domenica 17 marzo 2024

l’attività vulcanica sulla penisola di Reykjanes dal 2019 ad oggi: panoramica e pericoli associati


E siamo a 4 eruzioni da dicembre scorso più una mancata di poco. La penisola di Reykjanes ci sta abituando in questi ultimi mesi a fasi di deformazione del terreno che precedono brevi episodi eruttivi se non eruzioni annunciate come prossime ma alla fine non avvenute, come nel pomeriggio del 2 marzo, quando il nuovo evento sembrava prossimo, ma poi tutto è rientrato. Comunque il magma ha continuato ad accumularsi sotto Svartsengi e la sera del 16 marzo un annuncio laconico del Servizio meteorologico islandese, competente anche per le questioni geologiche, ha segnalato alle 23.00 italiane circa che una eruzione è iniziata tra Skogfell e Hagafell dopo che alle 14.30 del giorno precedente l’evento era annunciata come prossimo. Faccio quindi un riepilofo della situazione, ricordando che il termine “dicco” e il termine “frattura” dicono più o meno la stessa cosa: il dicco è una lava basaltica che riempie una frattura. La frattura preesistente si può allargare grazie alla pressione del liquido magmatico.
Le prime notizie parlano di una eruzione lineare lungo un segmento lungo quasi 3 km.
Anche se le prime indicazoni parlano di volumi significativi non è detto comunque che il fenomeno continui a lungo.


Vulcani e limiti di placca in Islanda dallo Smithsonian Volcanism Program
PANORAMICA E CONTESTO. L’Islanda è un’area dove la dorsale medio – atlantica affiora in superficie a causa di un eccezionale afflusso di materiale dal mantello sottostante. 
Le dorsali medio - oceaniche costituiscono i limiti di placca divergenti dove si crea nuova crosta oceanica e non sono strutture continue ma vengono suddivise in vari segmenti da faglie perpendicolari ad esse, le cosiddette faglie trasformi. Il tratto in verde che passa per la parte orientale dell’isola rappresenta il limite divergente fra la placca euroasiatica e quella nordamericana, per cui è a tutti gli effetti un tratto emerso dell’asse della dorsale medio – atlantica, ed è contrassegnato da alcuni dei vulcani più importanti dell’isola (Bardarbunga, Katla, Grimsvotn etc etc). Inoltre nella sua parte più meridionale si colloca l’area del Laki, dove sono avvenute le due più grandi eruzioni effusive a livello mondiale dei tempi storici: celebre quella del 1783 (Thordarson et al 2003), di cui mi sono occupato svariate volte, ad esempio qui, ma quella del 934 EV fu anche peggiore (Thordarson et al 2001).
La penisola di Reykjanes rappresenta invece parte di un segmento trasforme trasversale all’andamento della dorsale (in rosso), che congiunge il tratto in terraferma della dorsale con il suo proseguimento a sud dell’Islanda, la dorsale di Reykjanes. Quindi anche nella parte meridionale dell’isola passa il limite fra le due placche: la capitale Reykjavik è nella placca americana, la costa meridionale dell’isola in quella europea.
Anche il tratto trasforme è contraddistinto da una fascia vulcanica a cui appartengono nella sua parte orientale diversi complessi come l’Eyjafjallayokull, l’Hekla; ad ovest nella penisola di Reykjanes non ci sono grandi apparati vulcanici: in genere si tratta di eruzioni lineari che avvengono lungo delle faglie dirette SW – NE molto ben visibili dal satellite a causa della scarsa copertura del suolo. Lungo queste faglie troviamo i principali centri vulcanici e l’attività vulcanica si accompagna alla presenza di numerose aree geotermiche.

l'attività vulcanica dal 2021 (Parks et al, 2024)
LA NUOVA FASE DI ATTIVITÀ VULCANICA NELLA PENISOLA DI REYKJANES. L’area presenta fasi di attività vulcanica molto frequente per alcuni decenni, seguita da un intervallo medio tra le attività eruttive di circa 800-1000 anni. Siccome il precedente periodo di attività eruttiva è durato dal 950 al 1240, una riattivazione dell'attività vulcanica dell’area non è giunta inaspettata, essendo passati giusto poco meno di 800 anni.
I primi sintomi di quello che ormai appare chiaro potrebbe diventare un nuovo ciclo di attività sono iniziati nel dicembre 2019 e finora si sono verificati diverse intrusioni di filoni basaltici, che a parte un paio hanno tutte raggiunto la superficie provocando una eruzione. All’inizio a Fagradalsfjall sono stati rilevati terremoti a una profondità compresa tra 3 e 7 km, mentre il primo chiaro segno dell’arrivo di magma è stato rilevato il 21 gennaio 2020, associato a un forte aumento della sismicità e un primo periodo di sollevamento nell’area di Svartsengi. Questa prima intruzione magmatica però non è riuscito ad arrivare in superficie. Ci ha pensato a Fagradalsfjall un anno dopo una seconda intrusione che ha provocato una eruzione a partire dal 19 marzo 2021, con un chimismo piuttosto interessante (ne ho parlato qui). La deformazione del suolo e la sismicità si annidano generalmente in prossimità delle intrusioni (Sigmundsson et al, 2022). I dati geodetici e la modellizzazione indicano che i cinque episodi di inflazione in quest’area verificatisi tra il 21 gennaio 2020 e il 10 novembre 2023 sono centrate sotto al sistema vulcanico di Svartsengi, ma si estendono anhe su una regione molto ampia, fino all’allineameno dei crateri di Sundhúkur a est e si trova sotto la Laguna Blu e la centrale elettrica di Svartsengi). 
L'attività negli ultimi 3 anni si è spostata tra Svartsengi e Fagradalsfjall. Durante la precedente fase di attività vulcanica sulla penisola, terminata circa 800 anni fa, l'attività ha interessato anche altri sistemi vulcanici vicini. Sebbene le eruzioni vulcaniche degli ultimi anni siano state finora relativamente piccole, l’attività storica suggerisce un potenziale di maggiori volumi di lava negli anni a venire. Ma come disse Niels Bohr è difficile fare previsioni, specialmente per il futuro. Diciamo che in passato è successo così. 

schema della dinamica delle eruzioni nella penisola di Reykjanes
(Parks et al, 2024)

INTERPRETAZIONE DEI DATI E VALUTAZIONE DEL PERICOLO. A Svartsengi durante l’iniezione magmatica del 10 novembre (quella che ha inaugurato la serie di eruzioni attuale), la velocità di picco di afflusso di magma è stata di oltre 7000 m3/s (Sigmundsson et al., 2024), due ordini di grandezza maggiore rispetto ai tassi di afflusso massimi dedotti nei dicchi di Fagradalsfjall. Queste informazioni, combinate con la conferma delle misurazioni geodetiche e dei dati sismici che il magma si era stata effettivamente intruso sotto Grindavík, hanno reso necessaria il 10 novembre 2023 la rapida evacuazione degli abitanti della città. Il 18 dicembre, il dominio magmatico di Svartsengi ha nuovamente raggiunto la pressione critica e questa volta è avvenuta l'eruzione, preceduta appena 90 minuti prima da uno sciame sismico precursore. Il picco di afflusso di magma era di circa 800 m3/s. Eventi simili si sono verificati a gennaio e febbraio 2024: in particolare il dicco superficiale responsabile dell’eruzione del gennaio 2024 si è propagato anche sotto Grindavík; da notare che a proposito dell'eruzione iniziata l’8 febbraio l'allarme alla Protezione Civile é stato lanciato appena 35 minuti prima dell’evento, perché solo in quel momento è iniziato lo sciame sismico precursore. Il preavviso dell’eruzione così breve è dovuto soprattutto alle dimensioni del percorso di deflusso del magma di Svartsengi, molto ampie che consentono quindi una portata molto ampia da una profondità molto ridotta. Anche per l’eruzione del 16 marzo i primi sintomi sismici si sono verificati solo a partire da 40 minuti prima dell'evento.
Uno schema che delinea le fonti che alimentano l'attività più recente e i processi coinvolti è visualizzato qui accanto.
Oltre al livello molto più elevato di afflusso di magma e di velocità di estrusione della lava, l’attività attuale a Svartsengi presenta maggiori rischi di quella di Fagradaslfjall, a causa della presenza di beni antropici importanti come la città di Grindavík, la Laguna Blu, la centrale elettrica di Svartsengi e altre infrastrutture critiche. 
È stato possibile fornire la tempistica degli eventi di gennaio e febbraio 2024 modellando il segnale di nuovo sollevamento e assumendo che il volume perso dal dominio magmatico di Svartsengi durante l'evento precedente debba essere reintegrato prima della nuova intrusione/eruzione. 

