ci dice: "Roberto Giacobbo torna in Perù, e più precisamente a Ica, 200 km a sud della capitale Lima, per raccontare una storia al limite dell’incredibile: è possibile che esistano pietre molto antiche, particolarmente dure, con raffigurazioni che non dovrebbero esistere? Chi avrebbe scolpito, alcune migliaia di anni fa ed in maniera praticamente perfetta, scene di caccia con uomini e dinosauri insieme? Ma anche incisioni di mappe geografiche, costellazioni, strumenti ottici, trapianti di organi e macchine volanti? Un caso straordinario che ha visto coinvolte anche le maggiori università americane ed europee: saranno mostrati i risultati delle loro analisi".
Ovviamente al primo dei quesiti rispondo di no. E graniticamente (è il caso di dirlo, anche sapendo che pietre sono...). Notare che il dire “pietre particolarmente dure” nasconde abilmente un altra questione: come è stato possibile intagliare in questo modo con le tecniche che secondo la scienza erano a disposizione all'epoca? Per arrivare a presupporre quindi qualcosa di straordinario, aggiungendo mistero a mistero...
Cominciamo con una osservazione: che siano coinvolte “le maggiori università americane ed europee” è una osservazione mi lascia veramente perplesso....
Ora, nei numerosi siti scientifici che leggo quotidianamente e nelle varie newsletter che mi arrivano tutti i giorni mai (e ripeto mai) mi arrivano notizie su questa che se confermata sarebbe veramente una cosa straordinaria....
Ma cosa sono queste pietre di Ica? In sostanza, come afferma Mauro Paoletti in una recensione su un libro che parla dell'argomento, pubblicata su “edicolaweb”, in questa località del Perù si rinvengono (il termine più corretto secondo me sarebbe “si rinverrebbero”) pietre vulcaniche (andesiti, comunissime nelle Ande), con sopra incise varie raffigurazioni di animali (solitamente estinti), oggetti come astronavi e animali, mappe della terra e del cielo etc etc.. Fra gli animali spiccano dinosauri e un “grande pipistrello oviparo”, (quest'ultimo forse uno pterosauro?), e addirittura un ostracoderma (un pesce dell'ordoviciano).
Ce ne sono alcune che raffigurano uomini a cavallo di dinosauri e altre che ci propongono, secondo una fonte, un “sistema di riproduzione come gli anfibi e non come i rettili” di stegosauri e triceratopi (forse raffigurano... girini di stegosauro....?).
Contemporaneamente ci sono anche raffigurazioni di “un cavallo a 5 dita” e di animali come elefanti, lama etc etc.
Secondo l'autore le prime notizie queste pietre risalgono ai primi tempi della penetrazione spagnola in queste terre.
Comunque nessun ricercatore è riuscito a vedere queste pietre “in situ” se non il suo primo scopritore, un medico, tal Javier Cabrera Darqea questo è, onestamente, affermato anche su diversi siti che le ritengono “vere”). Anzi, secondo altri siti i primi esemplari gli furono portate da dei contadini. Questo pone già il problema fondamentale sull'autenticità dei ritrovamenti: in un qualsiasi lavoro scientifico, se trovo qualche cosa, pubblico almeno una foto del sito del ritrovamento... Fare tante dissertazioni senza che nessun altro abbia visto il posto non è molto logico.
C'è chi sostiene che alcune di queste pietre possano essere autentiche e le data a circa 12.000 anni fa. Benissimo: la datazione sarebbe coerente con la presenza di elefanti e di altri animali di grande taglia (come il bradipo gigante) che sono stati steminati dalle popolazioni primitive (per chi lo volesse vedere, mi sono già occupato di questo argomento). E, quindi, qualcuna di queste pietre potrebbe davvero essere vera. Solo che poi, come il primo che ha disegnato un cerchio nel grano, qualcuno ha nasato l'affare (Cabrera stesso?) e ha cominciato a produrne di false.
