domenica 27 gennaio 2008

I vulcani dell'Antartide e una nuova scoperta


Il British Antarctic Survey ha reso noto di avere scoperto un vulcano sepolto sotto la calotta glaciale della Terra di Marie Byrd.
Per il grande pubblico l'Antartide è pinguini, foche, ghiaccio, e freddo. Pochi sanno che il Continente Bianco è letteralmente crivellato di vulcani nella sua parte occidentale e che il rischio vulcanico in Antartide può avere conseguenze drammatiche a livello globale per l'improvviso scioglimento di una parte della calotta glaciale.
Qualche tempo fa avevo parlato di un possibile fenomeno vulcanico nella calotta groenlandese. Ma se in Groenlandia le impressioni non sono state ancora suffragate da prove dirette (e la prudenza è d'obbligo visto che i vulcani attivi conosciuti sono distanti centinaia di kilometri), iin quella zona dell'Antartide l'osservazione è probabilissima: là di vulcani ne esistono eccome: il “Global volcanism program” dello Smithsonian Institute ne censisce ben 26 subaerei presumibilmente attivi negli ultimi 10.000 anni, per non parlare dei tanti presenti nei mari dell'area (ne vengono scoperti contiuamente di nuovi durante le varie campagne oceanografiche in corso).
I vulcani antartici sono raggruppati in quattro gruppi: Penisola Antartica, Isole Sanwich del Sud, Terra di Marie Byrd e Baia di McMurd. Le Isole Sanwich del sud guardano verso l'Oceano Atlantico, gli altri verso il Pacifico.
La Penisola Antartica e i mari adiacenti sono al centro di un complesso sistema di interferenze fra la placca della Nuova Scozia, quella sudameriana e quella antartica, con vecchi e nuovi piani di subduzione, piccoli bacini marginali che si stanno aprendo adesso come lo stretto di Bransfeld e vulcani di vari significato. Sono comunque praticamente ininfluenti ai fini della dinamica delle coltri di ghaccio.
Le Isole Sandwich del Sud formano un tipico arco magmatico dove la zolla sudamericana scorre sotto quella della Nuova Scozia.
Se i vulcani attorno al mare della Nuova Scozia sono caratteristici di zone tettonicamente attive, quelli degli altri due gruppi (Baia di McMurdo e Terra di Marie Byrd) sono tipici casi di “vulcanismo intraplacca”, cioè di vulcani la cui esistenza non è dovuta a cause superficiali (presenza di margini di zolla) ma alla risalita diretta di magmi dalle profondità del mantello superiore. Tra i vulcani di questo tipo ci sono quelli delle Isole Hawaii e l'Etna. Sotto l'Antartide Occidentale quindi ci sono due zone sotto le quali il mantello terrestre è anomalo e si fonde parzialmente, due cosiddetti “hot spot”.
Un dato molto importante che si ricava da questi distretti vulcanici è che essendo presenti da ben 25 milioni di anni, l'Antartide da quei tempi non si è mai mossa.
Nel gruppo deIla Baia di McMurdo c'è il vulcano antartico più noto, l'Erebus, uno dei pochissimi al mondo ad avere al suo interno un lago di lava liquida.
Il vulcano appena scoperto appartiene al gruppo della Terra di Marie Byrd. Sono vulcani più dispersi arealmente rispetto a quelli di McMurdo, visto che probabilmente si estendono fino all'isola di Pietro I.
Questa scoperta è piuttosto importante e contemporaneamente preoccupante: la sua posizione implica un areale ancora più grande del previsto per questo gruppo e rende ipotizzabile la presenza di altre strutture simili sotto migliaia di metri di ghiaccio.
L'eruzione avvenne attorno all'anno 325 e probabilmente è stata la più grande eruzione degli ultimi 10.000 anni nel continente bianco. Un grande buco si aprì nella calotta e la nuvola di ceneri arrivò a 12.000 metri di altezza.
Ora si deve cercare di capire se e quanta parte dell'aumento della velocità del ghiacciaio di Pine Island registrato negli ultimi anni sia dovuto all'attività del vulcano, anche se probabilmente la causa maggiore va ricercata nel riscaldamento globale

mercoledì 23 gennaio 2008

Errori ed orrori degli evoluzionisti non riescono comunque a invalidare il quadro