la linea rossa indica la frattura da cui sta fuoriuscendo il magma
I PERICOLI ASSOCIATI ALL’ATTIVITÀ VULCANICA. Ce ne sono diversi. Quelli più logici sono colate laviche e fontane di lava che pososno raggiungere altezze di qualche decina di metri. Si possono inoltre registrare cadute di lapilli, ma con lave di questo tipo, molto liquide, non si raggiungono spessori importanti come in vulcani dai magmi più acidi.
Un altro aspetto importante sono le emissioni di gas. Magmi così primitivi, cioè arrivati dal mantello senza un periodo prolungato di residenza nella crosta sono carichi di gas come CO2, SO2, HF e quant’altro. La carestia seguita alla grande eruzione del Laki del 1783 è stata scatenata proprio dai composti derivati dalla ossidazione di questi gas. È assolutamente improbabile che si arrivi a livelli del genere, ma le concentrazioni di gas nell’aria potrebbero essere lo stesso piuttosto elevate, implicando pericoli per la popolazione.
Particolarmente importante è il rischio associato alla aperture di fessure eruttive, che come si vede possono verivficarsi con un preavviso minimo. È quindi importante modellizzare con la massima precisione possibile. A difesa di Grindavik sono stati erette delle dighe di materiale ma in gennaio la lava è sgorgata tra queste e la città. Le fratture comportano anche il rischio di crolli e di sviluppo di doline ed essendo l’area vicina al mare e non elevata c’è un forte rischio che il mare possa inondare qualche zona che si abbassa un po' troppo.
Da ultimo i terremoti, che possono raggiungere M 5: essendo estremamente superficiali comportano un rischio importante per gli edifici e la caduta di massi nei pendii.
C'è poi la possibilità, se l'eruzione continuasse per parecchi giorni (cosa tutt'altro che certa), che la lava arrivi in mare. In questo caso l'interazione tra il magma e l'acqua può provocare la formazione di nebbie contenenti acido solforico ed acido fluoridrico in percentuali basse ma pur sempre potenzialmente dannose per la salute (Kullmann et al (1994)

BIBLIOGRAFIA

Kullmann et al (1994) Characterization of air contaminants formed by the interaction of lava and sea water. Environmental Health Perspectives 102/5, 478-482

Parks et al (2024) Parks et al, 2024 Volcano-tectonic activity on the Reykjanes Peninsula since 2019: Overview and associated hazards. Disponibile a questo link

Sigmundsson et al (2022) Deformation and seismicity decline before the 2021 Fagradalsfjall eruption Nature 609, 523-528

Sigmundsson et al (2024) Fracturing and tectonic stress drive ultrarapid magma flow into dikes. Science 383, 1228-1235

Thordarson et al (2001) New estimates of sulfur degassing and atmospheric mass-loading by the 934 AD Eldgja eruption, Iceland Journal of Volcanology and Geothermal Research 108, 33-54

Thordarson et al (2003) The Laki and Grimsvotn eruptions in 1783 - 1785: a review and a re-assessment J. Geophys. Res. - Atmos. 108 (33 - 54)



mercoledì 13 marzo 2024

Del ciclo del carbonio come driver principale dell’evoluzione di atmosfera, ambiente e temperature nei pianeti interni del sistema solare e delle condizioni "non astronomiche" necessarie per avere la vita in un pianeta extrasolare

Quest’anno l’Associazione Caffè-Scienza Firenze e Prato APS ha deciso di presentare come strenna natalizia un libro “Aspetti poco noti di Astronomia, Astrofisica e Astronautica - Tutto quello che avreste voluto sapere sul cielo ( ma non avete mai osato chiedervelo)". In questo libro abbiamo parlato di tante cose, come da indice che vedete qui accanto. Personalmente io ho parlate dell’influenza del ciclo del Carbonio sulle differenti traiettorie termiche di Venere, Terra e Marte e quindi del fatto che un pianeta extrasolare per ospitare la vita oltre ad essere nella zona "giusta" di un sistema stellare, deve anche avere il giusto termostato del carbonio.  In questo post riassumo quanto ho scritto al proposito.

Il libro è disponibile in PDF a questo link.


4 miliardi di anni fa Venere, Terra e Marte condividevano la presenza di acqua liquida in superficie e una atmosfera formata da almeno il 95% di CO2. Venere e Marte presentano ancora atmosfere dalla composizione simile: quella di Venere è ancora estremamente densa, mentre l’atmosfera marziana è diventata molto tenue e non è ancora chiaro quanto sia stata pesante all’inizio della storia del pianeta. L’atmosfera terrestre attuale è molto diversa, ma chiare prove stratigrafiche e geochimiche indicano che anche questa fosse composta, fino a 2 miliardi e 400 milioni di anni fa, al 95% di CO2, priva di ossigeno, e con una pressione inferiore a quella odierna (Som et al, 2015). 
Il motivo fondamentale di queste storie differenti è la dinamica di un solo elemento, il carbonio. Solo il giusto mix fra carbonio atmosferico e insolazione è in grado di mantenere queste condizioni ideali: troppo carbonio nell'atmosfera può rendere il pianeta troppo caldo per poter avere acqua liquida sulla sua superficie, come troppo poco carbonio può rendere il pianeta una palla di ghiaccio. Per mantenere la temperatura in un range adatto occorre quindi che il termostato del carbonio funzioni nella maniera giusta, togliendone l’eccesso e integrandolo se è in difetto. Nel caso del sistema solare questi due fattori si sono appunto combinati per disegnare traiettorie climatiche molto diverse nel tempo fra i tre pianeti.

VENERE E IL SUO GIGANTESCO EFFETTO SERRA. Venere oggi è un pianeta estremamente caldo e secco e non è chiaro per quanto tempo abbia ospitato acqua liquida sulla superficie, a causa del suo ambiente ostile, un ostacolo quasi insuperabile per le osservazioni dirette: temperature maggiori di 460 °C, e una pressione di 92 bar, come nei mari terrestri ad oltre 900 metri di profondità; le poche missioni, tutte dell'era sovietica, che hanno raggiunto la superficie di Venere sono sopravvissute solo pochi minuti al caldo e all’atmosfera acida ma prima di andare fuori uso sono riuscite comunque a scattare ed inviare a Terra alcune foto che rivelarono una superficie rocciosa arida e senza vita. Ci sono varie evidenze indicanti una perdita di acqua superficiale relativamente precoce, prima di 3 miliardi di anni fa. Poi, a causa dell’aumento dell’irraggimento solare, la temperatura e il vento solare hanno avuto effetti devastanti, perché sono mancati i processi in grado di asportare il CO2 dall’atmosfera, come invece è successo sulla Terra. Inoltre è diminuita l’attività tettonica e di conseguenza è crollato il campo magnetico. Tutto questo ha letteralmente spazzato via dall’atmosfera l’acqua: man mano che il vapore acqueo veniva perso verso lo spazio, più acqua evaporava dagli oceani venusiani per sostituirlo, solo per essere nuovamente portata via dai venti solari (Ingersoll, 1969). Alla fine, continuando questo processo, il pianeta ha perso gli oceani e la loro capacità di sequestrare CO2 atmosferico. Quando è stato raggiunto il punto di non ritorno Venere è diventato il pianeta caldo, secco e senza vita che vediamo oggi.

una delle poche immagini che ha scattato una delle sonde sovietiche Venera nel 1975 prima di smettere di funzionare
e una foto panoramica di Marte riprersa dal rover americano Perseverance