Non solo, ma un contadino avrebbe ammesso di averne fabbricate, precisando di averle poi messe in un pollaio per anticarle. E sembra che lo stile di quelle “ritrovate” negli anni 60 sia molto più approssimativo di quello delle ultime, sia nel disegno che nel taglio. Non solo questo è in qualche modo un pò “sospetto”, ma costituisce un'altra analogia con i cerchi nel grano, che hanno avuto nel tempo una evoluzione stilistica nel senso di una maggiore raffinatezza.
I cultori della scienza mi scuseranno di tutti questi “se” e per l'abbondante uso di condizionali: sono sicuro che capiranno il perchè.
Altri ritrovamenti di pietre con lo stesso significato sono (o, meglio, sarebbero) avvenuti in altre parti dell'America Latina. Qualcuno afferma che ci siano scene in cui è dimostrabile che gli uomini avevano addomesticato i dinosauri. Triplo mah... Ancora una volta non dubito che ci siano queste raffigurazioni, ma dire che ho dei grossi dubbi sulla loro autenticità è un eufemismo...
Leggendo alcuni scritti dei sostenitori dell'autenticità di questi manufatti arriviamo non solo fino a dire che ci sono raffigurate delle carte in cui si vedono altri continenti in mezzo al mare, come Atlantide e il “continente Mu” (strano....), ma a delle conclusioni semplicemente allucinanti come la presenza di orme umane accanto a orme di dinosauri. Mauro Paoletti cita nella recensione diversi esempi del genere, ma commette almeno una imprecisione che può svelare l'arcano: nel sito di Laetoli c'è effettivamente una serie di impronte a tre dita tipica dei dinosauri, peccato che... siano così anche quelle degli ultimi discendenti dei dinosauri, gli uccelli.
In quanto ad asserire che ci sono impronte umane in sedimenti del giurassico (o addirittura scheletri umani accanto a quelli di dinosauri...) mah... a quell'epoca i mammiferi erano molto diversi, e come potessero già esistere primati moderni proprio non saprei. Inoltre se in diversi siti si favoleggia di impronte umane nel giurassico, mai nessuno che ne abbia trovata una nel terziario inferiore (o almeno nel Cretaceo).... Notiamo poi che spesso questi autori fanno un po' di confusione fra dinosauri giurassici e dinosauri cretacei: un tirannosauro (tipico carnivoro del Cretaceo Superiore) non può aver mai visto uno stegosauro, creatura estintasi qualche decina di milioni di anni prima, prima ancora della fine del Giurassico....
Alla fine diciamo che c'è effettivamente la possibilità che gli abitanti della zona di Nazca di 12.000 anni fa abbiano realmente raffigurato degli animali e degli uomini in pietre andesitiche. Senonchè qualcuno ha poi nasato l'affare, alle spalle dei milioni di creduloni esistenti al mondo, imitato presto da altri furbetti in altre zone o imitando qualcuno che diceva di aver fatto scoperte analoghe altrove. E ne è nato quello che è nato.
Ora, vabbè l'Audience... ma usare la Televisione pubblica per simili programmi e simili idiozie mi pare veramente troppo. Soprattutto per l'impostazione che viene data alla trasmissione e la voglia di trovare delle spiegazioni alternative e assolutamente in contrasto con la scienza, che ovviamente viene tacciata del più bieco oscurantismo.
Non c'è bisogno di simili trasmissioni! C'è molto da scoprire, d'accordo. Ma non così.
E' vero che alcune ipotesi scientifiche prima di essere accettate sono state derise dalla comunità scientifica stessa: negli anni 50 ad un professore americano che andava in pensione gli fu regalata un'ancora “per tenere ferma l'america”. Poi nel 1963 l'immenso John TuzoWilson pubblicò il famoso articolo “La tettonica a zolle crostali”. E l'ancora cominciò a dimostrarsi utile...
Ma qui siamo davanti ad un evidente caso di mistificazione e di diffusione di notizie false, reiterata in più anni di cicli di trasmissioni