Fin da quando furono avanzate le prime ipotesi che le specie animali e vegetali non siano immutabili, ma cambiano nel tempo, gli scienziati hanno commesso diversi errori nel mettere in relazione le varie specie succedutesi nel tempo.
Le testimonianze fossili sono pochissime, rispetto alla quantità degli esseri viventi che ci sono stati. Un animale o una pianta che si fossilizzano, per esempio sepolti da una coltre di fango, sono una perdita per la natura: le sostanze nutritive che contenva vengono sottratte al ciclo vitale: nella savana o nella foresta il corpo di un animale morto scompare in breve rempo ad opera di animali grandi, medi e piccoli, dai grossi carnivori alle formiche. Le migliori possibilità sussistono in ambienti lagunari, oppure in mare, durante episodi di morte di massa dovuta ad improvvise mancanze di ossigeno. Le possibilità di fossilizzarsi per un organismo sono quindi molto inferiori a quelle di fare un “6” al superenalotto e, come diceva Darwin, studiare la storia della vita usando i fossili è come ricostruire un libro di cui sono rimaste poche pagine, nelle quali sono visibili pochissime parole, per giunta prive di molte lettere.
E' chiaro quindi che, fino all'avvento delle moderne tecniche biologiche, ricostruire l'albero della vita con i fossili sia stata una impresa estremamente difficile e che siano stati commessi diversi errori, sui quali i creazionisti hanno costruito i loro lavori che hanno per lo più uno spirito canzonatorio (sbeffeggiare l'avversario è l'unico sistema quando hai poche argomentazioni a tuo favore).
I primi semi dell'evoluzionismo furono gettati da Georges-Louis Buffon ma il primo evoluzionista “sistematico” è stato Lamark, che ha avuto l'unico torto di non capirne il meccanismo. Lamark pensò all'ereditarietà dei caratteri acquisiti, quindi alla trasmissone ai discendenti di modifiche intervenute durante la vita e non all'atto del concepimento. Proprio per la poca chiarezza del meccanismo evolutivo (e anche perchè il personaggio non ispirava simpatia) Lamarck fu discreditato sia dai fissisti (che all'epoca avevano come campione l'emeritissimo accademico Georges Couvier) sia in seguito dagli evoluzionisti. Solo di recente è in atto una rivalutazione degli scritti dello scienziato francese, che in realtà ha detto molte cose interessanti cadute nell'oblio.
Lamarck fece ovviamente diversi errori filogenetici: ad esempio collocò l'ornitorinco fra i rettili, anzi come il più evoluto dei rettili, mentre gli altri mammiferi derivavano per lui dai coccodrilli. Sempre l'ornitorinco da altri fu considerato l'anello di congiunzione fra mammiferi ed uccelli, per via del becco (ma il “becco” dell'ornitorinco è una cosa molto diversa dal becco degli uccelli...).