PER QUANTO MARTE È STATO UN PIANETA UMIDO? I satelliti hanno osservato ghiaccio nelle zone polari e aree le cui caratteristiche lasciano presagire la presenza nei primi strati del terreno di acqua, che occasionalmente risale in superficie. Purtroppo se il ghiaccio si scoglie l’acqua non può restare a lungo liquida a causa dell'atmosfera secca e sottile e quindi passa direttamente dallo stato solido a quello gassoso. Alcune tracce di flussi liquidi stagionali come quelle osservate nel 2019 potrebbero essere invece dovute a delle brine salate (Chevrier e Rivera-Valentin, 2012). La presenza nel sottosuolo di falde acquifere salmastre è stata certificata dai dati presentati da Orosei et al (2019), ma sulla superficie marziana di acqua oggi ce n’è davvero poca
Le prove sulla sua presenza nel passato sono invece ampie e circostanziate, suggerendo che un tempo l’atmosfera marziana fosse molto più densa di quanto lo sia oggi, anche se per qualcuno gli episodi umidi potrebbero essere avvenuti solo durante eventi di forte degassamento vulcanico (Scherf et al 2021), sul tipo delle Grandi Province Magmatiche terrestri (immensi volumi di magmi, dell’ordine delle centinaia di migliaia – se non milioni – di km cubi, eruttati in poche migliaia di anni e che nell’immediato hanno sempre innalzato, e non di poco, il tenore di CO2 dell’atmosfera terrestre). In queste condizioni il CO2 emesso dal vulcanismo sarebbe stato sufficiente per fornire la pressione – e con l’effetto-serra la temperatura – per consentire una temporanea presenza di acqua liquida, ma poi la fuga del CO2 nello spazio e il suo sequestro nel terreno avrebbero ripristinato rapidamente le condizioni preesistenti. 
Se ne stima comunque per il Noachiano (4.1 ÷ 3.5 miliardi di anni fa) quando le acque potevano coprire circa il 20% della superficie ma con profondtà non particolarmente elevate, un quantitativo almeno 6,5 volte superiore a quello odierno (Jakosky et al 2015). 
Durante l’Esperiano (il periodo della storia marziana compreso fra 3.5 e 3.0 miliardi di anni fa) sono esistiti gli ultimi grandi corpi liquidi superficiali in alcuni dei grandi crateri da impatto nella regione equatoriale, ma la quantità di acqua era rapidamente scesa a 2 volte quella presente oggi. 
3 miliardi di anni fa inizia l’Amazzoniano, che arriva fino ai nostri tempi e nel quale l’acqua ha continuato a diminuire, probabilmente in modo continuo.
Il rover Curiosity ha trovato e campionato nel cratere Gale strati di sedimenti, confermando la presenza di minerali argillosi che si formano solo in presenza di acqua liquida. Si deve anche notare come le immagini scattate dal rover siano praticamente indistinguibili da quelle scattate in qualche ambiente terrestre ora arido e privo di vegetali, ma un tempo molto umido. Curiosity ha anche portato alla luce prove di massicci eventi di inondazioni, forse il risultato di impatti meteoritici o cometari su una superficie all’epoca per lo più ghiacciata che hanno rilasciato calore e innescato un rapido scioglimento del ghiaccio superficiale (Rickman et al., 2019).

MA PERCHÈ MARTE HA PERSO QUASI TUTTA LA SUA ACQUA, ALMENO QUELLA SUPERFICIALE? È probabile che all’inizio della sua storia Marte avesse una attività tettonica sufficiente per rifornire di CO2 l’atmosfera attraverso il vulcanismo e assicurare con il suo campo magnetico protezione dal vento solare e dalla radiazione ultravioletta. Però, a causa delle ridotte dimensioni del pianeta, questa attività tettonica si è attenuata molto presto, indebolendo il campo magnetico, in un contesto nel quale la diminuzione dell’attività vulcanica non riusciva a fornirne un quantitativo pari a quello sfuggito nello spazio a causa della bassa gravità e del vento solare. La diminuzione del CO2 atmosferico indebolì a sua volta l’effetto – serra, raffreddando ulteriormente la superficie del pianeta

l'evoluzione delle temperature in una Terra con la nostra atmosfera
e senza atmosfera: si nota come l'effetto serra sia stato determinante
per conservare acqua liquida nel passato più profondo
(Sagan e Mullen, 1972)
LA TERRA: IL PIANETA AZZURRO E IL SUO CICLO DEL CARBONIO. Nella storia del nostro pianeta le temperature hanno consentito la presenza di acqua liquida sulla sua superficie tranne che durante i cosiddetti episodi di “Terra Palla di neve” (Snownball Earth), quando tutta la superficie del pianeta, mari compresi, era quasi totalmente ghiacciata. I parametri orbitali, la copertura nuvolosa, la posizione dei continenti e la rete delle correnti marine hanno una influenza nel determinare le temperature globali, ma il carbonio è il più importante sistema di regolazione delle temperature insieme all’irraggiamento solare. 
Nel 1972 Sagan e Mullen evidenziarono come con l'atmosfera attuale a causa della radiazione stellare più debole, la Terra sarebbe rimasta irrimediabilmente ricoperta dai ghiacci fino a circa 1,5 miliardi di anni fa. È il cosiddetto “paradosso del Sole debole” (Sagan e Mullen, 1972). Solo un’atmosfera caratterizzata da un alto contenuto di gas serra (oltre il 95% di CO2) avrebbe consentito la presenza di acqua liquida sulla Terra in questo primo periodo.
Ma dove è finito tutto quel CO2? È forse volato via nello spazio? No, perché gravità e campo magnetico terrestre ne hanno impedito la fuga a causa del vento solare. In realtà il basso tenore atmosferico attuale (< 0,05%) dimostra che il “Sistema-Terra” richiede più CO2 di quello che viene continuamente emesso in atmosfera dalla attività vulcanica. 

MECCANISMI TERRESTRI DI SEQUESTRO DEL CO2 EMESSO DAI VULCANI. Il primo meccanismo di sequestro del CO2 da parte del Sistema – Terra è stato l’assorbimento da parte degli oceani, sia nelle acque che nei sedimenti
L’avvento della tettonica a placche ne fece nascere di nuovi: lungo le dorsali oceaniche si crea nuova crosta sulla quale si depositano sempre nuovi sedimenti nei quali viene sequestrato ulteriore CO2, mentre dove le placche convergono la vecchia crosta oceanica si immerge nel mantello con i sedimenti e il loro carico di CO2, di cui in seguito risale in superficie solo soltanto quella parte che viene coinvolta nella formazione e nella risalita di magmi mantellici (Chen et al, 2023). Inoltre la tettonica a placche ha prodotto magmi con tenore di silicio maggiore di quelli precedentemente diffusi e che richiedono molta più CO2 per la loro alterazione e ha formato le piattaforme continentali, in cui si depositano sedimenti carbonatici che contengono abbondante CO2.
Anche l’evoluzione della vita ha dato il suo contributo fondamentale, perché la materia organica sequestra CO2. La vita sulla Terra è iniziata almeno 3.8 miliardi di anni fa in condizioni anossiche, quando gli organismi metabolizzavano zolfo ed emettevano metano, stabile nell’atmosfera riducente dell’epoca e in qualche modo provvidenziale, perché contribuva all’effetto-serra che mantenne acqua liquida sulla Terra durante quel periodo in cui il Sole era debole, ma la comparsa della fotosintesi clorofilliana, collocabile fra 2.8 e 2.7 miliardi di anni fa ha introdotto un nuovo, formidabile, processo di sequestro del CO2 atmosferico.