domenica 12 ottobre 2008

Dal Vesuvio un nuovo modello su come "funzionano" gli stratovulcani


Gli stratovulcani sono vulcani caratterizzati da una forma a cono con pareti molto inclinate, creata da distinti episodi magmatici, sia effusi(colate laviche),sia esplosivi (depositi di ceneri e lapilli) che producono materiali che si sovrappongono nel tempo uno sull'altro. Sono i vulcani più diffusi nel mondo e costituiscono l'osssatura delle catene vulcaniche che circondano il Pacifico. I vulcani italiani appartengono a questa categoria e tra questi c'è “il” vulcano per eccellenza, il Vesuvio.
I geofisici hanno inequivocabilmente stabilito la presenza sotto il Vesuvio di una “camera magmatica” (una zona piena di magma liquido) ad una profondità di circa 10 kilometri. Per ottenere questo dato i ricercatori hanno sfruttato le onde sismiche, sia quelle prodotte artificialmente che quelle dei terremoti reali, un sistema analogo a quello che si usa negli ospedali per fare una TAC (e infatti questa tecnica si chiama “tomografia sismica”). Insomma, hanno fatto una specie di TAC alla crosta terrestre sotto Napoli.
Nel luglio scorso una equipe italo-francese ha pubblicato su Nature un articolo in cui dimostrano che i minerali delle lave dell'ultimo ciclo vesuviano si sono cristallizzati a profondità molto diverse. In particolare, se nell'eruzione che ha dato inizio all'ultimo ciclo dopo centinaia di anni di quiete (quella che distrusse Pompei nel 79 DC), ci sono chiare indicazioni di un episodio di cristallizzazione a 8/10 km di profondità, quelle delle eruzioni successive mostrano un aggregato di minerali più compatibile con una cristalliazzazione a profondità minori. Per questo hanno sviluppato l'idea della presenza di due camere magmatiche, una “permanente” (quella a 10 km di profondità), e una molto più superficiale, formatasi dopo il 79 DC e responsabile dell'attività magmatica fino al 1944. Questa camera superficiale adesso o si è svuotata definitivamente o si è del tutto solidificata.
I cicli intermittenti di attività del Vesuvio sono noti: negi ultimi 8000 anni tre grandi eruzioni pliniane (8000 AC, 3800 AC e 79 DC) e qualche eruzione subpliniana hanno ciascuna dato il via ad un ciclo eruttivo più o meno lungo a cui è seguita una stasi dell'attività fino alla esplosione successiva. I ricercatori propongono un modello in cui i cicli di attività del vulcano sono dovuti ad una grande eruzione (pliniana o sub-pliniana) che forma sopra la camera magmatica principale una camera più superficiale e durano finchè quest'ultima riesce ad alimentare le eruzioni. Personalmente diffido un po' dei geochimici, soprattutto per la pretesa che hanno di dettare legge sul regime tettonico a partire dai loro dati (salvo arrampicarsi sugli specchi parlando dei bacini di retroarco, dove convivono uno accanto all'altro magmi originatisi in contesti tettonici molto diversa dal punto di vista geochimico...): secondo loro, i dati che forniscono sono risolutivi e tutti gli altri ricercatori nel campo delle Scienze della Terra devono adeguarsi. Con questo, attenzione, non voglio dire che i dati geochimici non servano... tutt'altro. Sono stati, sono e saranno sempre estremamente utili. Ma vanno integrati con gli altri senza la pretesa di erigersi a giudici o a salvatori della patria.
L'unico appunto che mi sento di fare a questo modello molto interessante e – soprattutto - estremamente verosimile, sul Vesuvio è che mi devono spiegare come mai non esistono più tracce della camera magmatica superiore appena 60 anni dopo l'ultima eruzione.