Lo stesso Darwin fu autore di qualche errore: memorabile quando vide un orso bianco che nuotava a bocca aperta per catturare del pesce, come appunto fanno le balene e quindi lo pensò progenitore dei cetacei (comunque dopo un po' si rese conto che la sua deduzione fosse un tantino avventata e la tolse dall'ultima edizione de “L'origine delle specie”). Ma il suo più clamoroso errore fu quando pensò che un fossile da lui trovato sulle Ande, la Macrauchenia, fosse un'antenato del Guanaco. In realtà Macrauchenia appartiene ai Liptoterni, un gruppo estinto di mammiferi sudamericani che nulla “ci azzeccano” con gli artiodattili di cui fa parte il guanaco. La somiglianza con il guanaco è un evidente caso di “evoluzione convergente”, come quella esteriore fra delfini ed ittiosauri. E pensare che questa presunto rapporto di discendenza fu una delle prime prove che lo convinsero a sposare l'evoluzionismo (Darwin in origine era un creazionista!)
Sull'origine dei cetacei i sono state varie idee, non esistendo forme intermedie fra loro ed un animale terrestre (ma perchè non sono sopravvissuti i Remingtonceti del miocene, accidenti....).
Fra i vari candidati al ruolo di progenitori di questo nobilissimo gruppo di mammiferi annoveriamo pinnipedi, elefanti, roditori, maiali, ippopotami, varie famiglie appartenenti all'ordine dei carnivori (felini, mustelidi). Adesso, trovati gli antenati e classificati come “artiodattiili”, il dibattito verte sulla derivazione da ungulati carnivori (ben diffusi all'inizio dell'era terziaria) o erbivori (che hanno cambiato alimentazione).
E cosa dire dei Celecanti, ritenuti estinti da 100 milioni di anni ma ritrovati vivi, sia pure non numerosi e circoscritti a piccole aree dell'Oceano Indiano? Anche qui lazzi e sbeffeggi dei creazionisti per un falso problema.
Le nuove scoperte paleontologiche stanno dando un contributo fondamentale. E' importante notare che le aree che attualmente stanno dando le maggiori soddisfazioni sono zone sperdute o difficilmente accessibili nel passato come Groenlandia, Pakistan e i deserti della Cina. Nuove informazioni sul passaggio da pesci ad anfibi, da dinosauri teropodi a uccelli, da rettili a mammiferi, spesso contribuiscono pure ad inquadrare meglio fossili già noti o animali attualmente viventi (emblematico il caso dell'Ornitorinco confrontato con gli antichi progenitori dei mammiferi quali cinodonti e terapsidi). Però, oltre a precisarlo, queste scoperte hanno spesso modificato il quadro, soprattutto da un punto di vista temporale. Per esempio, si supponeva che i placentati avessero avuto una forte differenziazione nel Paleocene, dopo l'estinzione dei dinosauri. Invece adesso appare chiaro che si erano già differenziati e diffusi prima di questo evento. Non vedo perchè i creazionisti debbano prendere questa “modifica del quadro” come la dimostrazione che “gli evoluzionisti continuano ad aver sbagliato”, con frasi tipo “prima ci dicevano che era così, ma adesso dicono che le cose stanno diversamente”. Personalmente non ci vedo nessuno scandalo se delle idee cambiano grazie a nuove scoperte.
Inoltre si dimenticano che questo quadro è frutto di ricerche in varie discipline. Paleontologia, zoologia, botanica, genetica, geologia, geofisica, radiocronologia, astronomia forniscono una ricca messe di dati assolutamente compatibili fra loro nello spazio e nel tempo.
La maggior parte degli errori sono ipotesi fatte in buona fede con quello che c'era a disposizione. Questi errori, che pure hanno contribuito alla conoscenza, sono stati fatti da personaggi che hanno “osato proprorre”, anzichè cullarsi nel dolce motto che “chi non fa, non falla”.