2,4 MILIARDI DI ANNI FA: L'ATMOSFERA TERRESTRE DIVENTA OSSIDANTE. Con tutti questi processi la richiesta di CO2 da parte del sistema – Terra ha superato il quantitativo del composto immesso ogni anno dai vulcani. All’inizio l’ossigeno prodotto dalla fotosintesi non rimaneva nell’atmosfera, che era ancora riducente e lo richiedeva per l’ossidazione della superficie, ma in un tempo inferiore ai 400 milioni di anni la superficie ormai ossidata non ne richiedeva più. Di conseguenza la fotosintesi ha prodotto più ossigeno di quello richiesto, in un regime di consumo di CO2 maggiore rispetto agli apporti e l’atmosfera è così diventata ossidante, come parte delle acque oceaniche: è il Grande Evento Ossidativo di 2.4 miliardi di anni fa (ne ho parlato qui).
Dal punto di vista climatico la diminuzione del tenore di CO2 e la scomparsa del metano (che nelle nuove condizioni ossidanti non poteva certo rimanere stabile), hanno portato ad una drastica diminuzione dell’effetto serra, e la Terra fu interessata per diverse centinaia di milioni di anni da una glaciazione globale, la glaciazione huroniana, che si interruppe solo quando il Sole un po' più energetico e un aumento del CO2 atmosferico riportarono un po' di calore.
Anche la seconda diminuzione del CO2 atmosferico, avvenuta circa 700 milioni di anni fa, è stata accompagnata da due glaciazioni globali lunghe poche decine di milioni di anni ciascuna (gli episodi di Terra palla di neve dello Sturtiano e del Marinoano), durante un periodo significativamente noto come Criogeniano
In seguito l’influenza della biosfera era aumentata: in genere alla morte un corpo viene distrutto, ossidandosi, oppure viene mangiato, ma in alcuni casi i corpi vengono seppelliti: succede sulla terraferma originando torbe, carboni e idrocarburi oppure sul fondo di bacini marini chiusi dove non c’è ossigeno, formando i depositi all’origine di importanti giacimenti di petrolio e gas.
Ed è questo il carbonio che noi ora stiamo tragicamente reimmettendo in atmosfera.

Una storia sommaria del tenore atmosferico di CO2 
dal Devonianio ad oggi
UNA ATMOSFERA IN CUI IL TENORE DI CO2 TENDE A DIMINUIRE. La tendenza generale di diminuzione del tenore atmosferico di CO2 viene bruscamente interrotta solo quando si mettono in posto le Large Igneous Provinces (Grandi Province Magmatiche, da qui in poi indicato con l’acronimo LIP): immense eruzioni basaltiche che in poche migliaia di anni eruttano centinaia di migliaia di chilometri cubi di lave ed emettono incredibili quantità di CO2, il cui tenore atmosferico si innalza bruscamente generando un aumento delle temperature e delle estinzioni di massa.
La conclusione fondamentale è che il termostato del carbonio della Terra ha funzionato efficacemente per miliardi di anni e che i fattori di compensazione continuano ancora oggi ad apportare al sistema-Terra il giusto mix fra radiazione solare e capacità – serra dell’atmosfera, anche se fra qualche centinaio di milioni di anni l’aumento della radiazione solare provocherà anche sulla Terra l’evaporazione degli oceani e un ambiente simile a quello attuale di Venere.

CONSEGUENZE PER LA VITA NEI PIANETI EXTRASOLARI. Con il termine “Zona Goldilocks” gli astrobiologi individuano la fascia intorno ad una stella nella quale è possibile sulla superficie di un eventuale pianeta la presenza di acqua liquida, considerata generalmente la conditio sine qua non per la vita. 
La Zona Goldilock varia in base all’energia emessa dalla stella, ma l’appartenenza alla Zona Goldilocks è una condizione necessaria ma non sufficiente perché:
  1. noi vediamo quel determinato sistema stellare in questo momento, ma come succede per il Sole e per le altre stelle della sequenza principale la zona Goldlock può variare durante la storia del sistema stellare: agli albori della storia del sistema solare la nostra stella era più fioca ed emetteva circa il 25% in meno di energia termica di oggi e in futuro ne emetterà molta di più 
  2. in base alla composizione l’atmosfera di un pianeta può essere più o meno in grado di intrappolare il calore
Da tutto questo discende un appunto fondamentale per la ricerca della vita su altri mondi: non bastano la posizione all’interno della Zona Goldilocks, una atmosfera “interessante” e la presenza di una serie di elementi chimici. Ma per lo sviluppo della vita occorre un termostato a carbonio capace di mantenere temperature adatte alla presenza di acqua liquida per un tempo sufficientemente lungo. 


BIBLIOGRAFIA


Chen et al. (2023). Carbonate-rich crust subduction drives the deep carbon and chlorine cycles. Nature 620, 576–581 (2023)

Chevrier e Rivera-Valentin (2012). Formation of recurring slope lineae by liquid brines on present-day Mars. Geophysical Research Letters, Vol. 39, L21202

Ingersoll (1969) the runaway greenhouse: a history of water on Venus. Journal of Atmospheric Sciences, vol. 26, Issue 6, pp.1191-1198

Jakosky et al (2015). The Mars Atmosphere and Volatile Evolution (MAVEN) Mission. Space Sci Rev195, 3–48 

Orosei et al (2018). Radar evidence of subglacial liquid water on Mars. Science 
361, 490-493

Rickman et al (2019). Water in the history of Mars: An assessment. Planetary and Space Science 166, 70-89

Sagan e Mullen (1972). Earth and Mars: Evolution of Atmospheres and Surface Temperatures. Science 177, 52-56

Scherf et al (2021). Did Mars Possess a Dense Atmosphere During the First ∼400Million Years? Space Sci Rev 217, 2 

Som et al (2015). Earth’s air pressure 2.7 billion years ago constrained to less than half of modern levels. Nature Geoscience 9 (6)


martedì 27 febbraio 2024

La Large Igneous Province di Alborz e l'estinzione di massa della fine dell'Ordoviciano: l'ultimo collegamento che mancava fra una estinzione di massa e la messa in posto di una LIP


Il collegamento fra quattro delle 5 maggiori estinzioni di massa e la messa in posto di Large Igneous Provinces (LIP) è ormai acclarato da tempo. Per quanto riguarda invece la fine dell’Ordoviciano, fino ad oggi non c’era una LIP corrispondente e quindi si sono scatenate le ipotesi extraterrestri più varie (asteroide, supernova etc etc), che però non spiegano i parametri geochimici dei sedimenti dell’epoca. Un lavoro ha finalmente identificato nell’Iran settentrionale la large igneous province di Alborz, databile appunto all’Ordoviciano superiore, evidenziando quindi l’ultimo collegamento mancante fra una LIP e una importante estinzione di massa, nella quale è scomparso l’85% delle specie viventi, risolvendo un problema che si è trascinato per decenni.

LARGE IGNEOUS PROVINCES ED ESTINZIONI DI MASSA. Le Large Igneous Provinces sono delle enormi serie magmatiche, dell’ordine delle centinaia di migliaia se non di milioni di km cubi di magmi, che si mettono in posto in tempi geologicamente brevi. C’è una ampia letteratura che dimostra il legame fra queste enormi eruzioni e gli eventi di estinzione di massa, ad esempio i Trappi della Jacuzia per l’estinzione del Devoniano superiore, i trappi siberiani per la fine del Permiano, i basalti dell’Atlantico centrale per la fine del Triassico e i trappi del Deccan per la fine del Cretaceo (quest’ultimo caso piaccia o non piaccia ai sostenitori dell’asteroide – killer). Anche le estinzioni “minori” sono avvenute in corrispondenza di eventi vulcanici di quel tipo (Kasbohm et al., 2021), per esempio l'estinzione del Cambriano inferiore (basalti di Kalkarindji), del Permiano medio (trappi di Emeishan), gli eventi anossici del Cretaceo (diversi plateau oceanici),   il passaggio Paleocene - Eocene (basalti dell'Atlantico settentrionale). Sono stati proposti diversi meccanismi per spiegare l’associazione fra LIP ed estinzioni di massa, fra i quali i più importanti sono un raffreddamento globale nelle fasi iniziali dell’attività dovuto a importanti emissioni di polveri che loccno la radiazione solare, il riscaldamento globale in corrispondenza del parossismo di attività dovuto alle emissioni di CO2 e SO2, l’anossia nei mari, il rilascio di gas tossici o metalli, l’acidificazione degli oceani e delle piogge. Una sintesi la potete leggere in Ernst et al. (2021). Ho parlato spesso di questo rapporto causa - effetto sia su Scienzeedintorni che sul mio libro "il meteorite e il vulcano, come si estinsero i dinosauri". 

la breve durata dei piani dell'Ordoviciano
superiore e del Siluriano inferiore 
dimostra il prolungato turn-over faunistico
UNA GRANDE ESTINZIONE DALLE CAUSE FINORA NON CHIARE. L'estinzione di massa del tardo Ordoviciano, a causa della sua drammatica perdita di specie, è ampiamente considerata come la seconda più grande delle "Big Five", i 5 maggiori eventi di estinzione di massa del Fanerozoico, a partire dal lavoro di Raup e Sepkoski (1982). 
Come ho scritto, questa estinzione ha avuto finora la particolarità di essere l'unica non associata ad una Large Igneous Province, circostanza che ha ovviamente scatenato la corsa alla ricerca di cause extraterrestri (asteroide e supernova in particolare). Ma il perdurare nel tempo dell'elevato turnover faunistico suggerisce un prolungarsi delle cause non proprio compatibile con eventi puntuali come quelli astronomici.