D'altro canto, prendendo un altro stratovulcano, anche se molto atipico come l'Etna, si vede chiaramente come l'eruzione di quest'anno sia stata “preparata” da una risalita improvvisa del magma da una zona più profonda: incuriosito da un terremoto che avvenne a 30 km di profondità sotto il colosso siculo andai a scartabellare i dati dell'INGV (l'Istituto Nazionale di Geofisica). Dopodichè scrissi una mail al mio amico Ignazio Burgio di CataniaCultura dicendogli che per me l'Etna stava andando in eruzione, cosa che puntualmente avvenne una settimana dopo (escludo che Ignazio, conoscendomi, pensi che io sia un mago od un oracolo, data la mia nota avversione per i personaggi del genere....).
Di recente un'altra equipe di ricercatori è giunta a conclusioni simili sull'alimentazione delle eruzioni di uno statovulcano studiando Soufrière Hills, nell'isola di Montserrat (Piccole Antille). Dalla sua scoperta aveva prodotto solo una piccola eruzione nel XVII secolo. L'attività è ricominciata nel 1995 e fra l'altro ha distrutto Plymouth, il capoluogo dell'isola (prontamente fu istituito un osservatorio che genera una costante informazione anche in rete). Mvo.ms. Dal 1995 l'attività di Soufrière Hills è contraddistinta da fasi alternate di attività e di pausa.
In questo caso sono stati i geofisici a proporre un meccanismo simile a quello ipotizzato per il Vesuvio. Le prove di questo stanno nella deformazione del terreno che in qualche modo è costante (dimostrando un continuo afflusso di materiale dal basso) e non presenta picchi particolari durante i periodi di parossismo eruttivo. Quindi alla base dell'alternanza di fasi eruttive e di quiete all'interno di questo ultimo ciclo eruttivo- il ruolo scatenante o calmante è dato dalla dinamica delle interazioni fras le due camere magmatiche.
Due indizi non fanno una prova, ma visto che sono stati ottenuti in maniera indipendente da vulcani diversi e da metodi di ricerca diversi e visto che, notoriamente, in molti stratovulcani l'attività si concentra in cicli distanziati fra loro da fasi di quescenza, questo quadro getta una luce diversa su tutta la dinamica interna dei vulcani e tutto sommato si adatta molto bene al concetto di “cristallizzazione frazionata”, secondo il quale il magma che risale in superficie non è quello originariamente prodotto, ma il risultato di modifiche anche importanti nella composizione del liquido durante la risalita. Ciò avviene sia assimilando materiali del condotto, sia, soprattutto, lasciando i minerali più pesanti e/o, raffreddandosi, quelli che solidificano a temperature più alte. E sicuramente il frazionamento può avvenire più facilmente allorquando il magma stazioni in una camera magmatica in attesa di proseguire la risalita.
Il modello proposto, se applicabile ad altri vulcani, può anche alternativamente semplificare o complicare (a seconda del punto di vista) le tecniche per la previsione delle eruzioni. Capire che l'attività di un vulcano sia (o sia stata) collegata all'esistenza di una camera superficiale alimentata da una più profonda può farci ulteriormente dividere i vulcani attivi in quiescenza tra quelli in una quiescenza più profonda, dovuta alla attuale mancanza di attività nella camera superiore e quelli in quiescenza transitoria, in cui una eruzione dalla camera più superficiale è molto probabile. Nel primo caso la probabilità di avere una eruzione nell'immediato è magari bassa ma con estrema pericolosità se accade (spesso la prima eruzione dopo il risveglio è appunto un'eruzione pliniana). Nel secondo una nuova eruzione è altamente probabile, ma gli eventuali danni saranno limitati all'area interessata dalla colata e dai flussi piroclastici, e non ci saranno particolari rischi di eruzioni distruttive come nel primo caso.
E, quindi, anche le misurazioni e le osservazioni per prevedere un'eruzione andranno adeguati alla particolare situazione del vulcano da osservare.
Da ultimo, sarei molto curioso di sapere se la situazione sotto il Chaiten possa essere in qualche modo simile a questa. Ma è una curiosità difficilmente appagabile...