giovedì 17 gennaio 2008

L'impossibilità attuale del ponte sullo stretto di Messina

Capisco i siciliani: la distanza è troppo breve per non pensare ad un ponte, ma ora come ora non ci sono le possibilità tecniche per costruire sullo stretto di Messina un ponte sospeso di 3.300 metri.
Per l'aspetto paesaggistico è una questione di gusti: c'è chi parla di scempio ambientale, ma cosa sarebbe la Baia di San Francisco senza il Golden Gate o Firenze senza il Piazzale Michelangelo? (eppure, specialmente nel caso fiorentino se lo volessimo realizzare adesso sarebbe sicuramente considerato e avversato come uno “scempio per la collina”).
La realizzazione di questa opera deve affrontare problemi finanziari, tecnici e geologici. Mi pronuncio pochissimo su quelli finanziari, dico solo che il piano mi sembra un po' fumoso e se poi è realizzato come quello tecnico e quello geologico stiamo freschi. Eppure si dovrebbe stare attenti: vista la crisi della società che ha costruito e gestito l'eurotunnel (che ha avuto nella lunghezza l'unica difficoltà tecnica importante) e che collega al continente la Gran Bretagna, realtà indiscutibilmente molto più importante della Sicilia, qualche dubbio sul rapporto costi / ricavi è d'obbligo.
Sui problemi tecnici ingegneristici non sono molto ferrato, e mi limito ad alcuen annotazioni. Attualmente il ponte sospeso più lungo è l'Akashi-Kaikyo a Kobe-Naruto, che però è lungo “solo” 1.991 metri, era stato originariamente previsto ferroviario, poi misto sia stradale che ferroviario, infine realizzato solo stradale. Perchè?
Il ponte più lungo d’Europa, il Great Belt, collega due isole dell’arcipelago danese e fa parte di un sistema stradale e ferroviario che unisce la penisola dello Jutland con la capitale della Danimarca attraverso un viadotto in cui camminano parallelamente la strada e la ferrovia. Ma (sorpresa!!) arrivati nella prima isola, nel punto dove si deve attraversare lo Stretto di Store Bealt, le automobili continuano a passare sul ponte mentre il treno passa sottoterra attraverso un tunnel. Perchè?
A Lisbona il ponte “25 Aprile” (1.013 metri) è stato realizzato nel 1966, ma per la ferrovia c'era una corsia rimasta inutilizzata fino al 1999. Il più lungo ponte sospeso ferroviario è lungo “appena” 1300 m (ponte Tsing Ma, tra Hong Kong e il nuovo aeroporto), circa 2/3 della lunghezza dell'Akashi Kaikyo e poco più di un terzo dei fatidici 3.300 metri.
Perchè tutto ciò? Perchè ponti sospesi e ferrovie sono realtà difficilmente accoppiabili. Innanzitutto è difficile conciliare l’estrema deformabilità trasversale del ponte con la ovvia rigidità delle rotaie, non solo sulla campata, ma anche e soprattutto all’innesto fra la parte fissa e la parte mobile.
Arrivare istantaneamente a una lunghezza di 3.300 metri pare un azzardo....
Sono state fatte anche critiche piuttosto importanti sulla “snellezza” del progetto. Questo forse è il "colpo di spugna" finale: la snellezza di un ponte è definita come l’inverso del rapporto fra l’altezza della travata e l’intera luce del ponte. Se i ponti attuali hanno una snellezza che oscilla tra 1/150 e 1/350, il ponte di Messina avrebbe un rapporto di 1/1320, valore che appare decisamente irreale nonostante la ricercatezza delle soluzioni aerodinamiche proposte.
E' quindi evidente che il ponte non sarà in grado di ospitare una ferrovia. E questo vorrebbe dire consegnare definitivamente la Sicilia alle automobili e ai camion.
Veniamo poi alla geologia, che dà tutt'altro che una mano al partito pro-ponte,la cui costruzione è complicata da 4 ordini di problemi:
1. movimenti relativi continui e costanti fra le due coste che stanno tuttora allontanandosi. Il versante calabrese si sta sollevando a un tasso piuttosto veloce, e superiore a quello del versante siciliano.