Finalmente qualcosa si è mosso negli ultimi anni, perchè un numero crescente di osservazioni ha suggerito la presenza di una intensa attività magmatica nell’Ordoviciano superiore e nel Siluriano inferiore, contemporaneo quindi al frequente turnover faunistico che caratterizza questa fase della storia della Terra. Per questo molti ricercatori hanno postulato una LIP come fattore scatenante anche dell’evento di fine Ordoviciano. Ad esempio Li et al. (2021) hanno evidenziato in una serie stratigrafica di quella fase nel sud della Cina un nesso causale tra eventi vulcanici, perturbazioni nel rapporto  isotopico di carbonio e zolfo e cambiamenti ambientali durante il tardo Ordoviciano e il primo Siluriano. Di conseguenza, hanno proposto due periodi di intensificato vulcanismo, il primo tra il Katiano e l’Hirnantiano inferiore e il secondo dal tardo Hirnantiano all’inizio del Siluriano. Nel tempo sono state indicate alcune aree di attività vulcanica potenzialmente in grado di provocare queste variazioni (Siberia orientale, Corea del Sud, Argentina, Canada orientale) ma non paiono essere al livello di una large igneous province (Ernst e Youbi, 2017). 

GONDWANA, TERRENI CIMMERICI E PALEOTETIDE. In pratica la tettonica degli ultimi 500 milioni di anni si potrebbe riassumere così: una perdita di pezzi da parte di un supercontinente meridionale aggregatosi circa 500 milioni di anni fa, che a parte l’Antartide a poco a poco si stanno riagglomerando in un continente settentrionale.
Questo continente di 500 milioni di anni fa comprendeva tutti i continenti a parte le masse ora corrispondenti a America settentrionale (Laurentia), Europa Settentrionale (Baltica) e quasi tutta la Siberia ed è noto in genere come Gondwana ma io, seguendo Powell et al (1999), preferisco usare il termine Pannotia, riservando il termine Gondwana solo a quella parte che si è separata nel Mesozoico per dare vita ai singoli continenti meridionali attuali (ne ho accennato qui)
Nell’Ordoviciano inizia uno dei principali eventi di fratturazione del supercontinente, con il distacco dei “terreni cimmerici”, e cioè una gran parte dei blocchi che ora formano Turchia, Azerbaijan, Iran, Afghanistan e Tibet. Fra questi e il Gondwana si formerà la Paleotetide. Questi terreni poi si sono scontrati nel Triassico con il Kazhakstan e altri blocchi per formare l’Asia. La collisione fra i terreni cimmerici e il Kazakhstan ha provocato la formazione nel Triassico dell’orogene dei Monti Alborz, che si estende in modo sinuoso per circa 2000 km dal Piccolo Caucaso dell'Armenia e dell'Azerbaigian a ovest fino al Kopet-Dagh che segna il confine fra Iran e Turkmenistan, ai Monti Paropamisus dell'Afghanistan settentrionale. In seguito la Paleotetide è stata chiusa nl Terziario quando altre parti del vecchio supercontinente, Afro-Arabia e India, si sono nuovamente uniti ai terreni cimmerici ormai amalgamati nell’Asia (ne ho parlato sempre nel post linkato prima).

l'orogene triassico di Alborz con in rosso le aree studiate da Derakhshi et al (2022
LA (NUOVA) LARGE IGNEOUS PROVINCE DI ALBORZ. Nell'Iran settentrionale la letteratura scientifica ha documentato una vasta serie di magmi, in genere alcalini, messi in posto in un ambiente intraplacca tra l’Ordoviciano medio e il Siluriano, con degli impulsi coevi con le tracce di magmatismo trovate in Cina e non solo. Sono distribuiti su una lunghezza di 1700 km e in alcuni casi il loro spessore è superiore ai 1000 metri. 
  • Questa attività era già stata messa in relazione con il rift continentale che alla fine ha portato all'apertura della Paleotetide. 
  • Derakhshi et al (2022) hanno unito tutti questi magmi in una Large Igneous Province che chiamano LIP di Alborz. 

Dobbiamo inoltre notare che  il periodo che precede l'apertura di un nuovo bacino oceanico rappresenta le condizioni geodinamiche ideali per la formazione di Large Igneous Provinces (e in genere di un magmatismo abbondante, come è successo ad esempio dal passaggio Permiano - Triassico e fino al passaggio Paleocene - Eocene prima delle separazioni fra continenti chge hanno guidato la formazione dell’Oceano Atlantico e dell’oceano Indiano e quindi la fratturazione del Gondwana.
Per quanto riguarda la tempistica degli eventi più che delle datazioni assolute sono importanti quelle relative, in particolare ai limiti dei piani in cui è diviso l’Ordoviciano. Nei sedimenti dell’area gli Autori evidenziano una correlazione temporale fra le anomalie del mercurio, legate alla attività magmatica e l'evento di estinzione di massa del tardo Ordoviciano. Inoltre nel Darriwilliano inizia un significativo declino globale del rapporto 87Sr/86Sr: si tratta di una tipica sintomatologia  derivante da un alto tasso di alterazione chimica dei silicati dovuti alla maggior acidità dell’atmosfera e delle acque, evidentemente innescata dalle emissioni di CO2 e SO2 associate alle eruzioni.
Sulla base del lavoro sul campo, delle età relative e anche delle datazioni radiometriche l'inizio degli eventi vulcanici coincide con l’inizio del Darriwiliano; c’è poi un altro picco di attività vulcanica al passaggio Sandbiano-Katiano, mentre il culmine del vulcanismo avviene durante il tardo Katiano-Hirnantiano. È da notare che la scala geologica dei tempi funziona su base bio-stratigrafica e quindi la durata molto limitata dei piani dell’Ordoviciano superiore (l’Hirnantiano è lungo meno di due milioni di anni!) dimostra l’estrema velocità del turn-over faunistico, che continuerà anche nel Siluriano, fino a quando si concluderà l’attività del rift che ha poi portato - appunto - all’apertura della Paleotetide.

IN CONCLUSIONE: LA LIP DI ALBORZ COME CAUSA DELL’ESTINZIONE DELLA FINE DELL’ORDOVICIANO. Derakhshi et al (2022) forniscono un insieme di prove per le quali i magmi dell’Iran settentrionale costituiscono una Large Igneous Province, la cui attività diventa un valido candidato per l’innesco dei cambiamenti ambientali alla base dell’estinzione di massa della fine dell’Ordoviciano, colmando una importante lacuna nelle connessioni fra eventi biotici ed eventi geologici nella storia della Terra.


BIBLIOGRAFIA

Derakhshi et al (2022), Ordovician-Silurian volcanism in northern Iran: Implications for a new Large Igneous Province (LIP) and a robust candidate for the Late Ordovician mass extinction Gondwana Research Gondwana Research 107 (2022) 256–280

Ernst et al (2021). Large Igneous Province Record Through Time and Implications for Secular Environmental Changes and Geological Time-Scale Boundaries. Chapter 1 In: Ernst, et al (eds.) Large Igneous Provinces: A Driver of Global Environmental and Biotic Changes. AGU Geophysical Monograph 255, pp. 3-26.

Ernst e Youbi (2017). How Large Igneous Provinces affect global climate, sometimes cause mass extinctions, and represent natural markers in the geological record. Palaeogeogr. Palaeoclimatol. Palaeoecol. 478, 30–52.