giovedì 9 ottobre 2008

Vati, oroscopi, sibille, guaritori e Piero Angela con il CICAP

Il caso della nota imbonitrice televisiva e della sua allegra famiglia, figlia e “ganzo” brasiliano compresi, non è che la punta dell'iceberg di un fenomeno drammaticamente presente nel mondo di oggi, alla faccia di chi aveva previsto che il XXI sarebbe stato “il secolo della scienza e della conoscienza”. Altro che storie! Guaritori, maghi, gli oroscopi che da accessori di programmi televisivi diventano addirittura il soggetto vero e proprio della trasmissione e chi più ne ha più ne metta. E, anzi, la sottocultura dell'oroscopo sta prendendo sempre più piede, tanto che una delle prime domande che ti pongono è “di che segno sei?”. Io continuo a rispondere di essere “dell'Orsa Maggiore” e nessuno ci casca, dimostrazione che, almeno su questo nessuno ci casca (da qui a sapere cosa sono in realtà e come sono nati i segni zodiacali, però, il percorso è lungo...)
Tanta gente campa sui cosiddetti “gonzi”, in genere persone prive di cultura scientifica o psicologicamente provate da drammi personali: una pletora di truffatori che si spacciano per maghi o vati, guaritori etc etc (qualcuno smascherato da una nota trasmissione televisiva), santoni. Bei tempi quando i “maghi” dicevano “c'è il trucco, vediamo se lo scoprite”.
Purtroppo (o per fortuna, dipende sempre dal bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto) questo non è un fenomeno solo italiano, ma internazionale. Pensiamo ai cerchi nel grano, al successo in America di quella donna che dice di vedere i morti accanto alle persone vive, ai libri che pubblica e al consenso che riscuote, per ritornare a casa nostra, a una trasmissione della televisione pubblica (e quindi pagata da tutti noi) che parla di misteri scimmiottando un rigore scientifico che offende tutte le persone serie.
Per controbattere questi temi, tempo fa invitai a sottoscrivere la petizione e la proprosta di legge della UAI (Unione astrofili Italiani) per ottenere che i programmi televisivi dicessero chiaramente prima degli oroscopi che quanto detto non ha fondamenti scientifici.
Registriamo un successo del fronte anti-creduloneria in Gran Bretagna, dove una legge, applicando una direttiva dell'Unione Europea stabilisce che chi svolge pratiche esoteriche deve avvisare i propri clienti che la loro prestazione è un semplice intrattenimento e non si fonda su alcuna sperimentazione. Aspettiamo una cosa simile in Italia, con poche speranze....

Fra i pochi che cercano di inculcare un po' di chiarezza in questo mare di idiozie c'è il CICAP, il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale. Questi signori, fra i quali cì sono nomi illustri della Scienza Italiana come Margherita Hack e Massimo Polidoro e del giornalismo come Piero Angela cercano di fare quello che possono. Purtroppo lo sforzo è titanico, perchè chi crede a queste storie se ne sbatte del CICAP (e della scienza in generale) e chi non ci crede solitamente evita di partecipare ad una campagna che fondamentalmente gli interessa poco.
Per questo, ricevendo dal CICAP questa E-mail di Piero Angela sul convegno che si è svolto a Padova ai primi di ottobre (e che ha il registrato il tutto esaurito), la rimetto direttamente tale e quale on-line.

E’ un dato oggettivo, infatti, che a fronte delle tante iniziative intraprese dal Comitato (l’indagine, la sperimentazione e la verifica su misteri e fatti insoliti, la pubblicazione di riviste e libri, l’organizzazione di conferenze e convegni, la presenza su Internet, gli interventi sui media, la consulenza a giornalisti e a tutti coloro che ci interpellano...) il numero di persone che si impegna, anche solo sottoscrivendo un abbonamento alla rivista Scienza & Paranormale, non sia sensibilmente cresciuto negli anni.