2. movimenti improvvisi durante eventi sismici principali (tipo 1908), presumibilmente di ordine anche molto superiore al metro. Il già citato Akashi-Kaikjo ha subìto il forte terremoto di Kobe del 1996, in cui i due piloni si sono allontanati di un metro circa, meno di quanto potrebbero spostarsi i piloni messinesi.
3. deformazioni gravitative profonde che interessano il versante calabrese: praticamente tutto il versante calabrese dello stretto è in frana, la cui superficie di base è molto profonda. Ci sono seri dubbi che una massa così gigantesca come il pilone del ponte riesca a restare stabile in tale quadro geologico.
4. la presenza di almeno una faglia sismogenetica importante in mezzo allo stretto (quella responsabile dell'evento del 1908) che non è stata ancora individuata e che, comunque, sarebbe difficile studiare perchè non arriva in superficie. La zona è sede di fortissima sismicità, ma non ci sono dati certi sulla ripetibilità di questi terremoti. Sicuramente un evento simile a quello del 1908, con relativo maremoto, avvenne nel 1169. Poi i dati appaiono molto confusi. Il catalogo dei terremoti italiani dell'INGV ne riporta parecchi, e quelli più importanti avvennero nel 1613, 1638 e 1783. Nel progetto del ponte si parla di diverse centinaia di anni per riavere un terremoto come quello del 1908, probabilmente prendendo come evento precedente quello del 1169. Ma questa ipotesi pare un po' azzardosa sia perchè calibrare il tempo di ritorno di un terremoto usando solo due eventi è molto azzardato, sia perchè non prende in considerazione, per esempio, l'evento del 1783. Evidentemente per la società "Stretto di Messina" questo sarebbe legato ad un'altra faglia. Ma quale? Ce ne sono altre potenzialmente capaci di provocare un terremoto distruttivo?
Vediamo poi, attraversato il ponte, cosa troverebbe un viaggiatore. In Sicilia ci sono diverse autostrade, anche se non eccelse.
Le ferrovie siciliane invece sono in uno stato semplicemente comatoso. La Messina – Palermo è in via di raddoppio da decenni, la Messina – Catania è ancora per di più a binario singolo, con velocità ammesse abbastanza basse. Decisamente impresentabile la Palermo – Catania via Caltanissetta. Figuratevi il resto. In questo quadro la costruzione del ponte sarebbe un lusso che le ferrovie siciliane non si possono permettere.
Quali sono le alternative al ponte per le merci? Innanzitutto le autostrade del mare, che avrebbero il pregio di evitare alle merci siciliane un viaggio su gomma lungo tutta la penisola per arrivare ai mercati e alle industrie del centro – nord Italia e dell'Europa. Per quanto riguarda il traffico passeggeri, oltre alle navi (attualmente poco utilizzate) c'è anche l'aereo. Gli aeroporti di Catania e Palermo hanno un movimento passeggeri di tutto rispetto e non penso che la costruzione del ponte faccia diminuire la quota di mercato dei vettori aerei in favore di ferro o gomma. E' auspicabile, invece del ponte, un bel miglioramento di tutte le ferrovie siciliane (raddoppi e velocizzazioni soprattutto): la Sicilia è molto, molto grande (Messina dista circa 200 km da Siracusa e 220 da Palermo!) e una ferrovia decente aiuterebbe molto i collegamenti interni, che dalla costruzione del ponte non guadagnerebbero proprio niente.
Quindi la realizzazione di questa opera è impossibile tecnicamente, molto discutibile dal lato economico – finanziario e sotto certi aspetti sovradimensionata rispetto a quello che il viaggiatore troverebbe dopo averlo percorso.
Comunque da un punto di vista tecnico la fattibilità potrebbe arrivare nel futuro. staremo a vedere (se il futuro non sarà lontanissimo, almeno per quel che mi riguarda)