Kasbohm, et al (2021). Radiometric Constraints on the Timing, Tempo, and Effects of Large Igneous Province Emplacement. In: Ernst et al (eds.) Large Igneous Provinces: A Driver of Global Environmental and Biotic Changes. pp. 27-82.

Kozik et al (2022) Rapid marine oxygen variability: Driver of the Late Ordovician mass extinction , Sci. Adv. 8, eabn8345 (2022)

Li et al, (2021). Carbon and sulfur isotope variations through the Upper Ordovician and Lower Silurian of South China linked to volcanism. Palaeogeogr. Palaeoclimatol. Palaeoecol. 567

Powell et al (1995). Did Pannotia, the latest Neoproterozoic southern supercontinent, really exist?: Eos (Transactions, American Geophysical Union), Fall Meeting,76,46, p.172
3.

Raup e Sepkoski Jr (1982). Mass extinctions in the marine fossil record. Science 215, 1501–1503

 

venerdì 23 febbraio 2024

in base ai modelli fra qualche giorno potrebbe esserci la quarta eruzione in 3 mesi vicino a Grindavik


Dopo una fase introduttiva durata parecchie stettimane tra ottobre, novembre e metà dicembre in cui il poco viscoso magma basaltico ha iniziato a salire dalle profondità della crosta islandese, nella penisola di Reykjanes (e più precisamente nella zona di Grindavik) il leit-motiv di questi ultimi mesi è rappresentato da cicili di accumulo di magma a bassa profondità con sollevamento del terreno (accompagnato anche da qualche collasso), seguiti da una breve eruzione., dopo la quale inizia il nuovo ciclo di “ricarica”. Il ciclo è già avvenuto 3 volte ma ora siamo in vista della quarta eruzione da quella iniziata a metà dicembre. 
Il grafico mostra un confronto del volume di magma accumulato sotto Svartsengi prima che il magma fuoriuscisse vicino a Grindavik durante gli eventi recenti. Il volume è calcolato da un modello basato su dati GPS ed è ovviame soggetto a incertezza. Si possono osservare variazioni significative anche tra i giorni. L'attuale stato di accumulo del magma al 22 febbraio è contrassegnato dalla linea marroncina.  

il grafico dell'andamento del'accumulo di magma dal primo giorno di sollevamento in poi.


L’individuazione del possibile scenario si basa sull'interpretazione dei dati più recenti e sullo sviluppo osservato degli eventi precedenti che sono avvenuti in questi mesi nell'area e ovviamente hanno un certo margine di’incertezza, poiché si basano appunto solo su pochi eventi.
I calcoli basati su questo modello indicano che dalla fine dell’eruzione precedente sotto Svartsengi si sono accumulati circa 5 milioni di metri cubi di magma. Considerando l’andamento degli episodi eruttivi precedenti, la probabilità di un'eruzione è molto alta se e quando il volume raggiungerà gli 8-13 milioni di metri cubi. Sulla base dei calcoli del modello, se il magma continuasse ad accumularsi al ritmo attuale ciò potrebbe verificarsi già all’inizio della prossima settimana.
Va comunque notato che non si può affermare con sicurezza che questo sarà lo scenario reale  e che il comportamento sarà identico a quello degli eventi precedenti, anche se evidentemente la probabilità che avvenga così sono alte. Inoltre, esiste la possibilità che il magma possa migrare sotto Sundhnúkur con l’apertura di un nuvo dicco, trovando spazio senza provocare per adesso l’eruzione.

carta del rischio valida dal 23 al 26 gennaio, al netto di possibili sviluppi

Gli scienziati stimano che in caso di eruzione, questa si propagherà da Svartsengi verso il cratere Sundhnúkur, tra Stóra-Skógfell e Hagafell, la fascia che ho indicato con la linea rossa dove la crosta è più debole. I settori più a rischio sono infatti quelli più scuri. Come si vede Grindavik è ancora nella fascia di maggiore pericolosità, anche se dal 19 febbraio è stato tolto l'ordine di evacuazione, consentendo il ritorno degli abitanti e la ripresa delle attività economiche
Il segnale precursore principale dell’eruzione sarà un improvviso aumento dell’intensa attività sismica con molti terremoti localizzati e di piccola magnitudo e l’evento potrebbe iniziare con poco o nessun preavviso: n uno scenario in cui il magma risale verso la superficie direttamente da Svartsengi, si stima che i primi segnali verrebbero identificati 4-7 ore prima che il magma raggiunga la superficie e l'ultima volta sono state poche ore e per di più nella notte.



mercoledì 7 febbraio 2024

la interessante proposta di un aggiornamento nella scala del tempo geologica della Luna


Una scala del tempo geologico di un pianeta è un sistema cronologico con il quale, definendo una sequenza temporale ricavata da osservazioni geologiche, si correlano nel tempo gli avvenimenti avvenuti in un pianeta e ne mostra l'evoluzione progressiva. Un team sino-americano ha proposto un aggiornamento della scala del tempo geologico della Luna, ideata grazie ai progressi della ricerca post-Apollo. Questa nuova scala fornisce un quadro integrato per rappresentare l’evoluzione della Luna e ha importanti implicazioni per lo studio geologico di altri pianeti di tipo terrestre.

La scala temporale della Luna fu stabilita mezzo secolo fa ai tempi delle missioni Apollo, ma negli ultimi decenni una vasta gamma di studi ha significativamente ampliato la nostra comprensione dell’evoluzione geologica lunare globale utilizzando dati con copertura spaziale e risoluzione molto migliori rispetto a quelle osservazioni pionieristiche. Inoltre le missioni Apollo hanno riguardato la faccia visibile della Luna, per cui viene considerata poco la sua faccia nascosta, che invece è quella in dove si trovano le zone più antiche e primordiali (Jolliff et al., 2000).
Grazie quindi a questi notevoli miglioramenti sono stati proposti due importanti aggiornamenti della scala temporale degli eventi lunari, anticipata in Ji et al (2022) e spiegata più dettagliatamente in Guo et al (2024): 
  • il primo consiste in un “rinnovo” della cronologia iniziale della storia lunare
  • il secondo il raggruppamento delle varie unità temporali, anche quelle più recenti, in tre eoni

la cronostratigrafia lunare attuale con il tipo di avvenimenti principali





LA CRONOLOGIA DEGLI INIZI DELLA STORIA LUNARE (IL PRE-NECTARIANO). Fino ad oggi quanto avvenuto prima del Nectariano è stato definito pre-Nectariano e vede due fasi distinte ma che non erano state ancora divise formalmente, ben indicate dalla tabella qui sopra: 
  • una fase iniziale in cui la superficie del nostro satellite è completamente coperta da un oceano di magma (che è avvenuta anche sulla Terra
  • una seconda in cui, cristallizzatasi la superficie, si formano una trentina di crateri da impatto particolarmente evidenti (fino a quando c’era l’oceano di magma le tracce degli impatti venivano perse presto). 
Il limite fra le due fasi corrisponde all’impatto del corpo che ha provocato la formazione del del grande (anzi, direi enorme perché ha un diametro di 2.500 km!) cratere di Aitken – Polo sud, posto al polo sud lunare. È praticamente invisibile dalla Terra essendo quasi integralmente nella faccia nascosta (se ne vede solo delle alture corrispondenti a parte del suo bordo) ed è probabilmente la più antica struttura da impatto lunare riconosciuta (Hiesinger et al., 2012). 
La formazione del cratere Aiken – Polo Sud per diversi Autori, come ad esempio Orgel et al (2018) è avvenuta tra i 4,2 e i 4,3 miliardi di anni. Essendo il più grande cratere lunare da impatto, i suoi ejecta, diffusi in buona parte della superficie lunare, sono indicati come formazione di Das. Ma questo limite non aveva ancora un ruolo preciso e definito chiaramente nella cronostratigrafia lunare.
Secondo Guo et al (2024) invece la formazione di Das evidenzia un fatto epocale e cioè dopo la solidificazione della superficie dell’oceano di magma iniziale si tratta, al momento, dello strato più antico prodotto da processi non dovuti all’attività tettonica e magmatica della Luna stessa. Pertanto lo usano come marker stratigrafico per dividere il Pre-Nectriano in due periodi differenti, il Magma-oceaniano e il successivo Aitkeniano (dal nome, appunto del cratere Aitken – Polo Sud) (NB: chiaramente la deposizione della Formazione di Das costituisce un limite massimo dell'età in cui ha cessato di esistere l'oceano di magma).