"Oggi, venendo qui, il tassista mi ha chiesto: “Ma i fondi chi ve li dà?”» ha continuato Angela. " "Nessuno", gli ho risposto. Non prendiamo un euro né dalle istituzioni, né da privati, né da sponsor. Ci paghiamo tutto di tasca nostra. Persino la sede, a Padova, ce la siamo comprata raccogliendo sottoscrizioni tra i soci. Siamo andati avanti anni per mettere insieme i soldi necessari: 50 euro qui, 100 là, 10 dall’altra parte... E alla fine ce l’abbiamo fatta. Io credo che questo spirito di partecipazione e di condivisione di obiettivi comuni che anima i soci del CICAP sia qualcosa di bellissimo.

"Ed è per questo che vorrei che al CICAP aderissero molte più persone. Diventare soci del CICAP è qualcosa di molto gratificante. Per noi, certo, perché significa che il nostro lavoro viene apprezzato, ma soprattutto per chi diventa socio. Perché è una cosa pulita e bella, dove non si entra per fare carriera o per diventare ricchi, ma si ha la certezza di fare qualcosa di utile tanto per gli altri quanto per sé stessi. Trovo che il CICAP sia una vera e propria scuola intellettuale, una palestra insostituibile per il cervello. Non ho difficoltà ad ammettere che spesso ho imparato molto di più sulla scienza occupandomi di pseudoscienza, piuttosto che di ricerca scientifica vera e propria. Perché qui si vede l’altra faccia della scienza e improvvisamente si illumina il paesaggio. Si capisce l’importanza dei controlli, la necessità delle verifiche, di avere un metodo e di avere quel sano scetticismo che è quello che ci tutela e che ci impedisce di cadere nelle trappole".

In occasione del ventennale del CICAP, il prossimo anno, il Comitato intraprenderà una serie di iniziative volte, oltre che a fare il punto su questi 20 anni di lavoro, anche a capire come rinnovarci e attrezzarci per affrontare il futuro. Lo stesso Convegno di Padova ci ha portati a riflettere sul fatto che in questi anni il panorama della disinformazione è enormemente cambiato e si è fatto, se possibile, ancora più insidioso e difficile da controbattere. Se un tempo erano gli Uri Geller, i medium o gli astrologi a tenere banco, oggi la pseudoscienza agisce in modo molto più subdolo. Il CICAP continua naturalmente a occuparsi di tutte queste cose, ma si trova anche ad affrontare, per esempio, i problemi e i rischi per la salute che derivano dalla diffusione di forme di pseudo terapie mediche la cui efficacia non è mai stata dimostrata. Nonostante questa mancanza di prove, per sole ragioni economiche questi prodotti sono presentati, tanto sui giornali quanto nelle stesse farmacie, come rimedi assolutamente validi ed efficaci. Altrettanto, se non più preoccupanti, sono le teorie della cospirazione che negli ultimi tempi stanno fiorendo in tutto il mondo. Teorie che si basano unicamente su una deformazione dei fatti e su una ignoranza voluta o deliberata delle più elementari leggi scientifiche, ma che possono avere effetti deleteri su scelte politiche o sociali che riguardano tutti noi.

Da qui a ottobre 2009, quando il CICAP festeggerà i suoi primi 20 anni in un Convegno davvero speciale, dunque, saranno intraprese una serie di iniziative volte anche a rinnovare e a rinforzare il Comitato. Tra queste, un'importante Conferenza organizzativa, che si terrà in primavera a Torino, dove tutti i soci saranno chiamati a condividere idee, proposte e progetti per il futuro del CICAP.