nota: ho scritto un seguito, nel dicembre 2008:

martedì 8 gennaio 2008

I mari italiani e il rischio Tsunami - un progetto della Protezione Civile

Tsunami è stata a lungo una parola sconosciuta ai più fino al terribile evento del dicembre 2004. Già un paio di anni prima, nel dicembre 2002, l'Italia ne aveva subito uno, provocato dall'eruzione dello Stromboli durante la crisi sismica che investì il meridione d'Italia e l'Algeria tra l'autunno 2002 e la primavera 2003 (violente eruzioni dell'Etna e dello Stromboli, sequenze sismiche del Tirreno meridionale e dell'Etna, terremoto di San Giuliano, terremoto a Boumerdes – Algeria Settentrionale).

Il rischio tsunami in Italia è minimo da un punto di vista statistico, cioè è molto difficile che una persona nella sua vita “veda” uno tsunami in Italia, tantopiù se distruttivo. Le testimonianze storiche attendibili su tsunami in Italia non sono tantissime, e questo riflette più la rarità dei fenomeni che una mancanza di dati. Però ci sono tracce di tsunami originati in Italia di una certa importanza in periodi antecedenti a quello storico. Per esempio, circa 8000 anni fa un'enorme frana di 35 chilometri cubi si staccò dal fianco orientale dell'Etna e si inabissò nel Mare Ionio, causando uno tsunami confrontabile se non maggiore di quello del 2004 del Sudest asiatico.

Gli Tsunami si formano per vari motivi. In primo luogo a causa di terremoti che provocano spostamenti improvvisi del fondo marino (come per il Grande Terremoto di Sumatra del 2004 e quello di Messina del 1908). I Vulcani lungo le coste e quelli che formano isole sono molto pericolosi, sia in caso di esplosione (ad esempio Santorini nell'antichità e Krakatoa nel 1883) oppure se interi costoni franano in caso di eruzione (come appunto Stromboli 2002) oppure per cedimenti naturali: un vulcano, anche se spento, può non essere un corpo stabile. Le frane possono essere di gigantesche proporzioni, come quella citata dell'Etna e ci sono prove che i vulcani hawaiiani abbiano prodotto fenomeni simili. Ci sono poi nemici ancora più sconosciuti, i vulcani sottomarini, come nel Tirreno il monte Marsili. Le difficoltà maggiori su questi vulcani sono soprattutto dovute alla difficoltà di avere informazioni sulla loro attività. n altro motivo di formazione di Tsunami sono le frane sottomarine, in particolare quelle che si finnescano nelle zone delle scarpate continentali.

Una differenza fondamentale è che terremoti, frane, vulcani e altri fenomeni naturali provocano problemi in zone piuttosto circoscritte (a parte i riflessi globali di poche, grandi eruzioni vulcaniche). Lo Tsunami è molto diverso: per sua natura colpisce zone anche molto distanti dalla quella di origine.

Dall'origine molto recente dei margini continentali italiani consegue che ci sono molte situazioni a rischio. Quindi la Protezione Civile Italiana ha lanciato il progetto MaGIC (Marine Geohazard along the Italian Coasts), che nei prossimi 5 anni mapperà e monitorerà margini continentali ed altre aree giudicate “a rischio” dei mari italiani. Nel progetto sono coinvolti geologi, geofisici, oceanografi, vulcanologi e altri scienziati. Dai vulcani lungo le coste, le isole e il fondo del Tirreno e del Canale di Sicilia, al margine ionico Calabro, caratterizzato da imponenti fenomeni di compressione crustale, alla scarpata Ibleo – Maltese che borda la costa ionica sicula siamo davanti a situazioni molto difficili. Anche la Sardegna orientale e la Liguria presentano situazioni a rischio.

Il progetto prevede la mappatura con profili geofisici per oltre 60.000 km di una buona parte delle coste italiane. In particolare verranno studiate le coste liguri, quelle sarde, tutta la costa tirrenica a sud di Ponza, tutta quella ionica e l'Adriatico dalle Tremiti verso sud. In mezzo al Tirreno verrà esaminato tutto il fondale fra le Eolie e Ustica, il Monte Marsili, un enorme vulcano attivo, più grande dell'Etna, posto a Nord delle Eolie e tutta la zona centrale, dove se il vulcanismo pare attualmente concluso, potrebbero essere osservate delle strutture tettoniche attive. Nel Canale di Sicilia gli obbiettivi sono la zona di Pantelleria e quella dei cosiddetti “Campi Flegrei siciliani”.

Inutile dire che la comunità scientifica si aspetta molto da questo progetto, sia per la definizione dei rischi, sia perchè questa è una magnifica occasione per migliorare le conoscenze sulla evoluzione degli ultimi 5 milioni di anni dei bacini che circondano la penisola.

Da ultimo una osservazione molto importante: le zone selezionate sono quelle in cui si possono originare i fenomeni. Ma le coste a rischio, dove le onde anomale si possono abbattere, sono molte di più.