IL NUOVO RAGGRUPPAMENTO DI TUTTE LE ETÀ DELLA CRONOSTRATIGRAFIA LUNARE. Dopo questa essenziale ridefinizione cronologica delle fasi iniziali della storia lunare, Guo et al (2024) hanno diviso la storia della Luna in tre eoni (sulla Luna Ere ed Eoni possono essere considerati sinonimi), ciascuno dei quali rappresenta fasi distinte dell’evoluzione lunare in base al livello di interazione fra processi endogeni ed esogeni. 
Questo nuovo schema mira a fornire una comprensione più integrata dell’evoluzione geologica della Luna, soprattutto alla luce dei progressi successivi al periodo delle missioni Apollo.

L'Eone Eolunare, datato da 4,52 a 4,31 miliardi di anni fa, segna il periodo della formazione dell'oceano di magma della Luna, della sua differenziazione e della solidificazione della crosta primaria. Questo eone, prevalentemente modellato da forze endogene, comprende il solo Magma-oceaniano e finisce con la deposizione della formazione di Das.

Il successivo Eone Paleolunare, che si estende da 4,31 a 3,16 miliardi di anni fa, ha visto un equilibrio tra processi endogeni, come le attività vulcaniche, e quelli esogeni, come eventi di impatto significativo. Rappresenta una fase in cui le forze interne ed esterne modellano in modo significativo la superficie lunare e comprende il nuovo periodo Aikteniano, il Nectariano e l’Imbriano.
Da notare che il Pre-Nectariano oltre che essere stato diviso in due periodi diversi, ricade in questa classificazione addirittura in due eoni diversi, l’Eolunare e il Paleolunare.

Il più recente, l'Eone Neolunare, che iniza 3,16 miliardi di anni fa e si estende fino ad oggi, è caratterizzato dalla predominanza di processi esogeni, con una sempre più marcata riduzione delle attività vulcaniche, mentre gli eventi di impatto hanno giocato il ruolo più significativo nell’alterare il paesaggio lunare.

L’introduzione di questo nuovo schema di scala temporale lunare, comprendente tre Eoni e sei Periodi, fornisce un quadro sistematico per descrivere la storia evolutiva della Luna e sottolinea l’importanza di comprendere sia i processi interni che quelli esterni nel modellare la geologia lunare. Questo approccio non solo migliora la nostra comprensione del passato della Luna, ma offre anche un modello per studiare l'evoluzione geologica di altri pianeti terrestri.
Ji et al (2022) hanno utilizzato questo schema nella mappa geologica globale lunare in scala 1:2,5.000.000, dimostrando la sua applicazione pratica negli studi lunari. 

BIBILIOGRAFIA

Guo et al (2024). A lunar time scale from the perspective of the Moon’s dynamic evolution Sci China Earth Vol.67 No.1 249 

Hiesinger et al (2012). New crater size-frequency distribution mea- surements of the South Pole-Aitken basin. In: 43rd Lunar and Planetary Science Conference. 43: 2863

Ji et al (2022) The 1:2,500,000-scale geologic map of the global Moon. Science Bulletin 67 (2022) 1544–1548

Jolliff et al (2000). Major lunar crustal terranes: Surface expressions and crust-mantle origins. J Geophys Res, 105: 4197–4216

Orgel et al (2018). Ancient bombardment of the inner solar system: Reinvestigation of the “fingerprints” of different impactor populations on the lunar surface. J Geophys Res-Planets, 123: 748–762

Wilhelms et al (1987). The Geologic History of the Moon. Washington DC: U.S. Government Printing Office


mercoledì 24 gennaio 2024

i corsi d'acqua di Firenze, a cielo aperto e tombati, da una cartografia della Regione Toscana


1. la carta che utilizza la cartografia regionale. Con la stella è indicato il punto della foto 3

Questa carta, che viene dalla cartografia tematica della Regione Toscana, fotografa la situazione dei corsi d’acqua nel comune di Firenze e nelle aree limitrofe. Come è noto, a Firenze non c’è solo l’Arno: ci sono anche diversi suoi affluenti, di cui almeno uno, il Mugnone, ha svolto un ruolo attivo nella fondazione della città quando, passando per l’attuale via Tornabuoni, era il fossato di cinta del castrum romano. Il Mugnone poi ha subìto anche diverse modifiche durante l’espansione verso ovest della città dal periodo medievale a quello rinascimentale, come si vede dall’immagine in fondo al post (la 4). 
Nella prima immagine vediamo in celeste i corsi d’acqua che scorrono a cielo aperto, mentre in rosso tratteggiato (e non, misteri di Qgis...) i corsi d’acqua tombati nel comune di Firenze. Ho detto appunto che "scorrono a cielo aperto", ma il loro percorso è stato modificato dall'attività antropica e questo vale per tutti, compreso l'Arno.

DESTRA IDROGRAFICA DELL'ARNO. L’operazione di questo tipo più nota (anzi, l’unica veramente conosciuta), è, in riva destra dell’Arno, il tombamento dell’Affrico, eseguito addirittura dopo l’alluvione del 1966 (boccaccia mia statte zitta….). 
La parola boccaccia mi fa venire in mente il Boccaccio, che cantò l’Affrico e il suo vicino Mensola nel “Ninfale Fiesolano”. L’Affrico ormai è in piena città mentre il Mensola, che sfocia un po' più a monte, ne è più lontano e quindi ha evitato il trattamento riservato al suo amante nel poemetto di Boccaccio, tranne nella parte finale prima della confluenza con l’Arno, urbanizzata. Questo tombamento, molto corto, è peraltro caratterizzato da una scarsissima portata (e l’impossibilità di migliorarla): tutto ciò ha portato alla realizzazione di una cassa di espansione con relativo parco pubblico. 

2. le "rapide" con le quali il Mugnone si getta in Arno
credit: Autorità di Bacino dell'app. Settentrionale
Tra l’Affrico e il Mugnone c’era il fosso di San Gervasio (e che forse proseguiva nel fosso di Scherraggio, quello che scorrendo per le attuali vie del Proconsolo, dei Leoni e dei Castellani fungeva da fossato orientale di Florentia). C’era, perché non ve ne è traccia nella cartografia. Per qualcuno oggi finisce - deviato - nel Mugnone alle Cure, ma ammetto di non saperne niente.
Quanto al Mugnone, ha rischiato il tombamento negli anni ‘80 quando qualcuno voleva costruirci sopra una strada. Il torrente, assieme al Terzolle, ha provocato una alluvione abbastanza devastante nel 1992: non oso pensare cosa sarebbe successo se il suo alveo fosse stato coperto dalla strada. 
Una caratteristica importante di questo torrente è che scorre nella piana ad un livello particolarmente alto e infatti sfocia nell'Arno con una cascata (foto 2). Addirittura il quartiere di San Iacopino in riva sinistra è posto mediamente 5 metri circa sotto al quartiere di via Circondaria, in riva destra. Eppure nel 1992 si allagò la parte più alta in riva destra, perchè il torrente uscì dagli argini in riva destra a monte del ponte della ferrovia e l'alveo nel tratto di San Jacopino riuscì a riprendere tutta l'acqua, insieme a quella del Terzolle, salvando non solo quel quartiere, ma anche Novoli.
Manca all’appello (o meglio, alla visibilità) il percorso urbano del fosso dell’Arcovata, che una volta si immetteva nel Mugnone immediatamente a monte della confluenza con il Terzolle, scorrendo quasi perpendicolarmente ad esso. Invece questa carta evidenzia come l’Arcovata sfoci nel Terzolle a monte di Ponte all’Asse, dopo una deviazione non proprio naturale (con una simpatica annotazione di toponomastica urbana notiamo che non passa più dalla zona di … via dell’Arcovata!!). Sono inoltre tombati nel tratto che passa per l’area urbanizzata anche gli affluenti in riva sinistra del Terzolle provenienti dalle alture tra il Poggetto e Careggi.
Il Terzolle non è tombato. Ma ha diversi ostacoli di cui parlerò in un prossimo post.