"Il mio appello a tutti, dunque, è di unirvi a noi" conclude Angela. "C’è bisogno anche di voi che leggete ora queste parole. Se verrete nel CICAP troverete tanti amici con cui confrontarvi, con cui impegnarvi insieme e con cui condividere battaglie e soddisfazioni. Ma soprattutto vi arricchirete moltissimo dal punto di vista morale. Quando ci troveremo al Convegno del ventennale, tra un anno, io mi auguro davvero che il numero dei soci sia sensibilmente cresciuto. Perché la funzione che esercita il CICAP, una funzione di verifica delle notizie, di corretta informazione, di denuncia di truffe e imbrogli e di tutela dei più deboli, è troppo importante per essere trascurata".

mercoledì 8 ottobre 2008

Un lago chiuso all'interno di una piccola isola indonesiana: come la vita si può sorprendentemente adattare in pochissimo tempo a condizioni diverse.


Nel terziario una buona parte del bacino Amazzonico interno è stata occupata da un mare poco profondo che aveva invaso la regione da nord, dall'attuale mar dei Caraibi. Lo testimaniano sia le rocce dell'epoca (difficili da trovare), sia molte forme di vita acquatiche attuali che – con la geografia attuale parrebbe strano – assomigliano molto di più, specialmente da un punto di vista genetico, a quelle viventi attualmente nel mare dei Caraibi che a quelle dell'Atlantico meridionale, dove il grande fiume sfocia.
Quindi si suppone che il bacino amazzonico fosse un grande golfo aperto verso nord e che tra questo e l'Atlantico esistesse una zona emersa di vaste proporzioni. Ad un certo punto la soglia di questo mare si rialzò, chiudendo il bacino e costringendo gli animali e le piante ad adattarsi al nuovo ambiente (e soprattutto alle nuove condizioni di salinità) o a morire. La transizione avvenne in un tempo molto lungo, e soprattutto ci furono diverse fasi alterne, dando quindi tutto il tempo a queste creature di farlo.
Quello che stupisce è che un cambiamento simile può avvenire in un tempo relativamente breve e per un numero importante di specie. Lo dimostra il caso del lago di Kakaban, un'isola lungo le coste nordorientali del Borneo. Non è la prima volta che il Borneo (o, meglio, in lingua locale, Kalimantan) ci fa scoprire delle cose uniche ed interessanti, come la rana senza polmoni di cui mi sono occupato tempo fa.
La sostanza è che questa isoletta del mare di Sulawesi (sette kilometri di lunghezza per una larghezza di circa uno, tranne nella zona nord in cui si allarga fino a 3 km) è in parte occupata da un lago di acqua dolce di origine molto recente. Ma non è un lago “normale”: le sue acque pullulano di animali colorati, come ti aspetteresti di trovare nel mare adiacente.
In particolare questo specchio d'acqua è famoso per le sue 4 diverse specie di meduse (ed infatti è spesso chiamato “lago delle meduse”) che hanno una particolarità interessante: la perdita della capacità di usare del veleno contro chi le minaccia o per nutrirsi. La fauna comprende pure vermi, tunicati, spugne, molluschi, anemoni di mare, granchi, pesci, che vivono tra le foreste di mangrovie diffuse sulle sue rive. Sul fondo c'è un tappeto di alghe verdi.
Quello che colpisce è che in queste acque di vita ce n'è veramente tanta. Insomma flora e fauna sono strette parenti di quelle dei mari attorno (anche per l'abbondanza) ma con delle caratteristiche molto specifiche: oltre alle meduse prive di veleno c'è per esempio un'anemone di mare (che si nutre esclusivamente di meduse) bianca perchè non ha più la zooxanthella, un'alga verde che tipicamente vive in simbiosi con questi animali, dandone il colore, e che probabilmente non è riuscita ad adeguarsi alle nuove condizioni dell'acqua.