3. i resti dell'alveo del fosso di Gamberaia e il ponticino di via dei Bastioni
all'incrocio con il viale Michelangiolo
SINISTRA IDROGRAFICA DELL'ARNO. In riva sinistra con i colli vicinissimi al fiume, di fossi ce ne sono pochi. Nella parte che scende dalle alture sono liberi, ma giungono tutti al fiume tombati. Interessante il fosso di Gamberaia, che scende nella valle da cui partono i viali dei colli, di cui è rimasto ancora all’aperto il tracciato da piazza Ferrucci lungo la prima parte del viale Michelangiolo. Addirittura all’incrocio fra il viale e via dei Bastioni c’è ancora ben visibile il ponticello che lo attraversava. 
Poco più a valle è coperto nel tratto urbanizzato dell’antico quartiere di San Niccolò il fosso di Carraia che scende dall’Erta Canina (strada spettacolare che consiglio di fare, ma in discesa, sia per godere di un panorama unico sia perché salendo è davvero una erta ... “canina”).
Come per il fosso di San Gervasio in riva destra, stupisce l’assenza di un rio che scende dal Poggio Imperiale e di un’altro che doveva unirsi ad esso provenendo dal colle di Bellosguardo e che entrava nel piano nella zona di piazza Tasso. Ho idea che siccome piazza Tasso si chiamava in precedenza piazza Gusciana, nome ora di una piccola via adibita a parcheggio lungo le mura, quel nome fosse appunto appannaggio del rio che scendeva da Bellosguardo.

Un altro torrente che scorre all'aria aperta interessa la parte meridionale del comune di Firenze, contrassegnando per un lungo tratto il confine con il comune di Bagno a Ripoli. È l’Ema, che si getta nella Greve al Galluzzo (vicino alla Certosa). A parte un breve tratto nel comune di Scandicci, il percorso finale della Greve, tutto all'aria aperta, prima della confluenza in Arno passa per il territorio comunale di Firenze (in particolare a Ponte a Greve), lambendo subito prima della foce la frazione di Mantignano. Il torrente scorre incassato in una valle a monte del tratto scandiccese, mentre quando sbuca nella piana è circondato da importanti argini anche se a differenza del Mugnone il suo corso è ad un livello più basso rispetto alla piana e sfocia in Arno allo stesso livello.

4. le deviazioni del Mugnone dal 1000 ad oggi
SPARITO IL RETICOLO DELLE BONIFICHE. Subito oltre il confine comunale, nei territori di Sesto Fiorentino, Campi Bisenzio e Signa, si nota nella piana la presenza, fuori dal comune di Firenze, del reticolo delle bonifiche, che invece dall’aeroporto verso la città scompare, mangiato dall’espansione dell’abitato nel dopoguerra. Questo succede non solo in riva destra, ma anche in riva sinistra. In riva destra infatti sopravvivono solo i corsi d’acqua maggiori, mentre in riva sinistra il reticolo regionale non evidenzia nessuna asta fluviale tra il fosso di Gamberaia, quindi a monte del centro storico, fino alla Greve, praticamente ai limiti comunali.

IL PERICOLO DI ALLUVIONI A FIRENZE. È quindi evidente che se tutto il vecchio reticolo delle bonifiche è scomparso, tutte le piogge vengono smaltite dal sistema fognario. Un evento particolarmente impressionante di una estate di una decina di anni fa, con una pioggia molto intensa durata diverse ore non ha sortito grossi effetti, segno quindi che tutto sommato il sistema di scolmatura delle piogge funziona (se viene manutentato...). 
Ho parlato in passato delle casse di espansione in realizzazione (o purtroppo ancora in progetto) a monte di Firenze. Diciamo che con il nuovo regime climatico però più che le grandi alluvioni a seguito di piogge intense e prolungate che coprono quasi interamente i maggiori bacini idrografici come quello dell’Arno, oggi la preoccupazione riguarda le violente piogge in bacini di ridotte dimensioni. Il problema quindi diventa del reticolo minore. Oltre al Mensola anche per l’Ema è stata realizzata una cassa di espansione, ma anche lì, specialmente nel comune di Bagno a Ripoli, piccoli rii tombati hanno provocato grossi guai pochi anni fa; quanto al Mugnone è stato oggetto di un intervento per la mitigazione del rischio idraulico come lavori propedeutici per la nuova stazione AV. 
Rimane da sistemare il Terzolle, anche per colpa di qualche improvvida costruzione che lo interessa. Ma questa è un’altra storia.

lunedì 22 gennaio 2024

il terremoto M 7.0 del 22 gennaio 2024: il Tian Shan, un orogene paleozoico riattivato nel Terziario per la collisione fra India ed Eurasia


Il terremoto M 7.0 del 22 gennaio 2024 nel Tian Shan al confine fra Cina e Kirghizistan i è verificato a causa di una faglia inversa con componente trascorrente e non è un evento casuale: entro 250 km di distanza si è verificato un evento M 7.1 nel marzo del 1978, mentre nel gennaio 1911 il terremoto di Kemin di magnitudo 8.0, vicino al confine tra Kirghizistan e Kazakistan ha ha causato ingenti danni e provocato qualche centinaio di vittime. La regione epicentrale è caratterizzata da numerose faglie inverse con andamento est-nordest, faglie trascorrenti sinistre e bacini intermontani.

i terremoti intorno alla Cina da Wang e Shen 2020. La stella indica il terremoto del 22 gennaio 2024

Ma perché questi terremoti in un’area ad oltre 2.000 km dal limite di placca più vicino (l’Himalaya)? Perché l’Asia Centrale, pur apparendo enorme e solida, è invece il risultato di una aggregazione paleozoica (e quindi tettonicamente recente) di un gran numero di frammenti continentali e archi magmatici (il CAOB, il grande orogene dell’Asia centrale, ne ho parlato qui). Di conseguenza la collisione dell’India con l’Eurasia ha destabilizzato la situazione, rimettendo in movimento fra loro i vari frammenti. 
L’orogenesi che ha prodotto il Tian Shan è appunto avvenuta nel quadro della formazione del CAOB nel Paleozoico superiore, a causa della collisione fra il continente del Kazakhstan (Khazania) e il blocco del Tarim. Quest’ultimo è in genere noto come un blocco continentale, ma gli studi recenti ne suggeriscono un’origine diversa, un blocco oceanico rimasto integro nello scontro fra due continenti (Morgan e Vannucchi, 2022)
Dal Terziario inferiore, e cioè da quando l’India ha iniziato ad incunearsi dentro l’Asia, il Tian Shan fornisce un esempio classico di orogene intracontinentale, situato a circa 2000 km a nord della zona di collisione indo-eurasiatica. L’importante sforzo tettonico che l’India esercita su blocchi dalle caratteristiche reologiche differenti provoca deformazioni differenziate, da cui seguono terremoti che si generano lungo le faglie preesistenti ereditate dalla collisione fra Kazhakia e Tarim. 
Le misure GPS di Zubovich et al (2011) evidenziano come l’orogene paleozoico assorba ancora una deformazione piuttosto importante, perché a sud di esso la spinta dell’India produce uno spostamento verso nord rispetto all’Eurasia, mentre a nord dell’orogene i movimenti sono praticamente nulli. Pare incredibile ma alla longitudine del Kirghizistan, il bacino del Tarim converge con l'Eurasia a 20 ± 2 mm/anno, quasi due terzi del tasso di convergenza totale tra India ed Eurasia a questa longitudine!!

velocità GPS nel Tian Shan e nelle aree adiacenti da Zubovich et al (2010)


BIBLIOGRAFIA

Morgan e Vannucchi (2022)
. Transmogrification of ocean into continent: implications for continental evolution. PNAS 119/15 e2122694119

Wang & Shen (2020). Present‐day crustal deformation of continental China derived from GPS and its tectonic implications. Journal of Geophysical Research: Solid Earth, 125, e2019JB018774.

Zubovich et al (2010). GPS velocity field for the Tien Shan and surrounding regions. Tectonics 29, TC6014