Come può essersi formato un simile ambiente? Le isole Derawan, a cui Kakaban appartiene, sono essenzialmente formate da coralli e in tempi recenti hanno subìto un certo innalzamento. Per cui la vecchia barriera corallina che circondava la laguna, originariamente sommersa, è venuta a trovarsi sopra il livello del mare, isolando la laguna e trasformandola in uno specchio d'acqua interno di circa 5 km quadrati, la cui superficie si trova attualmente a circa 50 metri sopra il livello del mare.
La perdita di acqua salata dovute alla filtrazione dei liquidi nelle fratture sotto il bacino è stata compensata dalle abbondanti piogge, il che naturalmente ha provocato un drastico abbassamento della salinità (circa 24 per mille, contro il 33/34 del mare circostante, un terzo di meno). Iniziato non più di 20.000 anni fa, il processo è avvenuto molto rapidamente (se fosse continuo ad oggi avremmo un tasso di sollevamento di oltre 2 mm/anno) ed è un esempio davvero stupendo e sorprendente di come la vita può riuscire ad adattarsi in poco tempo ad un importante cambiamento ambientale. Non è ancora chiaro, comunque, il perchè tutto sia potuto avvenire in tempi così stretti, né perchè il lago di Kakaban sia riuscito a mentenere una tale biodiversità (i creazionisti si astengano pure dal proporre una spiegazione, grazie).
Forse l'estremo rigoglio di vita della originaria laguna è stato fondamentale, ma ci deve essere qualcosa di piu.
Prendiamo degli ambienti simili, come i “laghi marini” comuni a Palau, in Micronesia. Nonostante che l'acqua salata riesca lo stesso a penetrare da delle fessure (troppo strette per gli animali) e quindi le condizioni di salinità siano cambiate meno drasticamente che a Kakaban, la vita acquatica non è così rigogliosa (al contrario, come nel caso indonesiano, le rive di questi laghi abbondano di forme di vita). Eppure la vita nell'adiacente oceano, sulla barriera corallina, doveva per forza essere abbondante al momento in cui da piccoli golfi questi specchi d'acqua si trasformarono in laghi.
Tra i tanti laghi di Palau ce n'è uno molto famoso, detto appunto anch'esso “lago delle meduse” . Anzi, la particolarità, molto “darwiniana” in verità, è che 5 di questi laghi ne ospitano 5 specie diverse, ma sufficentemente simili da far capire che derivano da un antenato comune (un po' come i famosi fringuelli delle Galapagos). Per cui questi celenterati (o cnidari, come si definiscono oggi) sono stati soprannominati le “meduse di Darwin”.
La causa fondamentale della scarsa densità di vita dovrebbe essere la presenza a Palau, per esempio proprio nel “lago delle Meduse”, di una elevata percentuale di idrogeno solforato nelle sue acque più profonde.
Kakaban è un'isola disabitata, ma il lago sta giustamente iniziando ad attrarre il turismo. E' sicuramente una bella occasione di sviluppo, e dobbiamo augurarci che non abbia effetti troppo negativi su un ambiente così particolare e ancora incontaminato. A Palau hanno purtroppo dovuto vietare nel lago delle meduse il nuoto con le pinne, sia per i rischi alla salute dovuti all'idrogeno solforato che per l'eccessiva pressione sul delicato ambiente (è in corso un grande dibattito a proposito del declino della sua medusa tipica, la Mastigias Papua: chi la attribuisce ad una annata particolarmente violenta di El Nino, chi al riscaldamento globale, chi all'inquinamento etc etc)
Vorremmo che il lago di Kakaban e la sua tipica fauna resistano all'uomo e possano essere visitate dai nostri discendenti per molto tempo.
Occorre agire in fretta: pochi anni di turismo hanno fatto a Palau danni irrimediabili o quasi. Capire quindi come la vita ha potuto proseguire indisturbata reagendo ai cambiamenti sarà molto utile per capire come conciliare turismo e sviluppo economico con la conservazione dell'ambiente. Il fatto che siamo di fronte ad un sistema ristretto e molto ben circoscrivibile lo rende molto interessante anche come esperimento e modello per ambiti più grandi e complessi.